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Manifesto per la costruzione della terza forza (punti 6/8)

di Gianfranco La Grassa - 25/09/2006

  6. Proprio per quanto si è appena affermato, una terza forza si troverebbe di fronte alla complicata combinazione di aspetti della sua politica, fra loro contraddittorî. Indubbiamente, non può essere accantonata, completamente disattesa, la decisione di compiere una trasformazione delle dinamiche sociali che vedono il crescente predominio di minoritari gruppi di agenti (capitalistici) sulla stragrande maggioranza della popolazione, dotata di pochissima voce in capitolo e continuamente subornata e convinta a lasciare i suoi destini nelle mani dei “potenti”, i quali si scontrano tra di loro secondo modalità tali da mettere sempre più a soqquadro i rapporti sociali nella formazione mondiale e nelle sue varie “regioni”, nei suoi singoli paesi; e anche, senza dubbio, provocando il progressivo peggioramento dell’habitat in cui vive un’umanità sempre più numerosa.

Nello stesso tempo – sia perché non si battono i dominanti se non si altera e anzi rovescia l’assetto attuale dei rapporti di forza geopolitici, sia perché sarebbe fallimentare una politica che conducesse soltanto all’abbassamento del tenore di vita della gran massa della popolazione, laddove questo è oggi relativamente alto – è necessario accordare la massima attenzione, come sopra rilevato, ai problemi dello sviluppo; e uno sviluppo che accresca le possibilità di condurre globalmente una strategia antiegemonica. Purtroppo, per motivi che in altra sede ho affrontato più volte ma che attendono ciò malgrado una ancora più ampia e perspicua sistemazione teorica, i comunisti d’antan (e il loro decrepito marxismo) si sono solo concentrati sui temi del rivolgimento sociale in una generica e complessiva società a modo di produzione capitalistico, considerando quest’ultimo come sempre eguale a se stesso, con la sua bella divisione in classi ben demarcata e tendenzialmente duale. I comunisti (salvo Lenin) hanno invece capito poco della segmentazione orizzontale (in termini mondiali) della formazione sociale, dell’articolazione delle sue parti, legata ad una loro gerarchia di rapporti di forza, in certi periodi storici relativamente stabile e “ordinata”, in altri (come l’attuale) in tumultuosa alterazione e riconfigurazione.

Con il solo, e semplice, concetto di modo di produzione capitalistico – o con quello di formazione economico-sociale in quanto strutturazione di più modi di produzione sotto la dominanza di quello capitalistico – i comunisti e marxisti hanno  esclusivamente “visto” la lotta di classe, quasi sempre eletta a demiurgo del mutamento (rivoluzionario) sociale, idealisticamente e immaginificamente proiettato a livello globale (la finzione deleteria dell’internazionalismo proletario, uno dei più grossi inganni ideologici che si conoscano, fonte di gravissimi errori e anche peggio). Completamente dimenticato, invece, lo sviluppo ineguale legato allo scontro tra diverse formazioni sociali particolari (tendenzialmente coincidenti con le nazioni o gruppi di nazioni alleate), che non sono modi di produzione bensì società a struttura complessa, in cui le minoranze dominanti non si limitano a vivere del plusvalore estorto ai lavoratori (questa grettezza economicistica dei comunisti e marxisti, che li ha giustamente condotti alla più ignominiosa delle sconfitte), ma riescono, tramite forti ideologie – supportate da ben concreti livelli e stili di vita sociale, differenti da regione a regione del globo – a raggruppare le popolazioni di certi paesi, o anche più vasti settori della società mondiale, per scagliarli gli uni contro gli altri; e, in questo scontro, alcuni dominanti diventano predominanti e altri subdominanti, ma per una certa fase storica perché poi ricomincia la sarabanda, e si rimettono in discussione i precedenti rapporti di supremazia tra i vari gruppi di dominanti radicati nelle varie partizioni (nazionali o altro) della formazione sociale globale.

Il concetto di modo di produzione, con la semplicità delle sue dinamiche di crescente divisione in due parti della società (senza distinzioni nazionali o d’altro genere), ha portato all’idea che la contraddizione rivoluzionaria principale fosse quella tra capitale e lavoro, cioè tra borghesia e proletariato, tra classe dei capitalisti (proprietari dei mezzi produttivi) e classe operaia. Poi, per motivi che sono stati oggetto di decenni di discussioni accanite tra i marxisti – e chi non le conosce, non cerchi oggi di informarsi, a meno che non sia uno storico del pensiero – ci si è in prevalenza spostati verso la contraddizione, sempre trattata come principale, tra primo e terzo mondo, tra capitalismi sviluppati e masse diseredate delle aree sottosviluppate. Adesso, lasciamo tutta questa cianfrusaglia in un canto, ammettendo però il ritardo enorme dell’analisi sociale (non banalmente empirica), una volta dimostratosi ormai inutile e perfino dannoso il vecchio marxismo.

Comunque, noi sappiamo di agire all’interno di un paese capitalistico sviluppato, tendenzialmente subordinato ad un paese centrale dominante in quest’area (la formazione sociale dei funzionari del capitale), che è anche quello al momento ancora predominante su scala globale (pur se non controlla affatto il mondo intero, non è in grado di assegnargli un ordine a lui completamente favorevole). Il (piccolo) paese in cui agiamo è socialmente diviso in molti raggruppamenti sociali, della cui articolazione non siamo ancora in grado – avendo perso troppo tempo con il marxismo e non potendo usare una teoria, quella liberale e liberista, ancora più “infantile” e rozza, né tanto meno la dottrina sociale cattolica, di un semplicismo disarmante, pur se ideologicamente rilevante perché poggia sulla religione, quindi sulla tensione spirituale e anche sulla paura della morte e dell’altra vita – di dare una visione sintetica, e congrua insieme, come deve fare ogni teoria, soprattutto se intende servire l’attività di trasformazione sociale. Siamo obbligati ad andare a spanne e per passi intermedi.

Qual è l’obiettivo principale, non nei secoli dei secoli, non per realizzare i nostri sogni di compiuta giustizia ed eguaglianza, ma solo per riaprire i giochi di possibili avanzamenti? Lo sappiamo: la lotta antiegemonica, che oggi, e solo per questa fase storica, ha da essere antistatunitense. Allora cominciamo a liberarci di due miti del “movimento operaio” che, pur non esistendo più quest’ultimo, sono ancora moneta corrente per gli apparati politici e sindacali, i cui dirigenti fanno parte dei gruppi dominanti nella sfera politica. I miti sono quelli dello statalismo (la “proprietà pubblica”) e del conflitto (contraddizione principale) capitale/lavoro. Che la proprietà sia pubblica o privata, nell’attuale contesto della lotta antiegemonica, non ha alcuna rilevanza; d’altra parte, per i “sopravvissuti” che inseguono ancora l’idea di comunismo, ricordo che quest’ultimo non intendeva per nulla identificarsi con la proprietà dello Stato, bensì con il controllo e l’autoorganizzazione collettivi dei produttori associati ed “eguali”, ecc. (non entro in ormai futili specificazioni). Per quanto mi riguarda, il pubblico è positivo quando ci siano tutti i presupposti per svolgere un’attività (di potenza) capace di facilitare la lotta antiegemonica; laddove e quando lo statalismo è solo fonte di indebolimento della potenza in oggetto, esso è da respingere e combattere con decisione.

La stessa cosa vale per il conflitto capitale/lavoro. Diciamocelo fuori dai denti: oggi questo è ridotto alla semplice lotta di alcuni strati (certo consistenti, ma nemmeno più maggioritari) dei lavoratori salariati soprattutto delle fasce esecutive per l’innalzamento salariale: diretto e indiretto, attuale e differito. Una lotta sacrosanta, giustissima e giustificatissima, ma non di classe, non foriera di trasformazioni verso strutture sociali egualitarie e “collettiviste”. E’ una lotta lecita come quella di altri spezzoni sociali per la suddivisione del prodotto nazionale, per il miglioramento delle proprie condizioni di vita. Qualora si voglia uscire dal semplice corporativismo – difesa di una parte della società – bisogna dichiarare in quale direzione ci si vuol muovere. Se si pretende di rappresentare gli interessi di un paese, e se si mira, quale primo obiettivo, a rendere quest’ultimo meno succube dell’egemonia centrale intrinseca all’attuale struttura e dinamica dei rapporti di forza a livello globale, allora bisogna decidere caso per caso; non esiste, in generale, nessuna ragione per appoggiare sempre una qualsiasi lotta (sindacale) del lavoro dipendente (salariato) delle fasce più basse. Questo è compito di coloro che, sulle quote dei sindacalizzati di tali fasce, vive, prospera e si fa ben accettare – per le sue capacità di manovrare “masse” – nell’empireo dei dominanti.

Una terza forza, che volesse assolvere compiti generali a favore del paese, potrebbe doversi scontrare, e duramente, senza mezze misure, con le organizzazioni di questi lavoratori, in realtà con i loro dirigenti chiaramente, e senza residui, asserviti ai subdominanti italiani in combutta con i predominanti USA. Non si debbono lasciar sussistere dubbi, per furbizia e tatticismo, su questo possibile scontro, poiché i corrotti dirigenti sindacali, servitori di precisi padroni, assolveranno i compiti da questi ultimi loro assegnati, i compiti assolti da tutti gli “ascari”, da tutti i mercenari (le armate bianche, nella guerra civile post-1917, erano condotte da nobili ma costituite, anche nei gradini medio-bassi della catena di comando, da contadini e da ceti sociali popolari; come l’Armata rossa).

Il primo compito che una forza politica che si rispetti dovrebbe assolvere è appunto di tipo politico. E, per essere tale, deve tener conto della società cui si trova di fronte e cui pretende di indicare gli orientamenti in grado di migliorare le condizioni di vita non di suoi singoli spezzoni, in lotta distributiva con altri, bensì della stragrande maggioranza degli stessi. Per assolvere questo compito, in un sistema che è ormai sostanzialmente capitalistico da secoli (pur con passaggi di fase e trasformazioni della struttura sociale durante questo periodo), è necessario dare la massima attenzione all’economia, quindi agli apparati produttivi, al progresso tecnico, alle fonti di energia e a tutto quello che all’uopo serve. Tuttavia, se l’economia è al centro della questione, i suoi problemi non sono di natura esclusivamente economica, non si risolvono con la gretta mentalità affaristica, del calcolo contabile; problemi, obiettivi e metodi dell’economia sono di natura squisitamente politica, esigono l’intervento di una mentalità politica. Ma politica non significa la pura attenzione alle questione di potere, alle “congiure di palazzo”, alla distribuzione delle cariche e dei posti di Governo e sottogoverno, ecc. La politica (quella alta) è governo della società, è scelta degli obiettivi e metodi interessanti ampie comunità, che sono estremamente frammentate al loro interno, per cui è indispensabile un’azione di sintesi, l’individuazione di una sorta di vettore di composizione delle forze (e interessi) in campo.

La deviazione economicistica non è quella che attribuisce troppa importanza all’economia – perché questo è il carattere precipuo della nostra società (e del resto non so se sia tipico soltanto di quella capitalistica) – bensì quella che crede di risolvere i problemi della sfera economica (quindi produttiva e finanziaria) dall’interno stesso di quest’ultima, applicando quel tipo di razionalità strumentale, del minimo mezzo o del massimo risultato, che chiude molti orizzonti, che restringe brutalmente il campo delle scelte. Intendiamoci bene: non è che si possa buttare a mare questo tipo di razionalità, che lo stesso Marx (per non parlare di Lenin) apprezzava; in quanto l’economizzare le risorse impiegate per ottenere dati obiettivi fa parte di un atteggiamento mirante allo sviluppo, cercando nel contempo sia di non esaurire il “fondo naturale” di cui disponiamo sia, sotto un altro punto di vista, di inquinare e guastare il meno possibile l’ambiente in cui viviamo. Tuttavia, è il porre in primo piano tale razionalità, anzi il farne in sostanza il solo tipo di razionalità ad essere impiegato, a provocare danni sociali gravi. Perché così facendo, le scelte diventano puro risultato del calcolo – rigido se deterministico, più flessibile se probabilistico – e si affidano allora alla semplice tecnica, che esclude dalla sua attenzione la complessità della realtà (e quella sociale è specialmente complessa) per indicare strade obbligate che non potrebbero che essere percorse così e non altrimenti.

In realtà, la questione è ancora più sottile. I dominanti (sia pre che subdominanti) non si affidano affatto, per le loro scelte, alla pura tecnica, al mero calcolo. Essi sanno fare politica, e dominano perché la fanno e fin quando la fanno; essi scelgono in base alla razionalità strategica, che non esclude ma sottomette a sé quella strumentale. I dominanti si circondano però di una coorte di tecnici mediante l’azione dei quali viene diffusa (presso il popolo “ignorante”) l’ideologia della razionalità calcolante secondo cui le scelte sono necessitate (deterministicamente o probabilisticamente); e pagano profumatamente i tecnici, gli “esperti” di questo o di quello (e che sul “pelo dell’uovo” sanno dirvi tutto e il contrario di tutto con grande, inimitabile sapienza; autentici “idioti con alto quoziente di intelligenza”), mascherando da necessità obiettiva le scelte politiche fatte in altra sede utilizzando “pensatoi” (assai più riservati e segreti) aperti ai problemi complessivi da trattare con analisi e metodi di risoluzione di tipo strategico.

Naturalmente, l’ideologia del minimo mezzo e della tecnica imperante non sarebbe sufficientemente forte, se non si ergesse di contro a lei l’ideologia (nichilista) dei filosofi che dichiarano la Tecnica dominatrice del mondo, e causa della sua prossima fine. Con la loro critica, così radicale e totalmente negativa, essi non fanno che rafforzare l’ideologia dominante. Quest’ultima pervade l’intera sfera economica, e pure la vita sociale, convincendo il popolo della necessità inderogabile delle scelte fatte dai potenti. I filosofi critici della Tecnica ottengono invece onori nelle Università, nei mass media, nelle case editrici, e così formano ceti intellettuali che si raccolgono in circoletti di individui “colti”, sempre in moto per imbonire il popolo, convincendolo che in effetti altre scelte, diverse da quelle compiute dai dominanti, non esistono, pur se così facendo il mondo finirà tra 50 o 100 o più anni (tanto si può dare il numero che si preferisce, data la ciarlataneria del tutto); però è una fine ineluttabile, è il “destino della Tecnica”, contro cui “nulla si puote”.

Quella che, nella storia del capitalismo, si è presentata come la critica più radicale, cioè la teoria sociale di Marx, conteneva in sé una debolezza, ben esplicitata dalla convinzione sintetizzata nel noto de te fabula narratur: il capitalismo, partendo dall’iniziale sviluppo in Inghilterra si sarebbe da lì espanso in tutto il mondo con caratteristiche più o meno simili, unificandolo ed omogeneizzandolo, preparando così le condizioni sociali oggettive e le basi materiali per un suo complessivo passaggio alla società comunista, alla comunità mondiale dei produttori cooperanti, auto-organizzantisi e padroni del proprio destino. Le affermazioni contenute nel Manifesto del 1848 sostenevano già quelle tesi, che superficiali orecchianti odierni di Marx hanno interpretato come profezia della globalizzazione; mentre erano solo previsioni, ottenute estrapolando le tendenze di sviluppo del modo di produzione capitalistico borghese inglese e proiettandole nel futuro, di una omologazione generale delle strutture sociali mondiali da parte della dinamica degli scambi mercantili e della produzione fondata sulla separazione tra proprietà privata dei mezzi produttivi e “libera” forza lavoro salariata, essa stessa venduta in forma di merce. Non possiamo soffermarci adesso sulle critiche che hanno investito questa previsione di Marx, sostenuta dagli ortodossi alla Kautsky, ma rifiutata di fatto da revisionisti come Lenin. I critici avevano ragione, ma non mettevano in discussione in toto una teoria tutta centrata, come già detto, sul concetto di modo di produzione.

Le nuove ortodossie hanno però fatto ancora peggio; sostenendo che il centro dell’analisi di Marx, della sua scientificità, era la teoria del valore, hanno puntato tutta l’attenzione solo sul fenomeno dell’estorsione del plusvalore (in quanto essenzialmente profitto). Ma quest’ultimo è forma storica particolare, nel capitalismo, di un fenomeno generale: l’erogazione di pluslavoro da parte dei dominati, pluslavoro che certamente è controllato e utilizzato dai dominanti per l’organizzazione e la riproduzione delle varie forme dei rapporti sociali succedutesi nel corso della storia. La produzione di pluslavoro nelle sue varie forme storiche, di cui l’ultima è il plusvalore nel capitalismo, dice ben poco se non la si collega alle strutture dei rapporti sociali, alla loro dinamica, ai conflitti che le attraversano, ecc. Tutta la complessità sociale viene una volta di più appiattita e spazzata via dalla mera teoria del valore. Resta così in campo, come al solito, la razionalità del minimo mezzo che, nel capitalismo, è vista dal marxismo (impoverito rispetto a Marx) come spinta di ogni singolo capitalista ad ottenere il massimo plusvalore (il profitto, semplificando) con il minimo impiego di forza lavoro di cui elevare continuamente la produttività (e quindi il saggio del plusvalore).

A questo punto, una visione più generale e complessiva – una razionalità che vada oltre, sottomettendo ai suoi scopi, quella più limitata ed individuale del minimo mezzo – può solo essere pensata in quanto applicata dallo Stato, in quanto inerente alla sua “personalità” (da qui lo Stato etico e balle varie). I “marxisti” rivoluzionari si sono affrettati a sostenere che lo Stato è solo uno strumento della classe borghese, della classe proprietaria, dei suoi interessi generali. Quindi abbiamo una classe di borghesi, di individui tutti concentrati e permeati dalla razionalità del minimo mezzo e del massimo risultato (nella forma del profitto), una razionalità prettamente individualistica. Tuttavia, questi limitati e micragnosi individualisti, evidentemente solo per motivi di sopravvivenza “collettiva” della loro classe, saprebbero mettersi insieme e porre ai loro servizi una legione di funzionari in un apparato che perseguirebbe gli interessi generali, che sarebbe in grado di operare delle sintesi; e che dovrebbe anche guadagnare il consenso di quella che, stando alle leggi marxiste della centralizzazione monopolistica dei capitali, sarebbe divenuta la stragrande maggioranza, sempre tendenzialmente crescente, della popolazione. Mentre i capitalisti, che per sopravvivere si servirebbero dello Stato, sarebbero stati sempre meno numerosi; quale onere sulle loro spalle! E’ ovvio che dovesse nascere l’opportunismo riformista. Perché predicare violenza e sangue, rivoluzioni con disgregazione del tessuto sociale, impoverimento e momenti di barbarie? Basta impadronirsi pacificamente e democraticamente dello Stato, e da qui, avendo la visione complessiva che manca ai limitati e individualisti proprietari privati, contenere il loro egoismo, piegarlo alle esigenze della collettività, utilizzando però al meglio la loro spinta al profitto che in fondo applica la “benefica” (se controllata) razionalità dell’economizzazione delle risorse scarse.            

Non a caso, questa è stata la via ideologica seguita da tutte le organizzazioni del sedicente movimento operaio man mano che è avanzato lo sviluppo capitalistico. E tale ideologia ben si è adattata agli sviluppi della società capitalistica, alla sua articolazione sempre più complicata; se così non fosse, essa non avrebbe prevalso riducendo i “comunisti rivoluzionari”, in tutti i capitalismi avanzati, ad autentiche macchiette, a caricature ignobili di ciò che fino a meno di cent’anni fa era sublime. Certamente esiste la produzione di plusvalore; e non c’è alcun motivo di considerare falsa o decaduta la teoria che “rileva” tale “fatto”. Essa non ci dice però proprio nulla di ciò che ci serve per capire lo sviluppo capitalistico a livello mondiale, se per sviluppo non intendiamo la mera crescita del PIL (e di altre variabili puramente economiche e perfino soltanto contabili), ma il cambiamento delle strutture sociali e dell’intera configurazione geopolitica globale di epoca in epoca. Decisamente più interessante e più attenta alle dinamiche sociali è la teoria che pone al centro il modo di produzione, ma anch’essa è limitata ad un ambito generalissimo di sviluppo di una società considerata nelle sue tipizzate strutture di rapporti che definiamo capitalistiche (appunto in generale). Una ben diversa teoria è oggi necessaria, ma per il momento non c’è; c’è solo la crisi delle vecchie, ormai decrepite.

Mi scuso per questo breve e sintetico détour teorico, ma era necessario per capire che cosa deve intanto fare una terza forza, anche dal punto di vista dell’inizio di una critica dell’ideologia dominante. Non deve restare nel cerchio della critica alla tecnica (e alla scienza); critica che, in ultima analisi, rafforza la tecnica e la scienza, lasciandole inoltre libere di svilupparsi nelle direzioni più confacenti al potere capitalistico. La critica non deve limitarsi all’economicismo intrinseco alla mera contestazione della razionalità strumentale, del minimo mezzo (che, messa al servizio della collettività, ove fosse possibile, sarebbe positiva). Bisogna affrontare l’altra razionalità, quella delle strategie, quella della potenza, della miglior disposizione delle “truppe in battaglia”, delle mosse da compiere in questa battaglia. Bisogna prendere sul serio il lato più riservato e segreto della razionalità effettivamente impiegata dai dominanti – valutandoli non come un tutto unitario ma nella loro conflittualità reciproca – onde, in un certo senso, rivoltargliela contro, renderla distruttiva per loro, bloccando il conseguimento dei loro precipui scopi. E adesso quindi procediamo.

 

7. E’ ovvio che non deve essere seguita l’ossessione economica (contabile) propalata da individui che si chiamano economisti, ma che non hanno nulla a che vedere – tralascio Marx ricordando solo gli scienziati delle classi dominanti – con un Marshall, un Böhm-Bawerk, uno Schumpeter, un Keynes (per citare qualche nome fra i molti possibili). L’ossessione di cui parlo è quella del debito pubblico e del deficit annuale. Secondo la UE – questa unione quasi solo monetaria, incapace di una politica decente e indipendente dagli USA – l’Italia dovrebbe riportarli, rispettivamente, al 60 e al 3% del Pil. Tutto ciò nel mentre si “danno i numeri” sulla sempre annunciata prossima ripresina, essendo ottimisti o pessimisti a giorni alterni. Adesso si ritiene altamente probabile che già nella seconda metà dell’anno (sicuramente nel 2007) si manifesterà almeno un netto rallentamento dell’economia USA (alcuni però affermano che “sfiorerà la recessione”, qualcuno pensa persino peggio); i dati degli ultimi mesi indicano anche un raffreddamento dell’annunciata veemente avanzata della Germania, su cui tanti puntano perché faccia da traino dell’Europa. Come si possa cianciare di una ripresa italiana in queste condizioni, è il solito mistero dei nostri buffoni giornalisti ed “esperti” di economia. E ancora più misterioso è come si pensi ad una ripresa mettendo in cantiere manovre di contenimento della spesa pubblica e di aumento delle imposte. Oltre al fatto che la Banca europea continua a ventilare l’ulteriore aumento del saggio di sconto (fino al 3,5%), manovra che deprimerebbe le attività e rischierebbe di far esplodere la “bolla immobiliare”, mentre siamo a, se non erro, 170 miliardi di euro di mutui bancari per immobili (la maggior parte a tasso variabile).

Guai però a seguire questi sedicenti economisti – a partire dall’ineffabile Governatore della Banca d’Italia, che ha praticamente eliminato i controlli sulle banche, sulle loro fusioni, sui loro giochetti finanziari, sulle scalate, ecc. affidandosi alle “virtuose” leggi del “libero” mercato – nei balletti sulle cifre e sulla sistemazione dei vari conti (non solo quelli pubblici). Va comunque ricordato, per onestà, che un sessantina e più di economisti di centrosinistra hanno messo in luce le contraddizioni e i controsensi governativi (e di molti altri loro colleghi, puri “consiglieri del Principe”, senza alcuna dignità scientifica). Stimabili questi economisti, ma a mio avviso poco convincenti; sia per il tono un po’ asettico (e anche leggermente complicato per il “volgo”) delle argomentazioni, sia perché comunque tengono una posizione molto economicistica, ispirata ad un neokeynesismo che, per quanto limpido e coerente, mi sembra solo in posizione antitetico-polare rispetto al neoliberismo (e sappiamo che tale termine, lukàcsiano, indica il mutuo sostegno di tesi contrapposte; esattamente come lo sono le forze politiche di destra e di sinistra).

Il problema è invece politico (nel senso alto di politica), di scelta di una strategia di fondo. Ed è in questo contesto che si comprende come la politica antiegemonica che qui si propugna, sia pure nelle sue linee direttrici molto generali, non ha soltanto, e nemmeno principalmente, a che vedere con la semplice giustizia ed eguaglianza in campo internazionale; non si tratta esclusivamente di indignarsi – anche, ma non primariamente – per la prepotenza imperialistica statunitense. La politica imperialistica va combattuta, ma sapendo che la contrapposizione ad essa è una parte della politica antiegemonica. Se propugnassimo quest’ultima solo perché siamo a favore delle masse diseredate del mondo arabo e africano, perché ci piace il populismo alla Chavez o alla Morales, perché siamo per il pacifismo “senza ma e senza se”, saremmo ben presto sbaraccati via; ci confineremmo, per scelta moralmente elitaria, in ristrettissime aree di generosi, incapaci di capire alcunché dei grandi sommovimenti che stanno avvenendo – in specie con la crescita di grandi potenze ad est – e che non saranno certo molto pacifici, pur se non penso alla stessa violenza del XX secolo, alle grandi guerre mondiali.

L’antiegemonismo è necessario per il nostro sviluppo, che non dipende dal meschino equilibrio dei conti pubblici, non dipende dall’essere trainati dalla domanda di nostri prodotti (di nicchia) da parte di USA o Germania o altri, non dipende dal nostro sistemarci in comodi anfratti della sfera di dominio del paese centrale. Si può anche dover sacrificare la crescita nel breve periodo (cioè il tasso d’aumento del Pil), ma ci si deve liberare al più presto possibile di questi governanti subordinati che ci vessano per raggiungere l’equilibrio dei conti; dobbiamo concentrare le risorse che abbiamo, magari al momento scarse, per rafforzare, più spesso per approntare ex novo, le strutture del sistema-paese – certo ricercando l’unione e l’alleanza con altri – al fine di allargare la nostra potenza, la nostra sfera di influenza, nel giro di un periodo non “secolare”. In questo senso ha importanza dare impulso alla spesa (che verrà invece ridotta di un 10% annuo fino al 2009) per la ricerca scientifico-tecnica, che non è quella conclamata montezemolianamente (per le “allodole” del popolo italiano), bensì quella indirizzata veramente verso i settori detti di punta, di eccellenza, che debbono alimentare una effettiva concorrenza nei confronti di quelli del sistema-paese dominante, non restare a questi soltanto complementari (e dipendenti). La Cina – che già oggi ci supera in percentuale del reddito speso ai fini di una ricerca assai avanzata, e che riattira i suoi scienziati emigrati negli USA con stipendi di tutto rispetto – ha deciso di quasi raddoppiare tale percentuale, e di un reddito che cresce con quel po’ po’ di ritmo, entro il 2010. L’Europa, e noi peggio di tutti, risparmia su queste spese, e quelle poche che fa le disperde, salvo rare eccezioni, in progetti di sostegno ad attività in favore di gruppi finanziari e industriali privi di sprint o per acquietare i sindacati con qualche “offa” occupazionale. 

  Adesso poi ci si è messi in testa di conquistare prestigio con mosse militaresche; tutte per servire gli interessi fondamentali degli USA e dei loro accoliti tipo Israele. Non basta esibire quattro navi e qualche migliaio di soldati sparsi un po’ di qua e un po’ di là, per di più attrezzati in prevalenza con materiale militare americano; per cui, se gli USA volessero, ci farebbero mancare i pezzi di ricambio, le innovazioni apportate alle armi, gli istruttori per il loro uso rinnovato, ecc., smorzando la nostra boria ingiustificata. E’ ovvio che simili manovre, condotte al ribasso, servono solo ad allenare e a far conquistare prestigio “nazionalistico” (a buon mercato) ad una sorta di forza di polizia, che compie soprattutto servigi per la potenza maggiore, con qualche cointeressenza non ampia, oltre ad essere pronta anche per usi interni ove se ne presentasse la necessità. La potenza, e l’influenza, si acquisiscono in molti modi, e non credo che in questa fase la modalità apertamente militare sia quella più utile, se non appunto per coloro che vogliono servire da complemento alla forza altrui, ripagati da modestissimi compensi solo indirizzati sia a gruppi economici (in particolare finanziari) subordinati al centro sia al ceto politico (e sindacale), di destra e di sinistra, che rappresenta gli interessi di detti gruppi.

Molto più importante è il lavoro culturale, per noi particolarmente difficile perché la nostra lingua non ha proprio diffusione alcuna; eppure si potrebbero egualmente ottenere dei risultati con un atteggiamento meno servile, non così totalmente e perfino demenzialmente aperto alla lingua e alla paccottiglia culturale statunitense. C’è il cosiddetto lavoro di intelligence (assai importante), l’acquisizione di “amicizie” in settori politici e governativi di altri paesi rilevanti soprattutto come possibili aree di esportazione dei nostri principali prodotti o di rifornimento di materiali energetici. C’è un cruciale lavorio da compiere nei confronti di settori industriali stranieri, soprattutto per l’acquisizione di tecnologie avanzate che non deve sempre essere ottenuta con metodi “ortodossi” (e tuttavia alcuni di questi sono costosi, oltre che pericolosi). C’è da stabilire una serie di alleanze diverse da quelle oggi in atto; da questo punto di vista, l’atlantismo è un obiettivo su cui concentrare la propria critica e distacco, ma non con i soliti discorsi pacifisti, da “anime belle”. Nemmeno sono poi da stabilire, in questa fase, nuove alleanze ferree e immutabili; non dobbiamo uscire da una dipendenza USA per invischiarci troppo tenacemente in schieramenti diversi.

Ricordiamo la situazione. Esiste nella fase attuale un’unica – ma non stabile, non delimitata con nettezza – sfera egemonica: quella USA. Abbiamo però ormai quattro, cinque (o anche più) “potenze regionali” in crescita che minano questa sfera egemonica, la sbrecciano qua e là, ma non ne hanno costituite altre, nettamente ostili e contrapposte a quella statunitense. Stiamo entrando in una fase policentrica; ma è un stiamo di carattere storico, che implicherà un periodo di tempo abbastanza lungo. Per il momento siamo in preda al disordine globale crescente, alla fluidificazione ed elasticità dei confini della sfera egemonica esistente, a contraddizioni acute che si giocano sotterraneamente con l’astuzia, l’inganno, il raggiro, l’eliminazione spesso violenta delle “propaggini armate” dei diversi centri in formazione e dell’unico già formato (il dominante centrale). C’è da agire in questo caos, in questo farsi e disfarsi – non limpido, non alla luce del Sole – di alleanze e controalleanze abbastanza labili, comunque incerte. E’ necessario garantire solidità, affidabilità almeno per il tempo necessario a portare avanti un dato obiettivo, ma soprattutto dimostrare che si è decisamente autonomi e indipendenti nello stabilire le linee di un comportamento sia pure “a geometria variabile”, legato alle congiunture (non però di mese in mese o di anno in anno; un po’ di serietà e di coerenza fa bene). E comunque, data la fase storica che viviamo, fase di entrata, ancora confusa e instabile, nel policentrismo, la nostra bussola deve essere orientata all’antiamericanismo, ma come semplice specificazione storica dell’antiegemonismo. 

Poiché nel capitalismo l’economia è senz’altro rilevante per l’acquisizione della ricchezza necessaria alla potenza, quest’ultima deve puntare al rafforzamento della sua fonte di alimentazione; e deve quindi sviluppare industria, servizi (anche finanziari), tutti gli strumenti insomma che sono utili allo sviluppo. L’attività imprenditoriale non va certo trascurata, ed è necessario puntare ad essa in quanto legata alla ricerca più avanzata, di eccellenza; la qual cosa richiede dimensioni d’impresa notevoli, ma anche certamente un sistema integrato con la presenza di un ampio ventaglio di dimensioni. Sempre ricordando, per non fare i soliti discorsi legati ai sogni, che siamo in un società ancora capitalistica, quindi intrinsecamente anarchica, conflittuale, attraversata da molteplici competizioni che, per quanto le si regolamenti, fanno continuamente riemergere gli aspetti aggressivi quali dominanti su quelli cooperativi (perché ci si mette insieme e si collabora con la prevalente finalità di abbattere qualche altro o di costringerlo ad accordi capestro). Non bisogna autoingannarsi e raccontarsi favole fondate, in ultima analisi, sul ben noto “apologo di Menenio Agrippa”. Non cinismo, ma lucidità; non esaltazione del conflitto, ma presa d’atto di com’è al momento il mondo, e capacità di navigarci dentro per sfruttare al meglio, e per il meglio (possibile in ogni data fase), le sue caratteristiche che non muteranno d’emblée per il semplice fatto di desiderarlo.

In Italia, al presente e date anche le scarse risorse, ci si deve concentrare, oltre che sulla ricerca nelle direzioni già indicate, sul rafforzamento di quelle poche imprese di punta al momento presenti. Cito le solite Eni, Finmeccanica; ce ne sono pure altre, comunque poche. E a queste si deve prestare attenzione particolare – ma non perché sono “pubbliche” (tanto lo sono ormai parzialmente) – mentre va battuto il blocco di potere che punta su un insieme di altre industrie meno utili alla potenza, e su un apparato finanziario che sembra crescere su se stesso sia per acquisire sempre maggior potere politico sia per rastrellare le risorse del paese indirizzandole nel modo meno concorrenziale possibile nei confronti del paese centrale dominante. Se la potenza si basa sull’economia, non ci si deve mai scordare tuttavia che l’economia è alimentata dalla potenza, fiorisce se si utilizza adeguatamente la potenza. Tutti i discorsi sulla competitività limitati ai problemi dei costi, quindi alla ricerca sia delle migliori soluzioni tecnologiche e organizzative per accrescere la produttività del lavoro, sia di economie di dimensione (di scala) e di “integrazione” delle varie attività produttive e di servizio, ecc., sono svianti e ingannevoli se dimenticano il problema delle sfere di influenza da acquisire. Spesso non c’è nulla di peggio delle verità parziali, perché implicano il nascondimento del sostanziale, di quanto è decisivo per non fare di una “verità monca” un’autentica falsità.

E’ dunque evidente che, come già all’epoca della diatriba tra ricardiani e seguaci di List in merito al commercio internazionale, oggi è ancora più vero che la competizione non si basa, se non nelle chiacchiere ideologiche, sulle problematiche del “libero mercato”. Pur accettando, in prima battuta, il riferimento all’attuale sistema economico-sociale, diventano decisive appunto le scelte politiche e la potenza che le accompagna; la contrattazione delle regole relative al mercato internazionale vanno sussunte sotto queste scelte e sotto questo gioco dei rispettivi rapporti di forza, che non si svolge, non per l’essenziale almeno, nella mera sfera dell’economia (produzione e finanza), posta anzi spesso al servizio delle scelte in questione, proprio al fine di un suo irrobustimento e di un sua migliore capacità competitiva.

D’altra parte, è altrettanto limitata la critica neokeynesiana, che accetta il fondamentale tema della concorrenza economica, al massimo condendolo con il riferimento ad un consenso sociale ottenuto con l’aiuto dello Stato protettore, assistenziale, che si rivolge “misericordioso” ai meno abbienti. Lo sviluppo viene inoltre legato troppo strettamente al mantenimento di un adeguato livello di domanda. Anche qui viene dimenticato, totalmente messo da parte, ogni problema di rapporti di forza che non si conquistano mai con la sola economia, e nemmeno con un’azione statale rivolta esclusivamente a conquistare il consenso sociale sollecitando l’abitudine ad essere assistiti (magari “dalla culla alla tomba” come si diceva un tempo). Nel momento in cui stiamo progressivamente entrando in un nuovo policentrismo, non ci si deve dimenticare la questione cruciale degli squilibri esistenti nell’assetto geopolitico globale; altrimenti, in un breve volger di tempo, l’arretramento del paese renderà palpabile l’impossibilità di mantenere la spesa sociale a certi livelli. Ormai, non si può evitare il tema della competizione; la scelta è solo tra due alternative: a) credenza nella “virtuosa” concorrenza puramente economica nell’ambito di un mercato supposto “libero”; b) comprensione della decisività delle scelte politiche per l’accrescimento della propria potenza.  

Pensare di evitare questa scelta, e dunque questa lotta tra due prospettive diverse, è ingannevole e anche, malgrado voglia credere alla buona fede dei neokeynesiani, estremamente negativo al fine di porre le basi per una autentica trasformazione politica e sociale. Oggi, il neoliberismo è in evidente crisi e, se dovesse evidenziarsi a breve termine anche solo una recessione a breve termine – dopo periodi di sviluppo dipendente che non ha risolto alcun problema dei paesi europei in evidente impasse – non è improbabile che si arrivi a punti di svolta estremamente interessanti e passibili di sviluppi politici positivi, tipo appunto lo sbaraccamento della destra e della sinistra e l’avvio della crescita di una terza forza. Proprio in simile frangente, guarda caso, si ripresenta sulla scena, al fine di sostituire il liberismo, il solito e ben noto keynesismo sociale d’antan, che di fatto deprimerebbe ancora le possibilità di affermazione di una nuova potenza europea – non la UE, l’unione prevalentemente monetaria odierna, sia chiaro – con il bel risultato di protrarre il dominio dei settori finanziari (e industriali assistiti) completamente asserviti ai predominanti USA (magari di nuovo guidati dalle lobbies democratiche invece che repubblicane, evento egualmente negativo ai fini di una nostra effettiva autonomia e indipendenza). E’ proprio questo movimento pendolare, che dura dal 1945, a provocare il nostro sempre crescente asservimento alla potenza centrale. Da qui dobbiamo uscire; e dobbiamo dunque rifiutare, nel contempo, neoliberismo e neokeynesismo, in quanto aspetti economici (e ideologici) del “gioco degli specchi” tra destra e sinistra.

 

8. Arriviamo ad un punto cruciale. Ripetiamo. Se vogliamo liberarci della dipendenza dagli USA, senza cadere sotto il giogo di altre dipendenze, dobbiamo accrescere le nostre capacità competitive, che di fatto sono connesse alle potenzialità di sviluppo del sistema paese. Non avendo certo quest’ultimo in sé le possibilità di essere nemmeno una vera potenza regionale, dovremo cercare alleanze, ognuna delle quali non è mai perfettamente alla pari poiché esiste sempre una qualche dissimmetria, da ridurre tuttavia al minimo. Oggi, in una situazione di ancora netta prevalenza statunitense, in un’epoca in cui stiamo entrando nel policentrismo ma ne siamo ancora lontani, le nostre tendenziali alleanze, in funzione antiegemonica, dovranno spostarsi in sostanza verso est (e pure verso sud); la terza forza dovrà agire nel contempo con il fine di trovare delle sponde (ed eventualmente ad esse collegarsi strettamente) in sede europea, sempre però che venga condivisa la coloritura antiegemonica della propria azione e l’accettazione di uno spostamento dei rapporti verso est.

Il potenziamento del sistema paese esige che l’avanguardia, in tema di imprese, sia assunta da quelle di grandi dimensioni; non grandi in generale, poiché tali imprese dovranno in prevalenza operare nei settori di punta, essendo assistite da una cospicua ricerca scientifico-tecnica non soltanto effettuata all’interno dei vari dipartimenti R&S imprenditoriali, ma anzi per l’essenziale gestita nel settore universitario e soprattutto in centri di ricerca di eccellenza (dove concentrare risorse non miserabili come quelle odierne). Nello stesso tempo, poiché la competizione non è puro problema di costi, di produttività, quindi di soluzioni tecnico-organizzative di tipo aziendale, è necessario sviluppare tutto l’ambito della cosiddetta intelligence economica, fra l’altro attenta ai problemi più generali di esportazione dei nostri prodotti e di acquisizione di prodotti altrui (soprattutto energetici) che servano non singole imprese ma, appunto, il sistema complessivo. Sono da considerarsi negative le fusioni bancarie solo indirizzate a rafforzare il complesso finanziario ai fini della preminenza, con asservimento della miserabile politica odierna di destra e di sinistra, mentre sarebbero utili se orientate al servizio di una politica industriale d’avanguardia, di avanzamento scientifico-tecnico e di impulso ai più svariati aspetti dell’azione antiegemonica. E’ poi necessario acquisire anche, ove occorra, i ritrovati tecnico-scientifici degli altri con le modalità più adeguate. Occorre infine una ancor più rilevante azione politico-diplomatica, che sappia avvalersi di tutti i mezzi necessari – possibilmente anche di quelli culturali – per acquisire sfere di influenza. E’ dunque ovvio che non ci si deve più basare, “artigianalmente”, sulle opinioni a spizzico di singoli guru dell’economia e della finanza, su attività svolte da lobbies di potere di ristrette vedute – tipica in Italia quella del patto di sindacato della RCS, solo per fare un piccolo esempio – poiché è invece indispensabile creare veri centri di studi strategici, dove le strategie vadano valutate andando molto oltre il ristretto ambito dei meschini interessi individuali delle appena nominate lobbies; e spesso anzi in netto conflitto con queste ultime, da combattere in certi casi con tutti i mezzi a disposizione per tagliare loro le unghie.

Si pongono allora due problemi cruciali: a) l’effetto globale della competizione; b) la struttura sociale (e dei suoi raggruppamenti maggiori) che va riconfigurata in funzione degli obiettivi postisi. Affrontiamoli uno alla volta, anche se poi, nell’attività politica concreta di una terza forza, solo l’insieme (dunque la loro ricomposizione strategica) consentirà di conseguire i risultati desiderati, mantenendo anche aperto il futuro della trasformazione sociale, però in un arco temporale molto al di là di ogni pur approssimata previsione e progettazione odierne. Se qualcuno pensa che l’obiettivo prioritario, per i prossimi 20-30 anni, sia la rivoluzione della società secondo i desideri di giustizia, eguaglianza, cooperazione, fine dell’aggressività, della prepotenza, della sopraffazione, fioritura della generosità e solidarietà umane, onde conseguire l’organizzazione sociale agognata dai comunisti di un tempo, ebbene questo qualcuno esplica una funzione negativa in vista di una politica antiegemonica; in molti casi può persino divenire un nemico acerrimo – non mi interessa se in buona o cattiva fede – di tale politica, oggettivamente alleato di quella destra o di quella sinistra, che si pongono al servizio degli interessi “di bottega” di piccoli gruppi capitalistici parassitari, a loro volta servitori dell’egemonia del paese centrale. Certamente, tra i vari nemici sussistono molteplici contraddizioni; proprio per interessi differenti che si traducono in attività contrastanti, tali da rendere a volte debole il fronte avverso. Che si debba giostrare tatticamente tra queste contraddizioni, non vi è dubbio; ma sapendo che si tratta in sostanza di nemici, tutti da “seppellire” nella “fossa comune” del “superamento storico”.    

Chiarito questo punto, va riconosciuto senza ideologici mascheramenti, senza ingannare e autoingannarsi, che promuovere la politica antiegemonica significa, nei prossimi decenni, favorire l’ascesa di nuovi centri che tentino di coagulare attorno a sé determinate sfere egemoniche alternative a quella statunitense. Mi sembra ovvio che tale processo non debba essere prevalentemente – anzi il meno possibile – attuato con mezzi militari, con apparati bellici. Non però, sia chiaro, per puro pacifismo; proprio perché, invece, se ci si mette su questo piano, l’unico risultato – già visibile oggi con le missioni o “di pace” o “antiterrorismo” e via dicendo – è quello di creare forze di supporto all’egemonia del paese centrale; si elemosina tutt’al più una minima cointeressenza nel dominio di certe aree, ma si alleggeriscono i costi (economici e politici) delle attività egemoniche degli USA e dei suoi principali “sicari”, in particolare Israele, ma anche il regime pachistano di Musharraf, che dovrebbe essere invece messo sotto stress per una rapida caduta, onde favorire un più ravvicinato approdo antiegemonico (policentrico) della configurazione geopolitica complessiva. Quindi niente mezzi apertamente militari, ma nemmeno competizione puramente economica nel sedicente “libero mercato”, una competizione che sarebbe allora completamente dominata dagli USA, abili nell’utilizzare numerosi strumenti, ivi compresi quelli finanziari che, nel paese centrale, operano in sintonia con i progetti di dominio globale. Come diceva il grande Clausevitz – insuperato, malgrado certi cretini vorrebbero rovesciare la sua formula – la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Questi mezzi della politica sono però molteplici; non tutti debbono sfociare nelle guerre, ma tutti non sono per nulla pacifici, indolori, rispettosi dei sentimenti delle “anime belle”.

Se si promuove il confronto, se ci si indirizza seriamente ad una politica antiegemonica in un sistema come quello oggi esistente, permeato da strutture capitalistiche, è necessario essere consapevoli che verranno accentuati, per una intera fase storica, alcuni effetti tipici del capitalismo: anarchia conflittuale, crisi, disordine, sommovimenti e squassi sociali. Non si può “volere la botte piena e la moglie ubriaca”, come suol dirsi. Lenin, l’unico vero grande rivoluzionario del ‘900, afferrò il problema quando parlò di “legge” (che non era vera legge, bensì solo formulazione intuitiva) dello sviluppo ineguale del capitalismo; anzi dei capitalismi, poiché egli ben individuò che il conflitto tra i molti singoli capitali è nettamente sussunto sotto quello tra più paesi assurti al ruolo di potenze – cioè di complessi sistemi sociali, in cui economia e politica (e fenomeni culturali) si intrecciano fra loro strettamente in un intrico complicato – in lotta per la supremazia globale. Purtroppo – ma sarebbe troppo pretendere che egli fosse in grado di superare i limiti dell’epoca storica in cui agì – tale intuizione non rimise in discussione la tradizione marxista solo fondata sul conflitto capitale/lavoro, sulla concorrenza tra capitalisti, sull’estrazione del plusvalore in quanto base del profitto, sulla tensione di ogni singolo capitalista al massimo profitto, ecc.; in una vera orgia di predominante economicismo che ha reso il marxismo tradizionale, alla lunga, del tutto sterile ai fini della lotta nell’ambito delle più devastanti contraddizioni capitalistiche; solo Lenin (e, in misura inferiore, Mao) seppero utilizzarle praticamente, senza tuttavia poter far leva su di esse per una nuova teoria ben più ampia di quella nominalmente abbracciata.

Il dramma, in termini storici, è che l’ideologia ufficiale del comunismo – di quella corrente che comunque fece una rivoluzione mentre le socialdemocrazie tradivano clamorosamente ogni principio da loro conclamato, e con i principi anche le masse che le seguivano – riuscì a trasmettere l’idea di un Lenin difensore dell’ortodossia marxista contro il revisionismo di Kautsky; e il tragitto successivo delle socialdemocrazie, in specie dopo la seconda guerra mondiale, sembrò confermare questa opinione visto che il “riformismo” abbandonò, anzi ripudiò, ufficialmente il marxismo. In realtà, non è stato così; con il senno di poi, ci rendiamo ben conto che Kautsky fu sostanzialmente l’ortodosso e Lenin il revisionista; tuttavia impossibilitato a condurre fino in fondo, proprio per le ben più impellenti necessità di lotta contro l’opportunismo e il tradimento (politici) dei socialdemocratici, la rielaborazione radicale del pensiero di Marx onde farlo uscire dai suoi limiti inerenti all’analisi del modo di produzione e della formazione economica della società (analisi preziosissima, sia chiaro, ma insufficiente). Questa mancata rielaborazione, forse possibile in base alla pratica concreta della rivoluzione fatta da Lenin, condusse poi all’ulteriore degenerazione del marxismo, anche semplicemente in riferimento al pensiero di Marx: fu posta l’enfasi sulla teoria del valore (e plusvalore), per la smania di dimostrare “scientificamente” lo sfruttamento (ridotto quasi solo a quello operaio); un gravissimo slittamento teorico che pose le basi dell’opportunismo dei comunisti, nel dopoguerra, tutto teso a giustificare, ad est, la prassi della pianificazione generale da parte dello Stato supposto strumento in mano ai lavoratori; e, ad ovest, la politica parlamentaristica, con il sussidio della lotta sindacale, presentata come “via pacifica” al socialismo, mentre era esclusivamente una lotta per la distribuzione del reddito e per la spartizione di fette di potere, cui parteciparono i dirigenti piciisti e sindacali in nome della “Classe” ma per il proprio tornaconto.

Non vi è esempio migliore per comprendere come la teoria non sia pura astrattezza, mania di studiosi avulsi dalla realtà concreta, come pensano tutti i praticoni e i “militanti di base”. La teoria è la vera regina della prassi, la illumina, la dirige ed è la responsabile prima dei suoi successi o fallimenti. Una cattiva teoria come il marxismo – in specie quello degenerato in economicismo, quello della teoria dello “sfruttamento” – è pienamente implicato sia nel crollo del “socialismo reale” che nella degenerazione, oggi giunta al suo punto (quasi) massimo, dei rimasugli “comunisti”, divenuti “socialimperialisti” (come si sarebbe detto un tempo), corresponsabili del predominio delle peggiori frazioni (subdominanti) nei capitalismi non centrali, del tutto subordinate a quello centrale USA. Nei confronti di questo “marxismo” e di questo “comunismo” abietti e degradati va tenuto un atteggiamento molto simile a quello indirizzato alle frazioni subdominanti in oggetto. Bisogna combatterlo, malgrado metta in campo, almeno in Italia, delle squadracce che pretendono il monopolio della “rivoluzione” e dell’anticapitalismo mentre in realtà, con l’aiuto e il finanziamento della sinistra ufficiale, servono gli interessi dei subdominanti italiani legati ai predominanti statunitensi.

Tornando alle questioni più serie, oggi come ieri siamo in difetto di una adeguata teoria sociale dello sviluppo ineguale dei vari capitalismi. Una teoria che dovrebbe sintetizzare quella del modo di produzione e quelle più attente alla geopolitica complessiva. Tale sintesi non può però essere una mera giustapposizione di concetti teorici formulati in ambiti diversi e separati; occorre una idea nuova che riorienti il tutto della complessità strutturale della società capitalistica mondiale. Per fare un’analogia, pur imperfetta come ogni altra, una idea simile al nuovo concetto di gravità che consentì ad Einstein, nel 1916, di formulare la teoria della relatività generale ristrutturando così l’intero campo della visione cosmologica newtoniana. Non abbiamo questa idea, è inutile menare il can per l’aia. Tuttavia, dobbiamo prenderne coscienza, porre al centro della nostra attenzione teorica la mancante teoria sociale dello sviluppo ineguale – motivo non ultimo della presente incapacità di costruire la terza forza che sbaracchi via destra e sinistra – e smantellare l’ormai diroccato castello del “marxismo” e “comunismo” attuali, difeso dalle squadracce della sinistra (quella in doppio petto e “per bene”, ma che si avvale, di soppiatto, dell’attività distruttiva dei “lazzaroni”, dei “vandeani”, di turno).

Si deve procedere anche in assenza di una simile teoria, prendendo però pienamente atto di questa mancanza, che suggerisce pur sempre preziose indicazioni, come sempre avviene quando si è almeno consapevoli di una carenza analitica, e se ne delimita l’orizzonte, si inquadrano i confini del campo entro cui agire teoricamente. Va decisamente promossa la politica antiegemonica sul piano della geopolitica complessiva, consci della crisi – non puramente economica, l’unica che interessi i “marxisti”, questi ormai inutili sacerdoti di una dottrina – che essa provocherà, qualora avesse successo, con il suo corteggio di eventi comunque gravi, da gestire per far avanzare anche l’antagonismo nei confronti dei dominanti, approfittando delle controversie e scontri che tale politica, coadiuvando la condensazione di più sfere di egemonia (il policentrismo), produrrà fra di loro. Ed è qui che il discorso si apre ai raggruppamenti sociali. Però è prima necessario un nuovo, pur sintetico, détour teorico.