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Manifesto per la costruzione della terza forza (ultimi punti 9/11)

di Gianfranco La Grassa - 25/09/2006

9. Ho già sopra rilevato che sarà necessario in futuro – se si vorrà veramente por mano ad una nuova prassi politica con orientamento di massima anticapitalistico e non semplicemente antiegemonico – arrivare alla formulazione di quella che ho indicato, approssimativamente, come teoria sociale dello sviluppo ineguale dei capitalismi. Il vecchio comunismo si è esaurito perché il vecchio marxismo si è di fatto “suicidato”. Il campo del dibattito teorico – che definirei, nel contempo, ideologico – è nuovamente occupato principalmente dall’individualismo liberale, cui si contrappone al massimo il comunitarismo. Entrambi si presentano in numerosissime varianti, di cui non mi sento certo di rendere conto, ma il cui affrontamento mi sembra sostanzialmente interno ad un campo teorico-ideologico che favorisce di fatto l’egemonia dei gruppi sociali capitalisticamente dominanti, malgrado la seconda corrente vi si opponga spesso, almeno nelle intenzioni.

Secondo la mia opinione, il marxismo aveva avuto il grande merito di fuoriuscire, con il suo discorso sulle classi, da questo campo nel tentativo di contrapporsi effettivamente ai dominanti capitalistici. Tuttavia, tutto centrato sul concetto di modo di produzione (in specie capitalistico) e credendo di aver individuato il bandolo della matassa mediante la teoria dello sfruttamento – del valore-lavoro, di cui una parte è il plusvalore (pluslavoro) estorto al lavoro salariato (forza lavoro in quanto merce) – il marxismo ha pensato una dinamica di sistema che avrebbe condotto al raggruppamento tendenziale dell’intera società (addirittura mondiale) in due classi: al vertice, un gruppo sempre più ristretto di proprietari capitalisti (divenuti infine rentier, finanzieri) e, alla base, un raggruppamento sempre più vasto di lavoratori salariati, pur stratificati in diversi livelli quanto a collocazione gerarchica e tipologia lavorativa (direttiva od esecutiva), e tuttavia costituenti un gruppo in via di unificazione e compattamento: quello che ho più volte indicato quale lavoratore collettivo cooperativo, autentico soggetto deputato (oggettivamente) al rivoluzionamento della società capitalistica, al rovesciamento del potere del suo ristretto gruppo dominante.

La dinamica della società del capitale (e già la definisco così con molta approssimazione) è andata in direzione del tutto imprevista da Marx e, ancor più, dal marxismo (prevalentemente economicistico) successivo. La dinamica in oggetto non ha compattato né teso a riunificare i raggruppamenti sociali nei due fondamentali appena considerati, dando invece vita a frammentazioni crescenti, a multilaterali rapporti tra gruppi sempre più numerosi. La formazione sociale mondiale, coinvolta senza dubbio in misura crescente nel mulinello della produzione di merci di tipo capitalistico, è rimasta suddivisa in tante formazioni particolari, in sviluppo appunto ineguale e con periodici passaggi, turbolenti e caratterizzati da contrapposizioni violente multiple, dalla dominanza centrale di una di esse a quella di un’altra (l’ultimo passaggio è avvenuto dall’Inghilterra agli USA nel corso di circa un secolo, e anche più se si considera l’intermezzo del “campo socialista” e dell’URSS). Il “fuoco di artiglieria” costituito dalla crescente produzione e scambio delle merci non ha condotto, come pensava Marx, ad una unificazione del globo, bensì solo al collegamento tra le sue varie parti, al cui interno sono certamente avvenuti notevoli mutamenti della strutturazione sociale, non tali però da omogeneizzarle, dal renderle parti di un unico ed omologato sistema di relazioni capitalistiche mondiali.

Se anche concentriamo lo sguardo, con “visione occidentocentrica” sempre più insoddisfacente, a quella che ho definito formazione sociale dei funzionari (privati) del capitale, notiamo una segmentazione crescente, una moltiplicazione di gruppi sociali, una loro sempre più complicata “classificazione” che non va affatto nella direzione delle due classi fondamentali pensate dal marxismo. Non potendo più giungere ad una semplificazione mediante la dinamica supposta in base alla teoria dello sfruttamento (valore/plusvalore, ecc.), i critici anticapitalistici si sono buttati su una semplificazione ancora peggiore, più rudimentale e superficiale: la presunta omologazione dei modelli di consumo nelle società a capitalismo avanzato. Questa visione deriva precisamente dalla predominanza del tema della domanda connaturato alle teorie economiche dei dominanti: neoliberismo e neokeynesismo, l’una il rispecchiamento (rovesciato) dell’altra. La tesi dell’omologazione sociale tramite consumismo è il versante sociologico delle teorie economiche in questione; tanto superficiale la sociologia quanto lo è l’economia. Naturalmente sto parlando dell’oggi perché sia il vecchio liberismo che il vecchio keynesismo – per non parlare della sociologia à la Weber – avevano tutt’altra grandezza; oggi sono però degradati ad empirismo spicciolo, a meschine tecniche di politica economica e di controllo sociale che (mal) amministrano il miserabile “esistente” dei capitalismi avanzati; sia tessendone l’apologia sia formulando critiche del tutto moderate o comunque in mera contrapposizione polare, e mutuo sostegno, con quelle elogiative.

Non si può però rispondere semplicemente rispolverando “il suicida”, il vecchio marxismo che ormai appare perfino ridicolo nei dibattiti promossi da piccoli gruppetti di aficionados, che oltretutto non so cosa abbiano di marxista data la povertà e sterilità delle loro “accese” discussioni e dei loro assilli problematici. Lo spirito di Marx deve essere ripreso, su questo concordo; non ci si può limitare al liberalesimo, cioè all’individualità fondante la struttura delle relazioni sociali (tra presunti “eguali”), né ripiegare semplicemente sulla comunità o sulla Nazione, ecc. Credo che il discorso delle classi sia sempre decisivo; ma comprendendo che la dinamica capitalistica non semplifica la classificazione, anzi la complica sempre più. Non credo sia possibile, per il momento, fornire nulla più che un’indicazione assai vaga, come quella contenuta nella dizione: teoria sociale dello sviluppo ineguale dei capitalismi (non del capitalismo). Lo sviluppo ineguale vuol segnalare sia la disomogeneità e la non omologazione delle diverse parti della formazione sociale mondiale, sia il modificarsi delle loro relazioni e rapporti di forza nel corso di periodi (policentrici) di lotta per la supremazia, che in genere implicano il trapasso da quella di una di queste parti (finora sempre un paese, una nazione) a quella di un’altra parte. Il riferimento al sociale indica che, in questo tipo di sviluppo e di alternarsi di fasi poli e monocentriche, mutano le classificazioni dei vari gruppi sociali, che la dinamica capitalistica moltiplica, non invece unifica e compatta in due classi nettamente contrapposte e antagonistiche. Non ci si può limitare alla semplice lotta tra paesi, nazioni, etnie, religioni, ecc.; non ci si può limitare all’immagine delle due classi in lotta per la trasformazione sociale (per di più in una determinata e deterministica direzione: il comunismo, e addirittura su scala mondiale).

In attesa di individuare una teoria unitaria della (ultra)diversificata formazione sociale globale, e riferendosi per il momento a quella sua parte che è la formazione dei funzionari del capitale e per non più dei prossimi 20-30 anni, fisserei l’attenzione, del tutto provvisoriamente, su due obiettivi di analisi: le funzioni e i livelli di reddito. Le prime individuano soprattutto la segmentazione (orizzontale) di detta formazione sociale; i secondi la dividono (verticalmente) in più strati, indicando inoltre quali contengono il maggior numero di individui (gli strati “bassi” o “inferiori”) e quali il minor numero (strati “superiori”). La dinamica oggettiva della riproduzione capitalistica complessifica (anzi complica) la società, moltiplicando sia funzioni che livelli di reddito; diversamente però da quello che pensano certi marxisti scolastici, in certi periodi la differenza tra strati superiori e inferiori si accentua, in altri si attenua; in certi periodi, il modello della società è, come suol dirsi, a botte, quindi con ampliamento degli strati intermedi, in altri è a piramide poiché si impoveriscono gli strati medio-bassi e si arricchiscono quelli medio-alti. In mancanza di un’adeguata teoria della riproduzione capitalistica – che non può più essere quella semplicistica della tradizione marxista più economicistica – è difficile spingersi oltre queste notazioni di “buon senso”. Ne riconosco esplicitamente il limite, per così dire, sociologistico; e tuttavia ritengo necessario compiere questi primi passi al fine di liberarsi di quella nefasta idea di un movimento della società oggettivamente dicotomico, che ha illuso i comunisti circa la semplicità di una rivoluzione mondiale ormai prossima a compiersi, condannandoli alla sconfitta e ad una sopravvivenza ormai simile a quella degli anarchici.

Se il movimento effettivo – non semplicemente economico, ma sociale in senso complessivo – è invece teso alla differenziazione della strutturazione in gruppi, solo la politica, in quanto attività cosciente e costruttiva, può ricomporre la complessità (la complicatezza) e condurre al compattamento, artificiale, della maggioranza di tali gruppi in una unità di intenti trasformativi, ma passando per i giusti gradini intermedi che dalle “fondamenta” portano al “tetto” della costruzione. Lasciare il movimento alla sua spontaneità è comportamento impolitico, conduce alla disgregazione e all’accentuazione di quella moltiplicazione dei gruppi sociali che è il portato oggettivo della riproduzione capitalistica. In questo senso sono e resto fortissimamente leninista, più ancora che marxista; non però restando al leninismo di un secolo fa, non pensando all’organizzazione come all’avanguardia di una “classe in sé rivoluzionaria”. Se non c’è unificazione mediante dinamica oggettiva della riproduzione del capitale, il leninismo diventa più radicale e duro (e cattivo). Questo si deve sapere, se ne deve prendere coscienza; poiché non si potrà, in certi casi, non passare per un po’ cinici – pur se so che così non è – e senz’altro “poco democratici”. Però si tratta di scegliere: si vuol tentare di ricostruire le condizioni soggettive di una trasformazione o si vuol restare a chiacchierare su come dovrebbe essere buono e morale l’uomo? Quello nuovo, ovviamente, che forse tra mille anni nascerà, almeno così ci assicurano “alcuni” (che non sono nemmeno tanto buoni nei loro comportamenti individuali; ma loro pensano in grande, all’Umanità, di fronte alla quale gli individui sono meno che pidocchi; loro pensano ai secoli, forse ai millenni, non a qualche decennio). Noi siamo più limitati; pensiamo qui ed ora, anche se siamo pochi, squinternati, isolati.  

 

10. E adesso avviamoci verso le conclusioni ricordando che, pur se il discorso tende ad elevarsi a considerazioni teoriche generali, l’Italia – parte integrante (e a buoni livelli di sviluppo) della formazione sociale dei funzionari (privati) del capitale, pur se con sue specifiche caratteristiche socio-economiche e politiche – resta il riferimento precipuo di questo scritto. E’ innanzitutto necessario essere molto chiari e netti: l’Italia è un paese che sta, e deve restare, dentro la formazione sociale appena nominata. Nessuna propensione a discorsi che vorrebbero portarla fuori (e indietro) rispetto a quel tipo di modernità creato dal capitalismo; il nostro stile e il nostro tenore di vita, i nostri costumi e abitudini, sono per me argomenti indiscutibili. Sono per lo sviluppo e per l’avanzamento tecnico-scientifico; anche se non lo sono con ottimismo incosciente, non lo sono per ragioni di principio, di credenza nel valore assoluto della conoscenza scientifica, bensì soprattutto per motivi d’epoca, di fase storica. Certamente anche, però, perché non sono contrario a indagare lo sconosciuto e non disprezzo l’innalzamento dei livelli, cosiddetti materiali, di vita. 

Se “mi rassegno” ad appoggiare il fondamentalismo islamico contro USA e Israele è per puro spirito antiegemonico. Nel contempo, non mi esimo dal condannare pure certa barbarie russa nei confronti dei ceceni; perché ci sono limiti di ferocia e disumanità che non vanno superati e non possono essere tollerati, per quanto leninisti si sia. Tuttavia, lo ripeto, resto con il Marx dell’affermazione secondo cui “non sono le macchine, ma il loro uso” a dover subire una critica radicale. Del resto, tanto per fare un esempio, la dirigenza iraniana propaganda il suddetto fondamentalismo, ma sa benissimo che occorre potenziare le proprie capacità difensive e offensive con l’energia atomica, i missili a lunga gittata, i sistemi elettronici di comando di vari congegni (militari e non), le reti di telecomunicazioni, ecc. E, per quanto ne so, malgrado la condanna dell’interesse come usura, sa applicare le varie tecniche finanziarie più o meno quanto i banchieri occidentali. In ogni caso, l’Iran è un paese in sviluppo, e che lo persegue; meno male!

Alla larga dunque da coloro che predicano il ritorno ai “tempi in cui Berta filava”, che desiderano la frugalità e la parsimonia come unica critica al “consumismo” odierno, che predicano “alti valori morali” in cambio di un abbassamento del tenore di vita, ecc. Non vogliono affatto l’antiegemonismo, non vogliono affatto le trasformazione sociale (che si fa comunque con le “orrende masse”, non contro di esse); semplicemente desiderano ritagliarsi spazi elitari di “elevazione spirituale e culturale”, approfittando dello sviluppo capitalistico che comunque consente di vivere – e di spostarsi rapidamente, e di andare ai supermercati a rifornirsi dell’“essenziale” (vade retro il “superfluo”!) – a piccoli gruppi di solitari. Li potremmo anche lasciar vivere come pare a loro, se non fosse che sono presuntuosi, compresi della loro superiorità umana, odiosi e pieni di rancore verso chi non la pensa come loro; e molti sono anche furbastri, inzuppano il pane nelle pieghe dei finanziamenti che i dominanti, pur di distogliere forze in grado di criticarli e combatterli, forniscono loro, oltre a dar loro spazi editoriali, giornalistici, ecc.; tutto, purché spargano il loro verbo antimodernista, antisviluppo, antipotenza. Sono una tipica “malattia europea”, contribuiscono all’indebolimento e alla subordinazione della nostra area agli USA; e, un domani, anche ai nuovi paesi emergenti.

Chiarito questo punto fondamentale, procediamo. In definitiva, nei vari paesi della formazione sociale dei funzionari (privati) del capitale i gruppi dominanti sono un complesso di portatori di attività strategiche attuate soprattutto nella sfera economica (produttiva e finanziaria) e in quella politica, mentre a me pare che, pur assolvendo compiti di grande rilevanza, gli agenti strategici della sfera culturale si situino almeno un gradino “sotto” nella gerarchia del potere. Tra i gruppi dominanti politici e quelli economici (e tra i produttivi e i finanziari nell’ambito di questi ultimi) corrono cangianti e mutevoli rapporti di forza, che dovranno essere obiettivo di ricerca nell’ambito di una unificata teoria sociale dello sviluppo ineguale dei capitalismi. Data la strutturazione attuale della suddetta formazione sociale in paese centrale (gli USA) e non centrali (quelli europei e Giappone), rilevo intanto che nel primo domina una finanza, in stretto intreccio con la politica, del tutto funzionale allo sviluppo dell’industria – in specie dei suoi settori di punta, dei settori dell’ultima ondata dell’innovazione tecnico-organizzativa (di processo) e di prodotto – della ricerca scientifica d’avanguardia, della potenza tesa alla conquista e/o mantenimento delle proprie aree di influenza nel mondo; nei secondi, invece, la finanza dominante è più autoreferente, tende a subordinare a sé sia l’attività produttiva (e industriale in specie) sia le funzioni politiche. Tale “distorsione” nei rapporti di forza tra le varie funzioni dominanti (sempre di tipo strategico) è effetto della dipendenza dei paesi non centrali rispetto a quello centrale; i primi, infatti, cercano principalmente di situarsi al meglio in alcune maglie della rete di dominanza mondiale che il secondo tenta di accrescere e/o mantenere.

Situarsi al meglio significa appunto coadiuvare – con modalità varie, più o meno servili o con la ricerca di modesti ambiti di autonomia, spesso più apparenti che reali – il paese predominante nelle sue mene per la supremazia globale. Le funzioni politiche vengono dunque svolte dai dominanti non centrali nell’ambito della strategia globale di quelli centrali; l’industria, non potendo rinunciare alla cosiddetta conflittualità intercapitalistica (interimpreditoriale) – uno dei mezzi precipui per aumentare l’estrazione del plusvalore, che in questo contesto mantiene la sua chiara rilevanza – accetta la non centralità e la collocazione entro le maglie della suddetta rete di preminenza degli agenti strategici (economici e politici) centrali, sviluppando in misura troppo modesta i settori di punta, quelli dell’ultima epoca dell’innovazione di processo e di prodotto, e concentrando maggiormente gli sforzi nei settori delle precedenti fasi storiche dell’industrializzazione. Questi ultimi si sviluppano più stentatamente sul piano dei rapporti di forza tra capitalismi, ma ciò non impedisce loro affatto di funzionare brillantemente ai fini dell’estrazione del plusvalore; esso viene però, se così si può dire, raccolto dal complesso finanziario, coadiuvato dalla sfera politica ad esso subordinata, e indirizzato lungo sentieri che, nell’insieme e pur tra contraddizioni e scosse (di sistema) a volte non indolori, servono principalmente agli agenti dominanti del paese centrale, pur essi – sia chiaro – nient’affatto compatti e fra loro invece conflittuali (ma con una tendenza univoca al mantenimento della suprema posizione di comando). Quanto appena affermato per sommi capi vale in prima approssimazione, in attesa di una nettamente superiore sistemazione teorica.

In simile bailamme, che significato assume la politica servile dei dominanti (subdominanti) italiani? Che la finanza la faccia da padrone nel nostro paese, e che essa sia strettamente subordinata a quella statunitense, è chiaro per chiunque non chiuda gli occhi. Le uniche grandi fusioni e concentrazioni – che da economiche diventano chiaramente di potere e si asserviscono la politica – avvengono nel campo bancario e assicurativo, cioè finanziario. L’industria segue stentatamente, ed è relativamente poco concentrata; il 98% dell’attività industriale (e commerciale, comunque non finanziaria) è in mano alla piccola imprenditoria, in cui è occupata la gran maggioranza della forza lavoro (sia stabile che precaria) e che produce una elevata quota del reddito nazionale. Tale settore funziona appunto per accrescere la parte di prodotto che non è salariale, ma poi un’alta quota di tale parte affluisce verso quel (quei) gruppo(i) di potere (di subdominanti) che, con congrua cointeressenza, agiscono di fatto come rappresentanti dei predominanti centrali.

L’Italia è un tipico paese non centrale della formazione sociale di cui stiamo parlando; ed è di speciale rilevanza per i vertici del sistema-paese preminente ai fini del mantenimento dell’Europa nella loro sfera egemonica. Le società di rating americane imperversano, con la loro “guerra di (prevalentemente falsa) informazione”, nei settori, sia industriali che finanziari, italiani; e anzi emettono i loro giudizi interessati, e manovrati da chi di dovere, sulle politiche governative, coadiuvando e rafforzando i pareri degli organismi internazionali (dal FMI alla UE, ecc.), che danno una mano ai subdominanti politici italiani nella loro attività tesa a convincere la maggioranza del popolo ad accettare una serie di misure atte a porre la ricchezza prodotta sotto il controllo della finanza “internazionale”, alla cui sommità sta quella statunitense. L’industria grande-imprenditoriale è pienamente piegata ai progetti di tale finanza, e ne chiede l’aiuto, così come poi preme sugli agenti politici, i più subordinati fra quelli dominanti, per sovvenzioni varie che sorreggano la sua operazione di indirizzo dei settori piccolo-imprenditoriali ad una accentuazione dello “sfruttamento”, per poi meglio convogliare il reddito prodotto lungo i ramificati canali – controllati in particolare dalla suddetta finanza “internazionale” – che “lubrificano” le più complesse politiche di strutturazione della formazione sociale (sempre quella dei funzionari del capitale) secondo gli interessi dei predominanti, con la cointeressenza dei subdominanti.

Vista sommariamente la strutturazione delle “classi” dominanti, consideriamo quella parte sociale, di gran lunga la più consistente, costituita da quelle dominate o, dicendo meglio, non dominanti; nel senso che si tratta di raggruppamenti sociali che non hanno molta voce in capitolo nelle decisive scelte della politica, sia nazionale che internazionale. E’ in particolare con riferimento a questa maggioranza della società che si rileva la massima discordanza rispetto alle previsioni del marxismo tradizionale, poiché si verifica la sopra ricordata dinamica di moltiplicazione e diversificazione dei vari gruppi sociali: sia nel senso della segmentazione in orizzontale – formazione di diverse tipologie di lavoro e di funzioni nelle sfere sociali dell’economia, della politica e della cultura – sia in quello della stratificazione in verticale quanto a livelli di reddito, a status, ecc. E’ in questa sede che si constata come il movimento spontaneo (“oggettivo”) frammenti e complichi sempre più l’insieme sociale, impedendo il condensarsi della maggioranza d’esso nel presunto – dai comunisti – soggetto collettivo, conscio della sua forza e della conseguente possibilità di trasformare l’intera società secondo un progetto comune mirante al proprio interesse fondamentale e unitario.

Il movimento spontaneo divide invece la società in tanti corporatismi, diffidenti e spesso addirittura avversi gli uni agli altri, la cui reciproca, e più o meno sorda o esplicita, conflittualità facilita l’affermarsi di uno spinto individualismo particolaristico, che rende assai sottili e vuoti di significanza sociale i propri personali interessi, favorendo così l’affidamento della difesa degli stessi a ristretti organismi “professionali” (politici e sindacali), che su questa base si erigono al di sopra dei rappresentati, unendosi ai gruppi dominanti, cioè agli agenti strategici delle varie sfere sociali di cui si è già detto. La “classificazione”, per tipologia e funzioni lavorative, ha larghi margini di genericità e dunque di arbitrarietà: management (di vari livelli), “professioni liberali”, lavoro autonomo (dove c’è di tutto), lavoro salariato dipendente (che dal management, dipendente solo nella forma, va fino ai più bassi livelli esecutivi), ecc. D’altronde, tale classificazione, pur così imprecisa e fluida, è necessaria per muovere i primi passi nell’orientamento politico; dove però tale termine deve via via assumere un significato molto diverso da quello dei partiti, sindacati, associazioni varie, che raggruppano i loro adepti con l’intento di dis-orientarli, di riunirli in base ad appetiti fasulli – che ricordano, tanto per fare un esempio estremo, quelli di una tifoseria di calcio o di una setta religiosa, e via dicendo – cosicché gli interessi più fondamentali possano essere gestiti dagli organismi “professionali” di cui sopra, i cui dirigenti assurgono così ai vertici delle varie sfere sociali, al servizio ma anche in cointeressenza rispetto agli agenti dominanti.

La politica, in quanto prassi che vuol riunire ciò che il movimento spontaneo disaggrega, onde farne una massa d’urto ai fini della trasformazione sociale, deve anch’essa servirsi di orientamenti, da definirsi fondamentalmente ideologici, che hanno un più o meno alto grado di arbitrarietà e di artificiale “condensazione” (o invece di “volatilità”). E’ nella scelta di tali orientamenti che si comprende la direzione in cui si muove la politica intesa in questo secondo senso, la politica della trasformazione sociale: se cioè essa intenderà attuare, rifacendomi ad alcune formulazioni generali da me già utilizzate recentemente, una rivoluzione dentro o contro il capitale. Una ideologia forte, tesa a riunificare una intera parte della formazione mondiale (paese, nazione, etnia, “area culturale” detto in termini generali), può essere utile tatticamente, anche per un periodo di tempo abbastanza lungo (si pensi ancora una volta, come esempio, al fronte unito antigiapponese costituito dai comunisti cinesi); se però si protrae e diventa un orientamento di principio, strategico, rappresenta una mistificazione che confonde, riunendoli in un solo crogiuolo, dominanti e dominati (non dominanti), con ciò ponendo nei fatti i secondi (la stragrande maggioranza) sotto la supremazia dei primi (la minoranza).

Per questo, avevo sopra rilevato l’importanza del discorso marxista di classe. Un conto è chiarire come non esista il supposto movimento spontaneo che “abolisce lo stato di cose presenti”; perché questo Marx pensava, essendo convinto che tale movimento producesse il soggetto collettivo affossatore del capitalismo. Un altro conto è dimenticare, e anzi celare, l’esistenza delle classi, della frammentazione della società in gruppi con interessi diversi, di cui alcuni (minoritari) sono predominanti rispetto a quelli costituenti la gran massa della popolazione. Chi dimentica le classi – sia pure non trattandole come mero precipitato di una dinamica intrinseca ad un presunto unico ed omogeneo modo di produzione capitalistico – si pone veramente oltre lo spirito di Marx. Questo non è un delitto di lesa Maestà; tuttavia, va detto con chiarezza che è atteggiamento di obnubilamento ideologico a favore dei dominanti. Basta saperlo.

 

11. E adesso, allora, concludiamo veramente. Praticamente in tutti i paesi non centrali della formazione sociale dei funzionari del capitale, i (sub)dominanti – nel loro intreccio di agenti strategici economico-finanziari e politici, coadiuvati da strati di intellettuali – conducono le loro attività per la preminenza, in conflitto fra loro (anche con varie forme di collaborazione in funzione del conflitto), soprattutto mediante la ben collaudata, da una lunga tradizione storica, azione tesa al divide et impera. Quanto appena detto ha una valenza del tutto particolare in Italia, con i suoi più di sei milioni di lavoratori autonomi (le “partite Iva”).  E’ bene essere chiari in proposito.

Molti critici del capitalismo pensano che la vera strategia di dominio si fondi sull’omologazione della popolazione in base a certi modelli di consumo (il “consumismo”). Tale omologazione è assai più superficiale e apparente di quanto si sostiene; ad affermare simili tesi sono in genere ampie cerchie di  intellettuali, che fanno “senso comune” in una banale critica del capitalismo, visto solo come una gigantesca macchina che produce beni in quantità così enormi da provocare una “indigestione sociale”. Sfruttamento ed esaurimento del fondo naturale (e quindi ecologia come corrente che si pensa radicalmente alternativa alle presenti forme sociali e politiche), consumismo (e quindi lotta al presunto superfluo), onnipotenza dell’informazione (e quindi contestazione del dominio massmediatico): questi i tre pilastri di un atteggiamento che si crede rappresenti un moderno atteggiamento di attacco alla società capitalistica.

Sia chiaro che non si tratta di negare ogni fondamento ad un siffatto tipo di critica e di lotta. Solo che essa non sembra cogliere le linee di frattura interne alla dominanza del capitale, linee che sono provocate appunto dal conflitto intercapitalistico per la supremazia, e dallo sviluppo ineguale dei capitalismi più volte ricordato, con il conseguente alternarsi di fasi mono e policentriche che implicano strategie diverse di predominio, e dunque anche di opposizione ad esso. Consumismo, pervasività massmediatica, esaurimento del fondo naturale, diffondono sulla complessiva formazione sociale capitalistica un colore grigiastro che tutto confonde, impedendo di distinguere le differenziazioni; invece fondamentali in politica, poiché stanno alla base delle distinzioni tattico-strategiche che la caratterizzano. Se poi ci si riferisce in particolare alla pretesa omologazione via consumismo, essa è molto meno perspicua di quanto si pretenda, perché non credo che i modelli di consumo dei vip e quelli dei più bassi gradini della scala sociale, con l’innumerevole serie di livelli intermedi tra gli uni e gli altri, siano poi così omologati e omologabili come si crede da più parti.

Personalmente, punterei assai di più su un altro aspetto del dominio, sul divide et impera di cui sopra, proprio perché così si affronta, anche se ancora per “classificazioni” a grana fin troppo grossa, il problema decisivo dei blocchi sociali. Non è un caso che mentre il concreto elettorato si divide tra destra e sinistra in modo abbastanza confuso – nel senso che in ognuno dei due coacervi di votanti si trovano imprenditori di varia taglia, professionisti, manager, tecnici, lavoratori salariati (anche operai), precari, ecc. – i due schieramenti politici, soprattutto alcuni loro gruppi dirigenti e altri di tipo intellettuale e giornalistico, vorrebbero meglio qualificare la destra come forza di difesa del blocco costituito dal “ceto medio”, in realtà dalla piccola imprenditoria, dal lavoro autonomo individuale, dalle professioni “liberali”, ecc.; e la sinistra come paladina del lavoro salariato, soprattutto di fabbrica, ivi compreso quello già in pensione. La difesa del Welfare che fa la sinistra, in specie quella “più a sinistra”, non è vero sostegno al mantenimento dello Stato sociale, sempre più eroso, quanto invece tentativo di non perdere l’aggancio con i dipendenti dei medio-bassi livelli salariali.

Ci sono però molte commistioni e “impurità” in questa divisione politica per ceti; Udc e An tengono molto ad una loro base che si trova tra i dipendenti del settore pubblico; l’Udeur, i socialisti e radicali, ampi settori della Margherita e dei DS, temono di perdere l’aggancio con professionisti e piccola imprenditoria. E’ quindi tutto molto pasticciato; eppure, in questa confusione, non si può non notare che le forze politiche puntano comunque molto sulla divisione tra lavoro autonomo e dipendente. Il contrasto tra di essi è considerato elemento decisivo del gioco tra destra e sinistra, che tiene imbrigliate le forze sociale e impedisce il mutamento in Italia (e non solo da noi, dove comunque il fenomeno è più evidente e palpabile). 

E’ quindi ovvio che tale gioco dovrà essere messo in mora. Alla divisione – come già detto, tutt’altro che netta e chiara – per linee longitudinali (dall’alto in basso) dovrebbe essere sostituita quella per latitudine; cioè per fasce o livelli di reddito, non secondo la fonte di quest’ultimo, contrapponendo i salariati agli “altri” (una congerie assai variegata di ceti sociali). Non entro nei particolari, ma credo risulti evidente a chiunque come nascano le diffidenze reciproche tra autonomi e dipendenti (salariati). Ci si metta nei panni di un salariato (o pensionato) e si pensi a quali rancori questi possa nutrire nei confronti di certi vicini bottegai o professionisti o proprietari di case o agenti immobiliari, ecc; soprattutto per quanto concerne il pagamento delle imposte. Ci si metta nei panni di un autonomo e si immagini quale diffidenza (eufemismo) possa provare nei confronti di certi dipendenti pubblici (assai inefficienti e ben poco lavoratori), o comunque di quelli che timbrano il cartellino e all’ora data “staccano”, cascasse il mondo.

Questi sentimenti vanno compresi, ma combattuti, perché favoriscono il potere di chi veramente lo ha, di chi veramente decide delle sorti sia dell’autonomo che del salariato. Poiché la gran massa di entrambe queste figure lavorative si addensa verso i bassi e medio-bassi livelli di reddito, è ovvio che l’opera di chiarificazione politica, di individuazione dei reali agenti dominanti, di demistificazione e svelamento delle loro pratiche di dominio – fra cui quelle di tipo ideologico-culturale – va rivolta con particolare energia in direzione di tali strati sociali medio-bassi. Essi rappresentano la possibile base di massa di una terza forza che si erga contro il gioco della destra e della sinistra, tutto teso ad ingannare il “corpo elettorale”, a dividersi il voto e a sviluppare, con modalità differenti, una politica di subordinazione della gran massa della popolazione ai gruppi dominanti; ovviamente dietro congrua cointeressenza agli “utili” di questi ultimi.

Non credo comunque che il primo compito di una terza forza, in eventuale formazione, sia quello di cercare, tramite scorciatoie ed escamotages, di costituirsi quale partecipante al gioco elettorale, che la vedrebbe necessariamente minoritaria; mentre entrerebbe anche lei nei giochetti squallidi delle forze politiche e dei gruppi di agenti dominanti attuali. Non per purezza ideologica, quindi, tanto meno per ragioni etiche, è necessario pensare alla costruzione di una forza critica radicale, che conduca la lotta sul piano prevalentemente politico-culturale, illuminando il più possibile tutte le malefatte e la povertà, soprattutto strategica, dei subdominanti italiani (ed europei) e dei loro “sicari” politici e ideologici. Tuttavia, non ci si può limitare a predicare in favore delle “masse” e tanto meno dei soli lavoratori dipendenti (salariati).

E’ indispensabile attaccare a fondo, certamente, la politica del divide et impera, non accettando inutili campagne contro la evasione fiscale, che colpiscono solo i piccoli e lasciano salvi i grandi capitali all’estero, nei paradisi fiscali; ma anche all’interno, grazie a stuoli di straricchi commercialisti e avvocati che studiano tutti i marchingegni possibili con fusioni, scorpori, gonfiamento dei costi, riduzione dei ricavi, ecc. Non si deve nemmeno accettare semplicemente la polemica contro l’inefficienza e scarsa produttività dell’apparato pubblico, che esiste nei fatti, ma va attribuita fondamentalmente all’alta burocrazia, completamente immersa nel gioco della destra e della sinistra, soprattutto grazie al più che tollerato e praticato spoil system, che premia la fedeltà ai politicanti e non affatto la capacità di organizzare e dirigere.

Non basta, però, limitarsi a cercare il consenso di quella che, lo ribadisco, dovrà essere la “naturale” base di una terza forza: l’insieme delle fasce medio-basse del lavoro dipendente e di quello autonomo. E’ indispensabile – per un’intera fase storica caratterizzata, come già detto, da una prevalente lotta antiegemonica – propagandare e appoggiare la politica di rafforzamento di tutti i vari ambiti in grado di promuovere una politica di maggior potenza: ricerca scientifico-tecnica, grande imprenditoria (non importa se pubblica o privata) capace di dare impulso alle innovazioni di processo e di prodotto (dell’ultima epoca dell’industrializzazione), “guerra economica”, intelligence e diplomazia, alleanze (ed eventuali rotture delle stesse) in grado di ottenere i migliori risultati per il sistema-paese nel suo complesso, ecc. La politica del consenso diretta agli strati lavorativi già indicati non può trasformarsi in generica agitazione populistica, in appoggio sempre e comunque alle lotte di ogni settore del lavoro; ancor più negativo sarebbe l’indiscriminato appoggio al solo lavoro salariato esecutivo. Bisogna armonizzare strategie a volte in contraddizione fra loro, strategie di difesa del lavoro e strategie di rafforzamento del sistema-paese e, dunque, di quei settori che a tal fine sono indispensabili; senza le “malinconie”, tipiche degli opportunisti, dei “borghesi buoni” o “cattivi”. E bisogna andare del tutto oltre gli ambiti concertativi, luogo di mediazioni al ribasso tra capitalisti solo bisognosi di finanziamenti statali e dirigenti opportunisti degli apparati che raggruppano i lavoratori salariati, rendendoli docili strumenti al servizio di politiche propagandate come utili al “mondo del lavoro” mentre alimentano in realtà lo sperpero di risorse da parte di tutti questi parassiti che ci turlupinano.

Bisognerà riprendere le indicazioni leniniane relative alla “educazione di massa” circa l’imbroglio della falsa democrazia elettorale, per dirigere i metodi della politica verso altri lidi, che tuttavia debbono essere pensati e analizzati con molta ponderazione per non ricadere in altre forme di populismo – tipo i vari nazionalismi di altri tempi – di cui valutare adeguatamente i pericoli. Quando sostengo che bisogna andare contro destra e sinistra, infame “gioco degli specchi” dei dominanti, sia chiaro che intendo criticare anche il piciismo statalista (quello che è stato fatto passare per comunismo) e il fascismo nazionalista d’antan. Dobbiamo veramente trovare nuove vie; certo con qualche ricaduta, con qualche impurità o ambiguità, ma restando al proposito sempre vigili, senza abbassare la guardia. Non dobbiamo però farci ricattare da presunte vicinanze con settori che in ogni caso perseguono il fine di frantumare gli specchi della destra e della sinistra. Noi non pratichiamo simili vicinanze, ma la nostra bussola è orientata all’eliminazione dell’infame gioco che ci vuol bloccare in posizione subordinata e ci paralizza. Il resto è subordinato a questo compito principale. 

 

12. Sia chiaro che conosco benissimo l’attuale impossibilità di dar vita in Italia (e altrove, nelle società del nostro tipo) ad una terza forza. Il riferimento ad essa mi serve solo per fissare alcune direttrici di marcia per chi voglia oggi essere veramente critico dell’attuale società, comprendendo nel contempo l’inesistenza dell’alternativa secca tra capitalismo e comunismo (che nessuno capisce più che “bestia” sia; ognuno dice la sua in una confusione di “lingue” tra il ridicolo e il pauroso). L’importante è capire una serie di punti decisivi.

 

A) Una terza forza non sarebbe una nuova organizzazione o movimento politico che si aggiungerebbe a quelli indicati come destra e sinistra (con le varianti di centrodestra e centrosinistra). Si tratterebbe invece di una corrente completamente alternativa e che considererebbe le attuali come nemici da abbattere, non avversari con cui competere per avere un po’ di voti. Poiché tale forza non esiste, e nemmeno si può giurare sull’enuclearsi di condizioni che la rendano possibile in tempi ragionevoli, la discussione sull’argomento serve solo a fissare i punti generali (e al momento certo generici) di una politica che dovrebbe essere attuata per dare nuovo sviluppo – e autonomo, indipendente – al nostro paese. Una politica, soprattutto, che spazzi via l’autentico marciume odierno e prepari le condizioni per modificazioni profonde degli stessi rapporti sociali, delle forme del dominio attualmente presenti, in sede internazionale come all’interno del paese. Sempre però sapendo che non esiste alcuna possibilità di ribaltare gli attuali assetti di potere in assenza di una (geo)politica tesa all’autonomia e indipendenza, nonché a un ragionevole tasso di sviluppo della propria potenza (in unione ad altri). Puntare tutte le carte sul conflitto capitale/lavoro, attuando di fatto una mera politica redistributiva, può condurre nella direzione opposta a quella solo ufficialmente dichiarata – ingannando i “semplici” – da apparati che si erigono (falsamente) a rappresentanti del lavoro (salariato) e di fatto sono oligarchie (sub)dominanti legate al carro principale dei (pre)dominanti. Questi apparati sono nemici e, almeno come pensiero principale, da radere al suolo.

 

B) Bisogna smetterla con il flirtare con la dizione: destra e sinistra. Indichiamole, con linguaggio neutro, come schieramento D e schieramento S. Il 90% dell’insieme degli agenti (sub)dominanti politici (professionali), con anche il 90% degli agenti ideologici, è situato oggi nello schieramento S. L’operazione mani pulite – sulle cui condizioni di realizzazione ho già scritto altre volte in passato, e adesso non mi ripeto – ha ulteriormente selezionato, al peggio, tale personale, l’ha reso ancora più servile, meno autonomo rispetto ai (pre)dominanti. Nello stesso tempo, soprattutto in Italia, questo insieme di agenti politico-ideologici è stato distillato per esaltarne le peggiori qualità di autentica antidemocrazia e dittatura (non in sede elettorale, non nei massmedia, dove anzi viene concentrato tutto il gioco solo formalmente “democratico”) al servizio del complesso finanziario che distribuisce i compiti geopolitici, con predominio complessivo dei dominanti USA.

Nello schieramento S abbiamo tutti i peggiori (e ormai scadenti) ex Dc, ex Pci (oggi DS), ex Psi, ecc. (tutti però professionisti della politica). Adesso che l’Udc si prepara al “salto della quaglia”, possiamo ben dire che forse il 95% di questi professionisti, e del ceto intellettuale, si raggruppa nello schieramento in oggetto. Dall’altra parte, sta un’accozzaglia di gente non preparata professionalmente, raccogliticcia, incapace di vera opposizione, pronta a passare con chi assicura posti di potere anche minimo, anche locale. Di conseguenza, il personale dello schieramento S non ha rivali nella dittatura fondata sul gioco elettorale e sull’addomesticato dibattito massmediatico tra “posizioni diverse” (e tutte complici in una direzione di subordinazione). Da Mastella a Diliberto o a frazioni di Rifondazione, sembra che vi siano enormi contraddizioni; e certamente vi sono, essendo però tutte interne ad un’unica banda. Un tempo credevo che almeno si potesse contare sulla lotta tra Al Capone e Frank Costello, con vere “uccisioni” alternate. Invece, tutto si svolge ormai all’interno della banda Al Capone. Queste lotte non ci danno garanzie (e spazi) sufficienti, almeno per il momento.

Comunque, non intendo più mantenere un’equidistanza tattica. Dico esplicitamente che il vero cancro sta quasi completamente nello schieramento S, sia a livello di ceto politico che di quello intellettuale. Certo, anche così pensando, ritengo che ci possano egualmente essere brevi (e cauti) atteggiamenti tattici: con il cancro ai polmoni piuttosto che con quello al fegato; sempre sapendo però che si ha a che fare con un cancro e che la “soluzione finale” o è l’asportazione chirurgica di entrambi oppure non è, e andremo in metastasi con quel che seguirà.    

 

C) Ormai mi sembrano poco sopportabili i “marxisti” che abbiamo in questo paese (e dappertutto per la verità). Lasciamo stare quelli che si dilettano con i più “alti teoremi” della “critica dell’economia politica”, questa formula vuota, da bambini “beati” che si divertono con filastrocche del tipo della “Vispa Teresa”. Parlo di quelli che sostituiscono nei fatti il marxismo con il keynesismo, una politica di trasformazione (che non è oggi l’avvento del comunismo, ma almeno la conquista di una vera autonomia) con il Welfare, ecc.

Sono anche quelli che continuano a parlare di rentier (e vogliono solo colpire chi ha qualche risparmio in Bot o obbligazioni) e del dominio del capitale finanziario, questo – secondo loro – parassita che porterà alla crisi e quindi alla fine del capitalismo e all’avvento del comunismo; processo mai verificatosi in nessun periodo di crisi (economica, politica, bellica; né grande né piccola). La finanza – in un sistema capitalistico che perdurerà ancora a lungo e non sarà certo rivoluzionato dai semplici desideri di sognatori e chiacchieroni a vanvera – non è affatto parassitario; essa semplicemente fornisce i mezzi per le strategie del conflitto ai fini della supremazia complessiva. Non esiste un capitale finanziario (alla Hilferding-Kautsky) che domina il povero lavoro salariato inseguendo il più alto profitto in quanto massima estrazione di pluslavoro/plusvalore (sfruttamento). Esistono gruppi diversi di agenti capitalistici – intrecciandosi, all’interno di ognuno di questi, rapporti economici, politici, cultural-ideologici – in lotta per prevalere.

In questa lotta (veramente continua, anche se con fasi di differente accentuazione) si accendono alleanze, che possono essere fra pari o invece tra (pre)dominanti e (sub)dominanti. E naturalmente, le varie posizioni possono mutare d’epoca in epoca in seguito al già rilevato sviluppo ineguale dei capitalismi. La finanza serve al conflitto; e in quest’ultimo – ed è su tale problema che si deve esercitare l’attività teorica di un marxista – essa può assumere, a seconda della configurazione geopolitica dei pre e dei subdominanti, una funzione propulsiva a livello dell’industria più innovativa e delle già considerate svariate pratiche per acquisire potenza, oppure può porre “il tutto” alle dipendenze dei (pre)dominanti, dietro congrua cointeressenza.

E’ esattamente quello che si sta verificando in Italia ad ogni mossa dei nostri agenti (sub)dominanti; che si tratti di fusioni bancarie, che si tratti di difendere l’italianità di pezzi dell’economia o invece di inneggiare alla globalizzazione e al “libero” mercato, che si tratti di porre sotto il giogo di Stato e finanza pezzi dell’apparato industriale (vicenda Telecom come esempio “di scuola”); sempre è all’opera un team della Goldman Sachs (o addirittura il loro uomo piazzato al vertice del sistema bancario italiano), punta di lancia dei (pre)dominanti statunitensi. La finanza, dunque, funziona a certi fini nel paese centrale, per altri fini in quelli non centrali come il nostro. In ogni caso, il parassitismo non c’entra per nulla, se non nella testa malata dei “marxisti”, ma non in quella sana dei marxisti.

 

D) Coloro che propugnano la nascita (difficilissima, lo so) di una terza forza, debbono rendersi conto che la politica da seguire sarà complicata da esigenze contraddittorie. Chi si pone entro il perverso gioco tra schieramento D e schieramento S – accettando la funzione di imbrigliare il lavoro salariato, cui dare saltuariamente qualche contentino di tipo redistributivo, onde farne massa di manovra all’interno del conflitto tra gruppi di agenti dominanti per la supremazia – ha compiti relativamente facili. Basta far riferimento al conflitto capitale/lavoro: i riformisti moderati per ottenere il contentino di cui sopra, i finti “rivoluzionari” per recitare bene la loro parte di radicali oppositori, per poi gradualmente passare, a gruppi e a ondate, dalla parte dei primi. Anzi, alzare la voce, tuonare con “terribile” radicalità, è estremamente utile a questi “rinnegati”, che hanno fatto strame e sputtanato completamente e “comunismo” e “marxismo”, per vendersi al meglio.

Chi vuol veramente mutare le cose, sa che deve utilizzare “gli opposti”, senza farne la sintesi, ma facendoli rimanere in campo nella loro acuta contraddizione. E’ indispensabile che, sul piano geopolitico globale, si partecipi alla lotta tra “predoni”, e si prendano le misure adatte a sviluppare la propria potenza. Ho detto quali sono queste misure e non le ripeto. In ogni caso, in Italia è necessario difendere quelle poche grandi imprese che agiscono in settori di punta, tecnologici ed energetici. Senza smembrare l’ENI malgrado certi piani esiziali vengano presentati come un suo rafforzamento; senza urlare contro la Finmeccanica perché produce quegli “arnesi” che fanno impazzire i pacifisti scemi. Senza però appoggiare la nostra ENEL se agisce per allargarsi a spese dell’indebolimento di un settore rilevante in un paese come la Francia, in cui bisognerebbe invece favorire l’affermarsi di quegli ambienti, economici e politici, che sono, almeno oggettivamente, antiegemonici. In certi casi, bisogna anche sapersi opporre ai conflitti capitale/lavoro, se questi hanno prevalenti effetti fortemente negativi in tema di lotta antiegemonica.

Nel contempo, deve essere curato il problema della creazione di un blocco sociale che appoggi la politica di autonomia e indipendenza, e di potenziamento del proprio sistema-paese. Bisogna quindi certo colpire soprattutto i grandi interessi laddove questi sono solo ricchezza indirizzata a meri consumi opulenti; colpire la finanza laddove questa agisce in combutta con i dominanti centrali, alimentando la deformazione della struttura del nostro sistema-paese nel senso del puro mantenimento (ma per quanto tempo ancora?) di un’aurea mediocrità da paese dipendente “di lusso”. Debbono essere individuati i metodi, le ideologie opportune, l’orientamento degli interessi pensato (e voluto) come comune, al fine di abbattere quel muro di antipatie e diffidenze che separa gli autonomi dai dipendenti, unendo invece gli strati medio-bassi dei due raggruppamenti, entrambi costituiti di molti spezzoni sociali diversificati.

E’ necessario, per quanto possibile, difendere questi strati medio-bassi da tosature inutili e fatte passare per necessarie in omaggio ai miti alimentati da ambienti finanziari dipendenti da quelli centrali; quindi nessuna indulgenza per una UE del tipo di quella che ci ritroviamo, con le sue fisime sul debito pubblico e il rapporto deficit/Pil. Nemmeno però alcuna condiscendenza per politiche che poi, contraddittoriamente, predicano lo sviluppo dal lato della domanda. Nessuna accettazione di uno statalismo di principio, affermato in generale, che copre solo gli interessi dei gruppi facenti parte del complesso finanziario (sub)dominante, fra loro in conflitto per conquistare la “supremazia” nella subordinazione ai dominanti centrali. Nessuna simpatia per un neoliberismo che predica il “libero mercato” come impedimento all’espansione di tutti i settori decisivi per l’autonomia e l’indipendenza – che resterebbero principalmente concentrati nel sistema-paese preminente – mentre fiorirebbero quelli della dipendenza nella temporanea “aurea mediocrità”, del tutto fragile ed esposta alle “scosse telluriche” (politiche ed economiche) provenienti dal centro.

Bisogna riuscire ad unire gli strati medio-bassi in questione in una visione di sviluppo del sistema-paese, ma per preparare successivamente trasformazioni radicali dei suoi assetti di potere politico, da “prosciugare” progressivamente in alto e da far “ingrossare” in basso. Non certo, per carità!, con le “libere elezioni democratiche”; dovremo, prima o poi, riprendere le lezioni storiche provenienti dai Soviet, dalla Comune, ecc.; magari ripensandole un po’ più adeguatamente e con maggior maturità, data l’esperienza accumulata.

Le esigenze sopra esposte, pur genericamente, sono e saranno spesso in contrasto fra loro; e sarà tassativo non tentare di armonizzarle con compromessi che non fanno conseguire né maggiore potenza né maggiore democrazia reale; peggio ancora se volessimo occultare le contraddizioni con menzogne ideologiche che porrebbero le basi per un “crollo” successivo. Non credo sia però utile mettersi adesso a rimuginare su come gestire gli attriti che sorgerebbero nella fortunata ipotesi di una (molto) futura affermazione della terza forza qui preconizzata; non voliamo fin da subito nel mondo dei sogni. Indichiamo solo il problema.      

 

Gianfranco La Grassa                   17 settembre 2006

 

N.B. Questo scritto, che è una sorta di documento, verrà messo per un mese o due nel blog www.ripensaremarx.splinder.com  Sarei dell’opinione che gli interessati al suo contenuto, lo discutano; poi si cercherà di incontrarsi. A quel punto, qualcuno riscriverà il testo con aggiunte, aggiustamenti, ripensamenti vari (non stravolgimenti, perché ovviamente non sarebbero ammessi). Infine, si vedrà di pubblicarlo da qualche parte.