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Una incantevole apocalisse

di Ezio Albrile - 25/09/2006

 

La globalizzazione è innanzitutto un desiderio verso la globalizzazione: un desiderio proprio di alcuni, di certe classi o di certi strati sociali. Si tratta essenzialmente di detentori di capitali, i grandi imprenditori o altri operatori economici che per loro scelta o condizione si sentono impegnati, in maniere molto diverse, a mondializzare la loro azione; un’azione propria, inoltre, degli Stati più potenti o più capaci o, viceversa, più bisognosi di inserimento mondiale; e particolarmente sentita da certi individui piuttosto che da altri, i grandi specialisti, per esempio, o alcuni grandi intellettuali.

Dentro la globalizzazione convivono due essenziali categorie di individui: quelli che sono in grado di coltivare l’aspirazione all’extraterritorialità, di viverla come un’inebriante libertà perché il loro potere, soprattutto finanziario, è svincolato dalla limitazione dello spazio e del tempo e può, come si suol dire, spostarsi in tempo reale in tutto il mondo e fare di essi stessi i “turisti” del cosmo. Una differenziazione insomma tra quelli che si muovono in conformità dei loro desideri, i “liberi” e gli “altri”, vincolati al loro territorio come ad una prigione o che, se si muovono, lo fanno come “vagabondi”, costretti dal bisogno e dall’asservimento in cui si trovano (cfr. U. Allegretti, Diritti e Stato nella mondializzazione,  Città Aperta Edizioni, Troina-Enna 2002, pp. 102-103).

È il grande paradosso della società del Novecento. Questa società mette al centro l’individuo, intende svilupparne tutte le possibilità e lo fa signore e legge del mondo, nella fiducia, così vincolata alla fede liberale, che da ciò nasca la valorizzazione di tutti e di ciascuno. Ma in definitiva si volge a imprigionare il singolo nella servitù e nell’angoscia, confinandolo nel migliore dei casi alla misera scelta tra i beni offerti dal mercato, o nel peggiore all’aspirazione non soddisfatta all’accesso di quei beni, o alla distruzione di se stesso, nella droga e nel suicidio, dei suoi simili nella guerra e nello sterminio (cfr. Allegretti, op.cit., pp. 66 ss.).

È il totalitarismo presente e la guerra come esperienza pura del potere, come esercizio stesso della ragione. Possiamo citare il beniamino dei nostri piccoli filosofi, Hegel, quando non aveva remore a predicare che la guerra “è il momento in cui l’idealità del particolare ottiene il suo diritto” e mantiene “la salute etica dei popoli... come il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole, come i popoli da una pace durevole o addirittura perpetua” (in Filosofia del diritto, n. 324). Il filosofo non faceva così che dar corpo, con lucida sovversione, a una vocazione immanente l’individualismo, oggidì fattosi globalizzazione.

Con il crescere nel tempo della spinta individualistica, il susseguirsi delle esperienze assolutistiche raggiunge il suo culmine nei totalitarismi del Novecento. D’altronde è recente acquisizione della storiografia contemporanea, l’aver messo in evidenza come la polemica fascista fosse indirizzata più contro il liberalismo che contro la democrazia (cfr. D. Cofrancesco, Liberalismo e società contemporanea, in M. Marsonet [cur.], Liberalismo e società giusta, Name Editore,  Genova  2001, pp. 25 ss.).

Non c’è infatti solo il totalitarismo dichiarato e classico fatto di massa atomizzata,  ideologia e  terrore, come plasticamente descritto da Orwell o Huxley. C’è la forma “soffice” e “dolce” della civiltà democratica di massa: essa acquisisce spazio nell’era da cui veniamo e ha avuto in precedenza una lunga incubazione nella “democrazia” americana rappresentata – come si può oggi contemplare nella sua “geometrica bellezza” – dalla  tirannia della moral majority (lo scimiottamento di A. Negri che sfregia Spinoza è voluto). Un regime in cui coesistono manipolazione totalitaria e  partecipazione “democratica”. Una profezia che era già in Tocqueville.

La cultura contemporanea nei suoi  gesti e nella  sua arte è a volte un grido lanciato contro queste forme di omologazione “democratica”: poesia, letteratura, musica, teatro, cinema e quant’altro, contribuiscono a mantenere desta una coscienza del reale, che rischia di finire definitivamente narcotizzata. Una protesta verso un mondo in declino, che a mio parere affiora in un recente “videoclip” dei Subsonica, Incantevole. Un’opera che riproduce  magistralmente il senso di straniazione tra mondo “reale” e senso di tranquillità effimera. Il video è a suo modo una sorta di “apocalisse” (una “incantevole apocalisse”) contemporanea: le immagini e le parole raccontano in forma poetica ciò che ogni giorno avviene sotto i nostri occhi, testimoni di un qualcosa di cui non si comprende nè l’inizio nè la fine. Uno straniamento evocato ancora nell’attrito tra musica e  parole: il testo infatti richiama  la poetica stilnovista, relitto linguistico scagliato nella profezia ultima. Così facendo i Subsonica interpretano la fine, il suono tranquillizzante dell’apocalisse.

A livello di coscienza, la libertà dell’individuo è il simbolo di questo mondo, peccato che il flusso del “reale” parli in senso opposto. J. L. Borges ha narrato  tante volte questo spaesamento. Un racconto fra i tanti è I Teologi (in L’Aleph, Feltrinelli, Milano 1983). I teologi vogliono essere i signori del reale, piegare la verità all’ideologia che asserve il potere; per questo, di volta in volta, modificano i dogmi religiosi in base alle necessità contingenti. Il pomo della discordia è il Tempo, uno scorrere inesorabile di istanti che può dirsi ciclico o lineare. Ciò porta gli Eretici ad una singolare interpretazione borgesiana delle antiche dottrine gnostiche: se il tempo è lineare, è quindi un processo irreversibile, quindi distruggere il tempo equivale a distruggere il male e “giacchè non possono esservi ripetizioni, il giusto deve eliminare (= commettere) gli atti più infami affinchè questi non maculino il futuro” (p. 41). Questo per accellerare l’Avvento del Regno di Gesù, l’ultimo ritorno della creazione, per dirla usando il lessico dei Magi zoroastriani. Un riferimento erudito che conduce nel cuore della gnosi manichea, iranica nella più  antica formulazione.

Nel mito manicheo le armate infernali irrompono in sinuose spirali fra la Luce adamantina: impugnati gli archi inondano di frecce il Paradiso. Gli Esseri di Luce le raccolgono con pazienza e, illudendo i mentecatti, lasciano stillare gocce di sangue. I demoni, felici, inneggiano gridando di aver ucciso tutti gli abitanti del Paradiso.

L’uomo nel manicheismo è stato plasmato quale atto di difesa (la controcreazione ahrimanica) dalla Lussuria, per timore che la Luce soggiogata alla Materia potesse liberarsi dalla prigione cosmica. Ma invece di un giogo eterno per la Luce egli è diventato uno strumento di redenzione, il fulcro dell’opera salvifica attuata dallo “Gesù-Splendore”. È il paradosso gnostico, nel quale il culminare dell’infamia e dell’abiezione è ritenuto il momento più vicino alla salvezza.

È la condizione dell’uomo contemporaneo soggiogato alla “megamacchina” (così U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano 1999) ridotto a titolare di interessi economici, sottoposto alla coazione di tecnologie che non contribuisce a orientare, omologato nei desideri, nelle possibilità di soddisfarli e nelle sue finalità. L’individuo tende così a essere subordinato a quella “totalità” tecnica e burocratica che  –  sia quando è capitalista sia quando è operaio – lo rende “funzionario” del capitale, alienato poichè “identificato” con il sistema. La libertà è confusa con l’auto-determinazione nei “piccoli e volgari piaceri” e l’individuo si piega alla tendenza al totalitarismo propria di questa società.

Secondo il mito del mazdeismo zoroastriano il dispiegarsi della cosmogonia si articola seguendo simbolicamente la vita del feto, che, alimentato dal grembo materno, dalla Tenebra viene alla Luce o alla manifestazione, e si può dire che il dio supremo Ohrmazd, attraverso la creazione, manifesti se stesso, costituendo appunto l’oggetto, il soggetto ed il fine di tutto il processo creativo e di tutta la vita dell’universo. Durante la restaurazione del Corpo Finale (tan i pasen), nel frashgird (< avestico frasho.kereti), ossia alla trasfigurazione del cosmo, al termine della grande attesa escatologica, la “Forma di Fuoco”, Ohrmazd, apparirà di notte nell’atmosfera, nelle sembianze di un uomo a cavallo di un destriero infuocato. È l’Apocalisse  “madre di tutte le apocalissi”.

Il Creatore Ohrmazd si forma a poco a poco, attraverso il divenire e l’evoluzione del cosmo, e nel tan i pasen, nel Corpo Finale, nella trasfigurazione escatologica (frashgird), attua pienamente se stesso manifestandosi nella sua essenza ignea. Il cosmo, con l’instaurarsi del regno escatologico di Ohrmazd e la conseguente distruzione dell’Avversario, tende così alla suprema, luminosa manifestazione del suo dio. Il cosmo è quindi lo strumento di Ohrmazd, nella lotta contro Ahriman e nella rivelazione di se stesso.

Si potrebbe operare qualche sottolineatura in questo quadro, che solo volendo darne una chiave interpretativa troppo semplice si potrebbe ricondurre questo mito all’assolutismo moderno della tecnica, mentre questa non è che l’agente di un blocco che ha altri pezzi portanti nell’economia di mercato, nella democrazia e nella cultura di massa.

Questo totalitarismo “democratico”, combinazione dell’individualismo e dell’impero della totalità, si percepirà meglio alla svolta dell’epoca, dopo gli anni Settanta del secolo appena trascorso. Negli anni precedenti, rimane troppo avvolto dalla lotta al totalitarismo duro dei fascismi e dei socialismi “reali”, per potersi dichiarare con chiarezza. D’altronde il suo raccogliersi più che altro nel quadro dello Stato e quindi il suo atomizzarsi nella molteplicità degli Stati gli conferisce una dimensione sufficientemente controllabile. Ma il seme è già pronto e fruttificherà ampiamente nel dispiegarsi della globalizzazione dell’età seguente che è la presente.

La rivelazione dell’altro mondo, quello nascosto, precluso alla percezione ordinaria, è una “visione” ed un “vedere” nella trasparenza del mondo. Per dirla con i teurghi, “le idee sono dèi”: tale formula sembra un “Marx che rovescia Hegel”. Una situazione che si ripropone ne Incantevole dei Subsonica: una percezione dissonante del reale che ricorda una sequenza visionaria dell’Apocalisse di Sofonia, dove il veggente accompagnato da un angelo, dopo una serie di immagini voluttuose vede “l’intero mondo abitato sospeso come una goccia d’acqua che stilla da un secchio mentre sale da un pozzo”. Ma è anche l’esito dell’eresia ne I Teologi di Borges: secondo un delirante ma logico esemplarismo rovesciato sarebbe “la terra ad influire sul cielo”, scompaginando il classico modello platonico. Fermo restando il dualismo tra mondo celeste e mondo terrestre, le azioni umane  proietterebbero un riflesso rovesciato nell’uomo “vero”, quello che sta in cielo: se vegliamo, l’altro dorme; se fornichiamo, l’altro è casto; se rubiamo, l’altro è  generoso… quindi, più ci si dà ai bagordi e più si riconquista  il mondo celeste… Profezia borgesiana dell’odierno mondialismo!

Il globalismo apocalittico e la disintegrazione della tradizione (conseguenza della distruzione del tempo) dovrebbero quindi renderci coscienti di come oggi il sacro parli attraverso nuovi linguaggi e nuove metafore: sarebbe importante cogliere questi frammenti di verità ovunque, in semplici sonorità (è il caso dei Subsonica) che dischiudono le soglie verso una nuova metafisica.

Ma andando oltre in questa ricerca si trova il nulla: alcuni tentano di renderlo “corporeo”, altri di viverlo nella sua vacuità. I primi, ubriachi del sogno, trasmigrano,  i secondi assaporano il gusto gioioso della mistica; entrambi, prima o dopo,  percepiranno la vertigine della nudità interiore. L’apocalisse è probabilmente  questo, desiderio di separazione, rivelazione del vuoto, del Chaos.