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La Terra è finita

di Piero Bevilacqua - 25/09/2006


Piero Bevilacqua
La Terra è finita
Breve storia dell'ambiente
2006, pp. 214, € 14,00
Collana i Robinson / Letture
ISBN 8842080497

 
In breve
Il nostro itinerario si apre con una domanda. Un interrogativo che è tipico degli storici, ma che in questo caso si pongono anche i semplici cittadini, chiunque osservi i fenomeni di degradazione e inquinamento che angustiano la vita quotidiana e mettono a rischio il nostro futuro. Quali sono le ragioni che hanno condotto a una così grave alterazione della natura e dell’ambiente intorno a noi? Che cosa ha portato le società del nostro tempo a minacciare, con il loro carico di veleni e il consumo crescente di risorse, la sopravvivenza degli esseri viventi che popolano il pianeta? Non c’è dubbio che i problemi che abbiamo di fronte non sono il risultato di processi recenti. All’origine ci sono cause più o meno remote. Esiste una storia che va scoperta e ricostruita se vogliamo rispondere al grande interrogativo: come siamo arrivati sin qui?

Indice
Introduzione – I. Luci e ombre della modernità – II. I nuovi scenari del XX secolo – III.Il consumo delle risorse – IV.Nuovi saperi, politiche, istituzioni – V. L’ambiente in Italia – Indice dei nomi
In effetti, coloro i quali vedono nell’affermarsi del modo di produzione capitalistico il fattore di maggiore responsabilità degli attuali problemi ambientali non sono, a nostro avviso, molto lontani dal vero, anche se occorrono alcune precisazioni. È il sistema capitalistico, infatti, che ha reso possibile l’industrializzazione dei tempi moderni. Ed è d’altra parte tale specifico modo di produzione che ha definitivamente svincolato la fabbricazione delle merci dal bisogno immediato del loro consumo. Nel sistema capitalistico si producono sempre più beni non per rispondere alla domanda e al bisogno immediato di un consumatore determinato, ma perché il capitalista raggiunga il più elevato livello di profitto attraverso la loro vendita sul mercato. Quindi la produzione della ricchezza – che corrisponde al consumo di masse di energia e di materie prime necessario per produrre le merci – è teoricamente illimitata. Il vincolo alla sua crescita non appare rappresentato dalla natura e dai limiti fisici delle risorse disponibili, ma dalla capacità del mercato di assorbire i beni prodotti. Indubbiamente il capitalismo ha introdotto una frattura sia di tipo quantitativo che qualitativo nella pressione esercitata dall’uomo sul mondo fisico attraverso l’economia. Di tipo quantitativo perché attraverso la scienza e la tecnica l’economia capitalistica ha raggiunto una capacità senza precedenti di sfruttamento e di distruzione delle risorse naturali. È il capitalismo che, con la potenza dinamica di una nuova classe sociale, la borghesia, ha trasformato il pianeta in un unico territorio di sfruttamento. Come già avevano osservato Marx ed Engels nel Manifesto del Partito comunista del 1848: «Spinta dal bisogno di sempre nuovi sbocchi per le proprie merci, la borghesia corre, per invaderlo, tutto l’orbe terraqueo». Un aspetto che non bisogna mai dimenticare, infatti, quando si considera il «successo economico» dell’Europa sugli altri popoli, è che essa ha potuto contare, per il proprio sviluppo, sui territori di altri continenti, sulle risorse dell’intero pianeta. Ma anche sotto il profilo qualitativo la svolta che il capitalismo ha introdotto nel rapporto tra uomo e ambiente non è meno rilevante: esso ha infatti inaugurato e promosso per la prima volta nella storia umana un’idea di economia come forma di arricchimento illimitato sulla base di uno sfruttamento senza fine della natura. E al tempo stesso ha introiettato e diffuso in milioni di uomini la convinzione che il consumo di merci possa crescere continuamente nel tempo e in misura illimitata.
Alcuni storici, tuttavia, sottolineano che chi addebita al capitalismo l’intera responsabilità degli squilibri ambientali del nostro tempo spesso trascura di considerare che nelle economie precapitalistiche non sempre il rapporto degli uomini con le risorse naturali era innocente. E che forme di inquinamento significative venivano prodotte anche molto prima dell’avvento della società industriale. Ad esempio – essi rammentano – nel mondo antico i vasti e maestosi boschi del Libano vennero distrutti dalle vicine popolazioni del Mediterraneo per costruire navi ed edifici. E a Londra, già nel XIII secolo, l’aria era irrespirabile perché la popolazione utilizzava nelle case il carbone fossile per riscaldarsi.
Osservazioni indubbiamente giuste e fondate, ma insufficienti a scalfire in alcun modo le responsabilità storiche dello sviluppo capitalistico. Le alterazioni dell’età preindustriale avevano un raggio di estensione e di influenza di carattere locale. Esse colpivano questa o quell’area, ma restavano isolate rispetto al resto del mondo naturale, che si conservava integro nella grandissima parte della sua estensione. È invece con lo sviluppo del capitalismo industriale che i fenomeni diventano globali, interessando l’intero pianeta. Come vedremo in seguito, a essere minacciata non è più una regione, un territorio, una città, ma l’intera natura in quanto totalità degli esseri viventi. È questa, in età contemporanea, la più sconvolgente novità rispetto a tutte le epoche del passato.