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Manifesto per la costruzione della terza forza (primi 5 punti)

di Gianfranco La Grassa - 25/09/2006

COSTRUIRE LA “TERZA FORZA”

 

1. Che si sia in dieci o in cinque, insomma che si sia pure un piccolissimo gruppo di “folli”, è in ogni caso necessario intanto pensare come si fosse una terza forza, con intenti nettamente differenti, anzi contrari, sia a destra che sinistra; e ovviamente contro centrodestra e centrosinistra, quindi anche contro ogni tentazione della cosiddetta “via di mezzo”, che oggi viene condotta avanti, nel nostro paese, come progetto di partito democratico o di grande coalizione o di altri marchingegni tutti tesi a trovare una via di uscita moderata all’evidente crisi verticale della “democrazia” fondata su un bipartitismo sempre meno efficace. In Italia, quest’ultimo non ha mai attecchito, ma è in sostanziale crisi anche in Inghilterra o negli USA, dove ampia è l’astensione (in specie nel secondo e più decisivo paese) e la contrapposizione tra due schieramenti è di fatto un intreccio tra loro, con posizioni che spesso si confondono, con una convergenza di entrambi verso il centro, con una labilità dell’opinione pubblica che passa, in pochissimi giorni, dal favore al disfavore verso questo o quello in base a fattori personali o, comunque, del tutto emotivi, privi di qualsiasi duratura connotazione di scelta motivata e convinta, tesa ad alternative che siano veramente tali.

Lascio perdere i paesi europei “nordici”, cosiddetti del vero Welfare, che sono la morte dell’anima, il “grande sonno”, che vivono “civilmente” e nel benessere “ben organizzato” perché poco densamente popolati e fuori dai grandi moti della Storia. Essi di fatto seguono la scia degli altri. La seguono bene, con molto ordine e “buon senso”, ma senza slanci e passioni, con l’ordinarietà degli “uomini medi”. Su di essi si potrebbero pronunciare le frasi del personaggio interpretato da Orson Welles nel film Il terzo uomo: in Italia, durante il Rinascimento, era tutto un tradimento, avvelenamenti, lotte fratricide, grande caos, ecc. ma ci fu quel grande movimento artistico, scientifico, culturale in senso ampio; in Svizzera, ordinatissima e “civilissima” per secoli, si erano solo fabbricati la cioccolata e l’orologio a cucù. Appunto: dove si è sviluppata la grande scienza, la grande letteratura e arte, la grande filosofia? Dove ci sono state vere lotte e rivoluzioni, vere tragedie, veri avanzamenti non solo materiali ma pure dello spirito umano? Si tratta in fondo di scegliere se si vuole la medietà, cioè la mediocrità, o una vita un po’ più degna d’essere vissuta.

La terza forza è senz’altro oggi assai simile all’Isola che non c’è di Peter Pan; ma quest’isola in fondo c’era per “colui che non voleva invecchiare”. E noi dobbiamo non voler invecchiare; non certo però per restare giovani senza alcun mutamento – quindi, in realtà, per invecchiare credendo di essere ancora giovani nella nostra immaginazione, mediante il mero rifiuto di cambiare – bensì per liberarci delle varie cariatidi ancora abbarbicate al pensiero di un’epoca ormai tramontata, i cui miasmi velenosi ci avvolgono ancora. Siamo sempre alle solite: le mort saisit le vif, gli zombies impazzano tra noi e ci mordono facendoci diventare uguali a loro; o, se si preferisce altra letteratura e altro punto di vista (tuttavia analogo), siamo come ne Il rinoceronte di Ionesco. Liberiamoci di questo vecchiume, in pochi o tanti che si sia al presente.

 

2. Voglio dire che sono d’accordo con gli amici che puntano all’accumulazione delle forze, senza illudersi di potere, in questo frangente storico e in occidente, trascinare le masse in direzione dei mutamenti – in realtà, veri sconvolgimenti – ormai necessari, ma di cui la cosiddetta opinione pubblica (o “ggente”) non ha sentore, comportandosi come i candidati cadaveri o naufraghi del Titanic poco prima della catastrofe. Poiché, in questa congiuntura, siamo pochi, e lo saremo ancora per un tempo non prevedibile, mi sembra abbastanza ridicolo che pensiamo fin da oggi a “radicarci tra le masse”, e ad usare perciò le tattiche più adeguate a tale scopo. Possibile che non ci si renda conto di che cosa sono queste tattiche? Quelli che alla fine costituirono Rifondazione comunista esitarono a lungo, poi si staccarono dal PCI divenuto PDS e infine DS, mantenendo però, tatticamente, i rapporti con la “sinistra” in quanto “meno peggio”, per non perdere i contatti con le “masse”. Intanto i DS sono arrivati al 17% dell’elettorato (da oltre il 30% del PCI) e Rifondazione si è sempre più spostata su posizioni moderate, nemmeno più antimperialiste. Allora si è radicalizzata (più a parole che altro) al suo interno la corrente dell’Ernesto, che non ha rotto per non perdere i contatti con le “masse” (quando tale partito continua ad oscillare tra il 5 e il 7% dei voti). E anche la corrente in questione si è infine sfrangiata, sbriciolata, andando su posizioni moderate e compromissorie. Allora si sono staccati dal partito alcuni brandelli (“trozkisti”), che tuttavia stanno attenti a dove si trovano le “masse”, ridotte a percentuali irrisorie; poi litigano fra loro, sempre però con l’ossessione di “stare a sinistra”.

Questa faccenda della sinistra è istruttiva. Ai miei tempi, nessun comunista cosciente si considerava di sinistra; la sinistra era quella “cosa”, che al momento opportuno, quando fosse stato storicamente possibile, i comunisti avrebbero portato davanti ai plotoni di esecuzione. Perché questo sarebbe il posto “più naturale” per la sinistra. In questo momento, tuttavia, non ha alcun senso pensare ad un simile trattamento; ma tanto meno senso ha – per chi non rinnega tutti gli intendimenti, di reale cambiamento sociale del capitalismo, nutriti in passato – inseguire tale sinistra, ormai filocapitalista e filoimperialista (e oggi anche filosionista), in fase di continua degenerazione e sempre più pericolosa per la sua reazionarietà, unita ad intrinseca abitudine all’ipocrisia, viltà e menzogna (la famosa doppiezza di antica data) e alla più completa inettitudine politica, alla mediocrità del pensare e all’atavica e strutturale carenza di analisi delle situazioni. Stare a sinistra è ormai un grave pericolo oltre che una mortale malattia. Ovviamente – non dovrebbe essere necessario ribadirlo – noi non siamo mai stati di destra; e non abbiamo alcuna simpatia per eventuali – lo ribadisco: oltretutto inutili essendo così pochi – tatticismi che ci portino ad ambigue alleanze con quest’ultima onde battere la sinistra. Dobbiamo essere rigorosamente contro destra e sinistra; denunciare il loro gioco conflittuale, che conduce al potere solo i loro gruppetti dirigenti a danno delle popolazioni, oggi certo beote e totalmente inconsapevoli, persino non più in grado di riflettere al futuro che si prospetta; perché chi si “è bevuto il cervello”, e al momento si tratta della stragrande maggioranza del “poppolo”, vive solo il presente. Noi siamo, senza mezzi termini, per una terza forza, che attualmente non esiste, ma che è l’unica speranza per il futuro.

Certamente, per un attimo proiettandoci in un’epoca in cui fossimo una organizzazione realmente attiva nel campo della politica – anche quella di tutti i giorni, quella comunque legata a fatti contingenti – sarebbe indispensabile attuare delle tattiche; e quindi scegliere con chi stare momentaneamente, con chi transitoriamente e assai labilmente allearsi, senza tuttavia mai perdere nemmeno un briciolo della propria identità. In questa instabile e provvisoria, e cangiante, tattica di alleanze, è del tutto probabile che, dovendo scegliere per una parte o per l’altra, si stabilirebbero dei contatti politici con la sinistra. Sempre però con le dovute avvertenze. Innanzitutto, non deve trattarsi di alleanza a tutto campo, riguardante l’intero arco delle scelte da fare. Oggi, ad es., sarebbe necessario assumere questa posizione in politica estera, ma non certo per quanto concerne quella interna, in specie sul piano economico-sociale. In secondo luogo, non si deve concedere alcun credito di sincerità e di chiarezza di intendimenti alla sinistra; si deve invece costantemente denunciare la sua ipocrisia, la sua “lingua biforcuta”, i suoi tentennamenti, le sue nascoste manovre di collusione con il nemico, che indeboliscono l’azione dell’alleanza tattica.

Come esempio da seguire pensiamo al comportamento dei comunisti cinesi nel Fronte nazionale antigiapponese; non certo a quello dei comunisti nei Fronti popolari in Europa, vero esempio negativo, di ciò che non si deve fare. E, quando è necessario e possibile, si deve impartire una dura lezione agli alleati, solo temporanei e infidi, come del resto accadde spesso durante la Resistenza europea e italiana; in questo caso, i comunisti europei (non tutti però) agirono con lucidità e senza doppiezze in ultima analisi autolesioniste. Oggi, in clima di “revisionismo storico”, si tenta di obnubilare la realtà di quei tempi, di mutare il senso degli insegnamenti che quella storia ci fornisce. Si pensi al can-can sulle foibe o a film (comunque mediocri e di scarsa diffusione) come Porzus, che ha tentato di tramutare in semplice e insensato eccidio una giusta e necessaria punizione inflitta dai comunisti ai finti resistenti monarchici (o badogliani come si diceva con giustificato disprezzo), che se ne stavano tranquilli in montagna senza mai impegnare tedeschi e repubblichini, proteggendo inoltre le spie (perché non c’era stato alcun “regolare processo” che le avesse decretate tali) che favorivano agguati mortali agli autentici resistenti.   

    

3. Andiamo allora alla possibile politica internazionale di una terza forza nella situazione odierna. Per prima cosa, va sottolineato l’orientamento generale che essa dovrebbe tenere. Tale indirizzo di massima non può che essere anti-USA; e quindi contro tutti gli alleati di questi ultimi, sia che ci si riferisca a raggruppamenti politici nei vari paesi, sia che si tratti – come ad es. nel caso di Israele – di un intero Stato che, pur perseguendo propri intendimenti specifici, agisce fondamentalmente quale longa manus della superpotenza in questione.

Personalmente, mi sembra giusto sostituire il termine imperialismo con quello di egemonia; precisando che si tratta però di termine ambiguo poiché sembra prevalente l’aspetto relativo alla influenza culturale. Nel caso degli USA di oggi, bisogna chiarire che la cultura è in secondo piano; l’aspetto principale della politica egemonica di quel paese è il dispiegamento di forza, è la conquista e il mantenimento delle più ampie sfere di preminenza tramite l’esercizio della potenza (“di fuoco”; sia in senso lato che letterale). Certamente nell’acquisizione, e ancor più nel controllo, di tali sfere, l’aspetto culturale della politica egemonica svolge un compito non accessorio, ma la forza – militare in primo luogo e poi quella legata alla corruzione, al raggiro, all’infiltrazione, allo spionaggio (anche economico), all’organizzazione di sommosse, disordini o perfino “libere” elezioni, al complesso lavorio d’intelligence, ecc. – assume il ruolo predominante, decisivo. Questa è l’egemonia di cui parliamo. Preferisco questo termine a quello di imperialismo, poiché quest’ultimo denota propriamente la fase storica in cui un certo numero di grandi potenze, di più o meno pari forza, si affrontano per la spartizione del mondo (come accadde tra fine ottocento e prima metà del novecento, una volta esauritosi il predominio capitalistico dell’Inghilterra). D’altra parte, il termine imperiale lascerebbe supporre che l’intero globo sia dominato dagli USA, con la presenza in esso di semplici “regioni”, pur spesso dotate di ampia autonomia e più o meno turbolente e ribelli. La situazione storica attuale non è affatto questa: Cina, Russia, India, ma anche altri paesi, non possono essere considerati parti di un Impero in tumulto, ma vere nuove potenze in ascesa. La loro non è relativa autonomia, ma effettiva indipendenza e volontà di far crescere – usando i mezzi più idonei, data l’ancora decisa supremazia militare statunitense (in senso stretto e lato, come sopra indicato) – la propria influenza nelle varie regioni mondiali.

Detto con ancora più chiarezza. Quello che viene spesso definito impero americano (in ogni caso, non si tratta dell’inconsistente non concetto negriano di “Impero”) è la sfera egemonica americana, cioè l’ambito mondiale nel cui ambito si esercita e si diffonde – indebolendosi e sfrangiandosi verso i suoi confini – la potenza degli USA, che sono dunque il centro di questa sfera di egemonia. Quest’ultima non ha veri confini nettamente delineati e si allarga e restringe anche in brevi (storicamente brevi) periodi di tempo. Al suo esterno (un ambiente, anch’esso dai confini fluidi e confusi e che talvolta si prolunga, a “macchia di leopardo”, entro la stessa sfera egemonica con centro negli USA) si trova un crogiolo, un “brodo in sobbollimento”, di altre egemonie non ben delimitate e stabili, ancora prive di veri centri di irradiazione di potenza; o almeno di una potenza minimamente paragonabile a quella statunitense. Questa è grosso modo la “visualizzazione mentale” della situazione oggi denominata globalizzazione, termine che invece offusca, cela, la vera caratterizzazione dell’economia e della politica nella sua struttura e dinamica a livello mondiale.

Allora, usiamo al momento, in mancanza di meglio, il termine egemonia, con i netti connotati di potenza indicati. L’Europa è nella presente fase in procinto di divenire una parte – solo relativamente autonoma – della sfera egemonica statunitense. I paesi europei orientali (ex “socialisti”) sono le basi migliori per l’esistenza dell’egemonia USA in quest’area, ma anche quelli occidentali sono ormai sotto forte pressione. Sull’Inghilterra è inutile spendere tante parole, anche se va segnalata una interessante e crescente insofferenza di tale paese, che ha lunghe tradizioni di predominio pur tramontato, di fronte all’esercizio della potenza statunitense secondo le modalità odierne che sembrano, in effetti, troppo rozze. La Germania è in questo momento, ma da pochissimo tempo, una delle più allineate agli USA (con però equilibri interni instabili). La Francia mantiene un atteggiamento non prono, e tuttavia le sue azioni continuano ad essere “punture di spillo” senza vero respiro strategico; ed è assai incerto il futuro anche di questo ormai modesto fastidio che essa procura agli USA.

L’Italia rischia di acquisire un ruolo crescente per lo schieramento dell’Europa alle dipendenze degli Stati Uniti. Essa aveva già tale ruolo nel periodo del confronto tra i due campi (capitalista e “socialista”); sembrava averlo perso dopo il 1989-91, e questo aveva favorito il processo – mai terminato – di passaggio alla “seconda Repubblica”, iniziato con l’operazione mani pulite. La dissoluzione del cosiddetto “socialimperialismo” aveva fatto pensare ad un ormai crescente, e indisturbato, predominio globale statunitense. Non è affatto andata così (per fortuna!) e oggi il nostro paese si trova di nuovo in posizione, anche e soprattutto geografica, interessante per gli USA ai fini della loro egemonia. Russia e Cina si presentano con forza (una si ripresenta) quali potenze concorrenti potenziali; di una potenzialità che potrebbe però attualizzarsi in pochi decenni, diventando così centro (o centri) di nuove sfere egemoniche. India e Giappone (quest’ultimo in incerta ripresa dopo 12 anni di stasi) sembrerebbero destinati a divenire alleati degli USA contro le suddette potenze in crescita; tuttavia gli assetti geopolitici sono in mutamento ed in equilibrio molto instabile, tanto da rendere provvisoria ogni previsione circa gli svolgimenti futuri dei vari processi in corso nell’ambito di un disordine mondiale via via crescente. Mi sento comunque di avanzare l’ipotesi che il fulcro dell’attuale configurazione geopolitica globale è il Pakistan; quando l’attuale regime cadrà – non immagino quando, ma sono fondate le speranze di un suo sprofondamento, con riflessi precisi e immediati sull’Afghanistan – si tratterà del “giro di boa”, del punto di svolta nei processi che interessano i rapporti di forza tra i diversi contendenti (oggi ancora a netto favore degli USA).

Tornando a noi, è indispensabile contrastare quanto più si può la deriva dell’Europa verso un totale vassallaggio nei confronti degli Stati Uniti; è necessario impedire che l’Europa assuma, pur ad un grado molto più elevato di sviluppo, la posizione che fu del Sud America fino a poco tempo fa e che, oggi, viene laggiù messa in discussione da un numero crescente di paesi. E’ ovvio che per gli USA un vassallaggio dell’Europa è molto più importante di quello dello stesso Sud America (che è comunque area più facilmente controllabile, magari “a zona”, sia per la vicinanza geografica sia per la minore potenza economica rispetto ad almeno alcuni paesi della UE). Bisogna capire che la debolezza europea in relazione alla potenza egemone è dovuta precisamente al suo essere una unione poco più che monetaria, non economico-produttiva e, soprattutto, non politica. Data questa situazione, il predominio (egemonico) si può esercitare quasi limitandosi alle manovre monetarie (ad es., tenendo il dollaro debole rispetto all’euro; in questa fase, magari un domani potrà convenire agli USA il contrario) e, ancor più, inserendosi di prepotenza nelle, e controllando da vicino tutte le, varie manovre del grande capitale finanziario europeo.

L’Italia in particolare, proprio per quanto abbiamo detto in merito alla sua crescita di importanza per ottenere la subordinazione di questa zona del mondo, è diventata campo di battaglia con varie manovre finanziarie, in grado di provocare anche profonde distorsioni e devastazioni del nostro apparato produttivo ove ciò occorra. Le varie società di rating – tutte americane – che emettono giudizi (ben “mirati”) sugli Stati e le imprese europee, società seguite come fossero oracoli da esperti ed economisti di poca sapienza e ampiamente pagati per i loro sporchi servigi, sono uno degli aspetti della lotta per l’egemonia e la riduzione dell’Europa ad autentico vassallo degli Stati Uniti (non è perciò sempre necessario usare l’esercito come in Irak o in Libano, ecc.; i mezzi sono tanti a seconda delle contingenze e delle situazioni speciali che si creano). In Italia, tanto per fare un esempio, queste società di rating hanno emesso fino all’ultimo pareri positivi su Cirio e Parmalat, che poi sono crollate con grave pregiudizio di molte posizioni economiche nel nostro paese. Non si commetta l’errore di credere che l’economia americana avesse bisogno di eliminare questi non pericolosi concorrenti; semplicemente erano in atto ben altre manovre finanziarie, con pesanti effetti politici; e quei crac sono stati i famosi “effetti collaterali”. Il problema è che noi, avendo pochi strumenti – in mano a quegli esperti ed economisti, venduti, di cui sopra – non siamo in grado di delineare gli avvenimenti così come si stanno svolgendo e quindi nemmeno possiamo prevenirli. Siamo però in grado, se non siamo deficienti o servi (come lo sono i destri e sinistri attuali), di comprendere il progetto d’insieme, la subordinazione agli USA mediante preminente utilizzazione dei mezzi del capitale finanziario. Quindi rassegniamoci ad una certa incomprensione dei singoli progetti, dei contesti particolari, ma afferriamo il disegno complessivo di questi dominanti (USA) e di questi vassalli (europei) che ci stanno portando all’aurea mediocrità, prima, con forti probabilità di disastro, poi.

 In questo contesto di dipendenza, e di manovre statunitensi per accentuare la subordinazione dell’Italia come mezzo di una politica egemonica certamente tesa a ben più vasti obiettivi, il gruppo economico dominante nel nostro paese è abbastanza ben noto e delineato; e consta di grossi gruppi finanziari, in primo piano, e di alcune grandi imprese industriali in declino o comunque scarsamente dinamiche. Qualcuna di queste – ad es. la Fiat – sembra oggi uscire dal peggiore momento di crisi, legata appunto alla più complessiva strategia americana; un simile risultato, pur se fosse reale, non deve sorprendere, perché non ogni singola parte di un disegno assai ampio deve necessariamente seguire un percorso di geometrica linearità, dato che sono comunque sempre in gioco interessi contrastanti di queste varie singole parti. In ogni caso, nemmeno si creda che è oro colato tutto ciò che luccica; diamo tempo al tempo, e credo che anche la “ripresa della Fiat” – attribuita ad uno di quelli che un mediocre politico italiano definisce “borghesi buoni” – rivelerà comunque la sua pochezza strategica; non certo dovuta al fatto che quel “borghese” è invece “cattivo”, ma solo all’insieme del gioco egemonico statunitense, che ha riflessi economico-finanziari di un certo tipo nei vari paesi in via di crescente vassallaggio.

Teniamo ancora presente che comunque quel gruppo di comando italiano è attraversato da crescenti contrasti; sia legati ad interessi particolari sia dovuti alle acute contraddizioni che caratterizzano l’attività egemonica USA, sempre più contestata da altre potenze, al momento “regionali” ma con vocazione ad una crescita di influenza globale. E’ ovvio che le aumentate difficoltà del predominio statunitense si riflettano anche in conflitti interni all’establishment politico ed economico-finanziario del paese ancora egemone e centrale. E’ in questo contesto che va valutata l’attività (potenziale) di una eventuale terza forza in Italia nei confronti di quelle oggi presenti. Da una parte, vi è la destra con vocazione apertamente e scopertamente filoamericana (e dunque filoisraeliana, antiaraba, ecc.), che va certo combattuta senza esitazioni e tatticismi deteriori. Dall’altra parte vi è la “solita” sinistra. Intanto, essa è un coacervo di forze, al cui interno sono presenti settori molto consistenti di filoamericani (con tutto il resto che segue) per nulla affatto meno reazionari, ottusi e feroci di quanto non lo sia la destra. Vi sono poi i settori della sinistra – alcuni in buona fede, altri dediti ai “normali” contorsionismi di tutti gli ipocriti e i bugiardi, solo interessati a meschini ambiti di potere, subordinato ai potenti centrali – in cui regna la più assoluta ambiguità, il “tutto e il contrario di tutto” nello stesso momento, nelle stesse dichiarazioni, nelle stesse mosse politiche. Quelli “in buona fede” servono solo, nel presente, a coprire i mentitori e gli ipocriti.

Ci sono alcuni sinistri che, intuita la nuova importanza che ha l’Italia per gli USA, vorrebbero rinverdire le politiche furbastre dei Craxi e degli Andreotti, servendo con maggiore astuzia e duttilità (quindi con momenti di solo apparente indipendenza) gli interessi del dominus centrale. Un tempo, però, esisteva un ordine mondiale legato alla contrapposizione tra i “due campi”, ognuno controllato, in sostanza senza difficoltà insormontabili, da una delle due superpotenze. Faceva eccezione la Cina, che tuttavia – dedita alla “rivoluzione culturale”, alla polemica “antirevisionista” –  non alterava in modo netto la configurazione geopolitica mondiale. I conflitti erano acuti, ma quasi solo ai margini dei due campi (tipo Vietnam, ecc.). In ogni caso, un minimo di organizzazione globale sussisteva, basata sul cosiddetto “equilibrio del terrore”, che era in realtà l’equilibrio creato a Yalta e che per oltre mezzo secolo vide i suoi due artefici decisivi studiarsi come due pugili nelle prime riprese: per capire cioè meglio i punti deboli dell’avversario e apprestarsi all’uppercut finale. In tale contesto, e tenuto conto dell’elemento di disturbo rappresentato in uno dei due campi dalla Cina, era possibile, ad es. per l’Italia, perseguire piccoli interessi in proprio, così come fecero nell’altro campo la Cecoslovacchia – certo, quando “esagerò”, andò incontro alla repressione, così come molti paesi sudamericani dall’altra parte – la DDR e perfino la debole Romania.

Oggi, non esiste più quella situazione. Abbiamo un’unica potenza centrale, non in grado però di creare un ordine mondiale; i vecchi “due campi”, insomma, non si sono fusi sotto la direzione di una delle due vecchie superpotenze, di quella che alla fine ha “mollato il pugno” del k.o. all’altra. Sussiste così ora un’unica superpotenza, ma con un buon numero d’altre in gestazione, che provocano una disorganizzazione globale sempre più vistosa. Voler ripetere le politiche di Andreotti e Craxi in un contesto del genere è uno degli aspetti più deteriori di certa sinistra odierna. Non a caso, si tratta di una politica gestita da sciocchi, supponenti e arroganti (per una semplice visualizzazione di queste caratteristiche si pensi a D’Alema e Visco), che vengono incensati da un nuovo ceto medio (quello diessino) sbriciolato e inconsistente, composto da insegnanti (ignoranti), artistucoli, intellettualoidi semicolti o di una “raffinatezza” culturale esangue dedita alle superflue preziosità tipiche degli “accademici”, “alternativi” dai mille futili lavori (improduttivi nel senso proprio della parola), sbandati, conformisti dell’anticonformismo, buonisti paracattolici (così ben disegnati, ancora tanto tempo fa, in film come Viridiana o Nazarin di Buñuel); insomma, una massa di veri fatui e superficiali individui che, con il loro appoggio ai cinici rinnegati dell’ex PCI, stanno devastando la politica italiana a causa della loro incapacità di analisi, del loro “buttare il cuore oltre l’ostacolo” (cioè oltre i luoghi dove dimora il cervello).

Comunque, questi quaquaraqua e ominicchi, assieme ai loro idoli subdoli, melliflui e velenosi, mettono i bastoni tra le ruote degli scatenati destri che a testa bassa si scagliano contro tutto ciò che non sia nettamente filo-USA, filoisraeliano; e, ovviamente, rozzamente neoliberista e per un capitalismo senza più ostacoli frapposti alla sua sfrenata corsa ai profitti, da accumulare al più presto, saccheggiando e impoverendo la maggior parte della popolazione, ma senza alcuna vera strategia di almeno medio periodo, di amministrazione e distribuzione delle proprie forze lungo un arco temporale che sia almeno di un decennio. Ci si deve quindi godere dello scontro tra destra e sinistra, favorirlo (se e quando possibile) e perciò opporsi ai tentativi di pateracchio neocentrista (partito democratico, grande coalizione e altre amenità similari), che del resto, quanto a respiro strategico, non ne hanno proprio. Sia però chiaro che sarebbe un’assurdità tacere le proprie – e violente – critiche a questi ambienti di sinistra velleitaria e inetta, oltre che bugiarda e ipocrita, servitrice comunque degli interessi egemonici della potenza centrale, pur se con mezzi più subdoli, ma non certo meno pericolosi (anzi!). La differenza tra destra e sinistra italiane è simile a quella tra Bush e Clinton. Chi crede che, battuto il primo e magari tornato un democratico alla presidenza degli USA (si pensi al demagogo documentarista Michael Moore), tornerà a fiorire la pace e l’armonia tra i popoli, può diventare più pericoloso del più feroce e violento reazionario. Si approfitti della lotta “tra bastone e carota”, ma si compia la giusta analisi della situazione e si svelino gli effetti nefasti delle mene dei furbastri e mentitori nonché della buona fede degli sciocchi e superficiali.        

  

4. E’ necessario precisare ulteriormente l’atteggiamento che si dovrebbe tenere in politica estera. Da un certo punto di vista, tutto sembra semplice poiché si tratta di favorire qualsiasi processo, qualsiasi movimento, che contribuisca ad indebolire il progetto egemonico USA. Tuttavia, nel perseguire tale obiettivo si può incorrere in molti errori che poi graveranno sugli sviluppi delle situazioni, sia pure nel lungo periodo (ma non di secoli, sia chiaro; si tratta comunque di alcuni decenni, forse solo di un paio). E’ ovvia l’impossibilità di non provare fiera avversione, e odio, di fronte alle atrocità compiute da Stati Uniti, e da loro scherani come Israele. A questo proposito, monta l’indignazione e il “sacro furore” non solo quando si vede la nostra destra appoggiare fino in fondo tali paesi, perfino nelle più sanguinose mosse da questi compiute, ma anche di fronte al servilismo della sinistra che si offende non appena si paragonano i massacri odierni a quelli nazisti. Mi dispiace ma il paragone è congruo, l’infamia è la stessa; del resto, già a quel tempo, Dresda, Hiroshima, Nagasaki (e molte altre azioni sanguinarie) avevano dimostrato la pasta di cui erano fatti pure i vincitori, i “liberatori”, per i quali sarebbe stato necessario istituire un Tribunale parallelo a quello di Norimberga. L’unica differenza in più a carico del nazismo sono i forni crematorî e l’uso del corpo umano per ottenere vari “prodotti”. I massacratori sono comunque gli stessi in tutti i tempi; e spesso sono i massacrati di ieri.

Tuttavia, l’odio per i persecutori non deve ottundere la capacità di raziocinio. Altrimenti, nel momento in cui i dominanti mutassero strategia e tattica nel perseguire l’obiettivo dell’egemonia, alcuni verrebbero sviati e ingannati attenuando il loro antiamericanismo; altri proseguirebbero a testa bassa senza adeguare a queste nuove strategie le proprie in funzione antiegemonica. Non ha inoltre alcun senso accomunare all’odio contro i massacratori quello contro ogni manifestazione della loro cultura, che in fondo ha larghi contatti con la nostra, assai di più di quanti ne abbiano, che so, la cultura islamica o quella cinese; pur non dimenticando mai da dove e da chi nasca la “grande democrazia” americana che ha le sue radici intrise di sangue, genocidi e “crimini contro l’umanità”, per certi versi persino peggiori di quelli della accumulazione originaria del capitale in Europa. Nemmeno scordiamoci mai che il capitalismo americano ha battuto e soppiantato quello borghese; e la borghesia, pur se non mi sembra da condividere certa ammirazione che lo stesso Marx nutriva a volte per tale classe, era comunque nettamente superiore, soprattutto culturalmente – ma anche come abilità strategico-politica – ai funzionari del capitale della nuova formazione sociale capitalistica, di origine americana e infine diffusasi in tutto l’occidente sviluppato.

Cerchiamo di capire che noi agiamo comunque in un’area i cui popoli hanno un certo tipo di tradizioni, ma anche vivono ormai da decenni e decenni in questa nuova società da me detta dei funzionari (privati) del capitale, che va contestata nelle sue strutture di rapporti diseguali fra vari raggruppamenti sociali, nelle sue caratteristiche di competizione basata sulla prevaricazione, la sopraffazione, l’inganno, ecc., ma sapendo che questo è il nostro ambiente, questo il nostro orizzonte culturale. Se qualcuno, a mio avviso “disadattato”, ha voglia di farsi musulmano o seguire pratiche orientali, è libero di farlo, ma in questa nostra regione del mondo ben altre sono le forme di lotta da sviluppare al fine di una trasformazione che abbia, almeno potenzialmente, qualche probabilità di successo.

Infine, ricordiamoci del passato. Non basta che uno gridi all’antiamericanismo, all’antisionismo, per decidere di stare con lui. Altrimenti, tanto vale dichiarare di aver sbagliato campo negli anni trenta; bisognava allearsi (non solo tatticamente) con gli antiplutocratici, con coloro che urlavano contro le principali potenze coloniali dell’epoca che, fino a prova contraria, erano Inghilterra e Francia (con gli USA quale outsider in “agguato”). Personalmente, sono convinto che il giudizio sulla politica dei comunisti in quegli anni debba oggi essere mutato, e di molto: la presenza di una potenza supposta quale “patria del socialismo” ha condotto a marchiani errori. Penso che la parola d’ordine dovesse continuare ad essere, con i dovuti aggiustamenti, quella di Lenin all’epoca della prima guerra mondiale: trasformare la lotta tra banditi capitalisti, e imperialisti (perché all’epoca esisteva ancora l’imperialismo nel suo senso di lotta tra potenze di pari forza), in guerra (“di classe”). E’ però un discorso lungo, da non farsi in questa sede; anche perché implica molte specificazioni e ragionamenti più complessi, dato che la presenza di una potenza come l’URSS implicava comunque vari adattamenti della strategia e tattica leniniste. L’importante è però tenere presente che mai, in nessun caso, avrebbe avuto senso essere conniventi o alleati con gli “antiplutocratici”. Ed oggi mi sembrerebbe un errore egualmente capitale ogni tatticismo, peraltro superfluo, in direzione di chiunque gridi all’antiamericanismo e all’antisionismo. Facciamo le debite distinzioni, per favore!

La nostra stella polare deve essere l’antiegemonismo, non l’antiamericanismo in sé e per sé. Abbiamo in Italia una destra che sempre più, in politica estera, si schiera per la ripresa in grande stile dell’atlantismo, cioè della subordinazione al grande capitale e alle lobbies politiche degli Stati Uniti; e una sinistra abborracciata, in pieno contorsionismo, irresponsabile e indecisa, che vorrebbe conciliare “il diavolo e l’acqua santa”, e che a tal fine mente, nasconde, è incerta al punto da poter far crescere, in mancanza di una chiarezza di obiettivi, un movimento ancora più filoatlantico di quello della destra attuale. In campo internazionale, notiamo la stessa confusione. Si stanno certo rafforzando potenze oggettivamente alternative all’egemonia USA, in particolare Russia e Cina, ma anch’esse senza alcuna unità d’azione, e soprattutto con una politica tutt’altro che lineare e ben demarcata; molte le manovre involute, le menzogne, il tentativo di tenere il piede in più staffe, l’agire nascosto in una certa direzione mentre l’attività condotta “alla luce del Sole” si muove nella direzione opposta. Ancora per un ventennio, come minimo, non penso che si formerà un autentico blocco antiegemonia USA, con una strategia coerente e ben mirata; non esisteranno cioè altre sfere egemoniche stabilizzate dotate di nuovi centri di irradiazione di potenza.

E’ in questo contesto confuso che sarebbe obbligata a muoversi un’eventuale terza forza in Europa, a partire dall’Italia; con la consapevolezza che essa potrebbe accelerare certi processi, in grado di condurre al rafforzamento della politica antiegemonica sul piano mondiale. Sempre però senza cadere nelle possibili trappole di un antimericanismo preconcetto, di principio, nutrito di puro odio, che assomiglierebbe troppo all’odio di classe portato avanti da certo comunismo, da certe “masse popolari” che volevano solo sostituirsi alla borghesia, volevano solo diventare “ricche” per poter calpestare qualcun altro; con i bei risultati – una società orrenda, volgare, incolta, anarcoide –  che vediamo oggi nei paesi europei e in Italia in specie. Come quel comunismo è crollato, favorendo la rivincita del peggiore capitalismo possibile, così un antiamericanismo forsennato, irrazionale, potrebbe condurre solo in due pessime direzioni ove mostrasse, com’è probabile (quasi sicuro), i propri limiti: o un “ritorno di fiamma” dell’atlantismo peggiore e più spinto; o l’ascesa di un nuovo tipo di rivoluzione dentro il capitale, dopo quella ben nota degli anni venti-trenta (nazifascismo).

Quindi: opposizione netta alla destra filoatlantica attuale; critica radicale, e senza alcuno sconto tatticistico, a questa sinistra che è troppo poco definire opportunistica perché è molto, ma molto, peggiore; ed è inoltre marcia, coinvolta nei peggiori “salotti buoni” della finanza internazionale legata, per mille fili, agli USA (pur qualora essa flirtasse con tale paese a presidenza democratica invece che repubblicana, sempre con una forza filo-egemonia statunitense avremmo a che fare). Nel contempo, è necessario perseguire una politica estera che non si cristallizzi in senso antiamericano senza tener conto delle possibili svolte, della situazione confusa, delle reticenze e doppi giochi delle potenze oggettivamente alternative (sul medio-lungo periodo). Tale politica dovrebbe inoltre muoversi in un contesto di antiamericanismo molto ambiguo, che potrebbe creare – in eventuali e sempre possibili periodi di accentuazione della crisi politica e sociale oggi strisciante in Europa – situazioni assai confuse, in cui sanno muoversi gruppi politici che vanno invece rintuzzati; al momento dato, però, senza anticipare i tempi e gridare fin da ora “al lupo”, come fanno oggi le sinistre per nascondere i loro misfatti. Per il momento, i nemici principali, sul cui “cadavere” dovrebbe passare una terza forza, sono la destra “democratica” (figuriamoci!), cui opporsi frontalmente, e una sinistra di cui sfruttare l’irresponsabilità e i futili contorcimenti, combattendola però senza remissione e furbi tatticismi. Per il resto, solo un po’ d’attenzione e di diffidenza nei confronti di aree oggi marginali, che potrebbero “pescare nel torbido”; nel cui ambito comunque si situano individui in perfetta buona fede – talvolta assai più lucidi e generosi di tanti loro “nemici di sinistra” – che assumono certe posizioni proprio perché questi ultimi si sono ormai squalificati con il loro atteggiamento tatticistico deteriore.

 

5. Passiamo quindi alla politica interna (ed economico-sociale) di una terza forza che volesse installarsi in Italia, tenendo sempre debito conto che ci troviamo nell’area europea, in un paese capitalistico comunque ormai sviluppato e appartenente al genere della formazione sociale dei funzionari (privati) del capitale. In politica interna, la strategia e la tattica da tenere sono molto più complicate rispetto a quanto riguarda quella estera. In quest’ultima, come già rilevato, c’è una elementare, ma abbastanza chiara, divisione di posizioni tra un americanismo netto e dichiarato senza mezzi termini dalla destra, mentre la sinistra tiene un altrettanto sostanziale atteggiamento di appoggio alla potenza centrale, ma pieno di infingimenti, di menzogne, di apparente dissenso (soprattutto verso l’uso del bastone da parte di tale potenza). In politica interna, tutto è molto più trasversale, intricato, spesso affermato ma non fatto o fatto sostenendo che si sta operando in modo contrario, ecc. Inoltre, malgrado i due schieramenti non rappresentino realmente dei blocchi sociali veri e propri, essi fingono, per ragioni elettorali, di volerli rappresentare; in realtà, entrambi seguono il criterio del divide et impera, cercando ad esempio di sfruttare le reciproche diffidenze e antipatie sussistenti tra lavoro autonomo e lavoro dipendente. E del resto, sia destra che sinistra credono che lo sviluppo dell’Italia debba essere trainato dall’estero, dal pieno inserimento in un’economia detta globale; che esso dipenda soprattutto dalla domanda (di consumo e/o di investimento) e da quel deus ex machina che è la competitività, vista micragnosamente in termini solo imprenditoriali (in effetti, aziendali), con un gran parlare delle sinergie del “far sistema” e di una ricerca tecnico-scientifica di poche pretese.

In un contesto così confuso, credo sia utile, come prima mossa, fare chiarezza sugli intendimenti di chi si ponesse in una prospettiva non dico di governo, ma di spinta alle forze che fossero in grado di invertire il corso degli avvenimenti in Italia (in quanto paese dell’area europea). Dobbiamo smascherare una serie di miti dello sviluppo capitalistico dipendente (dal centro della sfera egemonica). In quest’opera di disvelamento e demistificazione, è inutile cercare un ordine ed una simmetria, dando un colpo di qui e uno di lì, visto appunto l’intreccio di posizioni tra destra e sinistra; ed è inoltre necessario demarcarsi da forze critiche assai ambigue che seminano confusione: forse in buona fede, forse no, ma è inessenziale scoprire se, e quando, si tratta dell’un caso o dell’altro.

In effetti, i primi chiarimenti vanno dati per evitare di essere presi per forze che intendono minare lo sviluppo del nostro paese – provocando così l’abbassamento del tenore di vita della popolazione, e sconvolgendo le sue tradizioni culturali e i suoi comportamenti sociali – indebolendolo proprio quando ci si dichiara favorevoli ad un suo schieramento internazionale di tipo antiegemonico. Non credo debba essere manifestata simpatia verso tesi antimoderniste, antisviluppo e per la cosiddetta decrescita, per una economia e costumi sociali arcaici, che tornino ai “buoni tempi andati”. Non si tratta di sottovalutare i pericoli di una dinamica come quella messa in moto nei paesi già avanzati o in quelli che stanno attualmente crescendo (Cina e India in testa); non si tratta di irridere alle critiche di tipo ambientalista, né di pensare ancora al progresso tecnico-scientifico nei termini positivistici di un tempo, quale risolutore di ogni problema dell’umanità. Colgo quindi l’occasione per ribadire che non sono più da tempo ottimista circa le “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità; non penso affatto che ogni avanzamento della conoscenza, e dei mezzi tecnici in cui essa poi solitamente si concreta, rappresenti la futura soluzione dei più fondamentali problemi che ci assillano (anzi, in molti casi li aggravano).

 E’ però bene meditare bene su certe sciocchezze che si dicono, pur se a fin di bene. Molto spesso gli ambientalisti assomigliano ai bordighisti quando vaticinano l’avvento del comunismo in una data precisa e vicina; a causa dell’inevitabile crollo del capitalismo, della insuperabile “barriera che il capitale pone a se stesso”, della inarrestabile caduta del saggio di profitto e altre sciocchezze del genere. Per tutta la mia vita ho dovuto sopportare questi mentecatti, che sostengono di essere gli unici marxisti e comunisti. E, a partire dagli anni ’50 e ’60, ricordo pure le “profezie” circa l’esaurimento delle fonti energetiche entro la fine del secolo, l’inquinamento e lo smog che avrebbero reso invivibili le città entro la stessa data, il rapido e catastrofico cambiamento del clima, l’innalzamento del livello dei mari, ecc. Poi ricordo quando ho letto, con sommo gusto, i Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome, in cui – in pieno ottocento – si alzavano invettive contro l’inquinamento che aveva provocato la “morte” del Tamigi, e anche contro i proprietari privati che avevano già occupato ogni metro quadrato delle sue rive, ormai rese aride, spoglie, ecc. E fin da allora ho capito che ogni generazione, dai tempi dei tempi, legge la sua imminente fine (la morte fisica dei vari individui, problema irrisolvibile) come degrado e fine della vita umana tout court. Del resto, si nutre spesso una segreta quanto innocua speranza che tutto finisca assieme a noi; per es., io mi trastullo talvolta con l’idea di un meteorite, di almeno 500 Km. di diametro, che ci colga in pieno.

In ogni caso, è lecito preoccuparsi delle sorti del pianeta, ma non è sensato fissare date non oltrepassabili e inevitabili destini, né proiettare le dinamiche nelle loro forme odierne, considerate quasi immutabili, per i prossimi 50 o 100 anni o per periodi ancora più lunghi e perciò sempre più cervellotici. Inoltre, sarebbe bene proiettarsi più spesso all’indietro, e pensare a come si viveva 100 o 200 o 300 anni fa (e non mi spingo oltre!). Veramente vogliamo sostenere che il progresso (sia pure industriale e capitalistico) ha reso più invivibile la Terra? Veramente desideriamo ardentemente tornare alle condizioni (vita media brevissima e malattie lunghe e tormentose, sangue e sudore, lerciume e carestie, i  più banali terremoti o inondazioni che spazzavano via intere regioni e popolazioni, ecc.) sussistenti a quei tempi? Spero che nessuno risponda positivamente a questa domanda. Pur senza alcuna fede illuministica nella ragione, pur non nutrendo l’ottimismo tecnico-scientifico dell’ottocento, mi convince però sempre la notazione di Marx, secondo cui non le macchine, ma il loro uso nell’attuale forma sociale, è da criticare radicalmente. Volendo essere più scherzosi, direi con Woody Allen che il cervello è il nostro secondo organo preferito; si tratta di una più che onorevole posizione da sfruttare adeguatamente, lasciando il cuore al terzo posto, magari per una incollatura.

Troppo spesso gli antimodernisti sono assai ambigui. Avete notato quanti soldi, quanti giornali, quale peso nell’editoria, ecc. hanno i teorici della decrescita, del salvataggio dell’ambiente, di una vita più povera e frugale? Questi ambienti si formano soprattutto nei paesi (tipici quelli europei) – sia incapaci di competere con i nuovi che avanzano sia succubi di quello egemonico centrale – soltanto capaci di ritirarsi e adagiarsi nelle nicchie che i dominanti in quest’ultimo lasciano loro. I subdominanti degli esausti paesi avanzati ma non centrali – per protrarre il più possibile questa aurea mediocrità cui si lasciano andare per vecchiezza, mancanza di linfa vitale, morte dei ben noti animal spirits imprenditoriali – pagano profumatamente un ceto intellettuale di “tartufoni” che diffonde una ideologia di arretramento e di resa con “dotte” chiacchiere sulla tecno-scienza che distrugge il mondo, sulle bellezze di una vita più semplice, sulla sanità del corpo e dell’anima conquistata a suon di coltivazione dei campi. Si trasformino i nostri paesi in un fiorente agriturismo e staremo benone. Peccato che, come già nel caso degli hippies e dei “figli dei fiori”, ecc. solo piccoli gruppi possano vivere così, a sbafo della stragrande maggioranza che deve correre e lavorare e trafficare.

Comunque, non perdiamo altro tempo. Pur con tutti i dubbi del caso e una certa dose di pessimismo, si deve a mio avviso propendere per lo sviluppo, per il rafforzamento delle economie e delle strutture sociali delle società del nostro tipo. E bisogna esserlo anche per la speranza di spazzare via le nostre classi subdominanti sfibrate e vili – inette a qualsiasi compito che non sia quello di porsi al seguito dei dominanti centrali – assieme a tutti i loro servitori politici e culturali che giocano alla “destra” e alla “sinistra”. Altrimenti, non ci si ergerà mai in contrapposizione ai predominanti dell’oggi, gli USA, né contro quelli che, sia pure in un futuro ancora abbastanza lontano, si batteranno più aspramente e apertamente per sostituirli nella supremazia mondiale. Quindi, nessuna connivenza, nessun lassismo tatticistico, nei confronti di chi blatera di decrescita, degli avversari – parlo ovviamente di quelli senza ma e senza se – della tecno-scienza, dei fautori dell’economia arcaica e “pastorale”. Certamente, sarà utile distinguere quelli in buona fede dai furboni che sanno ben vendersi alle marce classi dominanti del tipo di quelle europee, e italiane in particolare. Mi rendo conto che verso gli intellettuali diffusori di “pessimismo e disfattismo” corrono fiumi di denaro, per il solito principio così ben espresso dal Principe di Salina ne Il Gattopardo: per una classe dominante ormai sfinita, esausta, dal sangue malato, porsi al seguito di nuovi dominanti “freschi”, protraendo così i propri privilegi (di parassiti) anche solo per 50 anni, è sempre meglio che niente. Mi rendo anche conto che nelle società avanzate c’è sempre almeno un 7-8% (talvolta un po’ di più) di disgregati, di “schioppati”; si tratta di quel “terriccio” prodotto dallo sviluppo – soprattutto quando poi questo entra in panne – seminando nel quale si possono ottenere i voti necessari per qualche buon “posticino caldo” nelle istituzioni economiche, politiche e culturali di questi paesi allo sbando.

Tuttavia, non è per perseguire simili obiettivi che si deve pensare ad una terza forza. Quest’ultima può essere progettata solo in base alla scommessa che non tutto è perduto in Europa o almeno in alcuni suoi paesi. Bisogna puntare sulla possibile esistenza di nuovi gruppi sociali che si pongano come scopo un nuovo tipo di sviluppo in gran parte autoctono, liberato dalla “schiavitù” di fermarsi entro quei limiti (e quelle nicchie) concessi dai dominanti oggi centrali; un domani si vedrà. Non mi interessa un antiamericanismo preconcetto, di tipo morale (o culturale); mi interessa l’antiegemonismo. Ovviamente quest’ultimo, nell’attuale epoca, non può che essere anti-USA (e contro i loro aiutanti); e tuttavia è decisivo, fin da oggi, distinguere con radicalità, senza ambiguità alcuna, tra antiegemonismo – cui consegue un antiamericanismo solo di fase – e un non condivisibile antiamericanismo di principio. Qualora e quando (certo non presto) crescessero e si stabilizzassero altri centri di nuove sfere egemoniche, tornerebbe in piena evidenza, certamente con gli aggiustamenti adeguati alla (futura) nuova epoca policentrica, la tesi leniniana della trasformazione dello scontro tra questi centri – non necessariamente, anzi poco probabilmente, una nuova guerra mondiale – in rivoluzione per la trasformazione sociale. Ma non anticipiamo.