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La logica perversa del diritto internazionale

di Piero Visani - 25/10/2005

Fonte: www.lineaquotidiano.it

Giustizia arbitraria in Iraq

Nel 1946, in occasione
del processo di Tokyo
contro i massimi dirigenti
politico-militari del
Giappone appena sconfitto,
accusati di crimini di guerra,
generale americano illustrò
con esemplare concisione il
profondo senso di giustizia
che animava il suo Paese in
quella circostanza: «Faremo
loro un bel processo, un processo
equo, e poi li impiccheremo».
frase è degna della massima
riflessione, poiché sviluppa,
in logica inequivocabilmente
sequenziale, tre aspetti
cruciali: la necessità che il
processo fosse “bello”, vale a
dire mediaticamente spendibile,
in modo da ottenere – parafrasando
una nota massima
terrorista – l’effetto di «colpirne
alcuni per persuaderne
milioni», cioè per ricordare al
mondo la sorte cui si poteva
andare incontro nel caso si
fosse scelto di non stare dalla
parte dei “buoni”; l’esigenza
che il processo stesso fosse
equo e la successiva, immediata
illustrazione di come
sviluppasse, in concreto, tale
principio di equità: nell’impiccagione
dei “colpevoli”, cioè
nell’eliminazione fisica dei
vinti, di coloro cui la “giustizia”
dei vincitori attribuiva,
con piena arbitrarietà e una
scelta etica del tutto estranea
alle vere ragioni della politica,
il ruolo di “cattivi”.
Nelle parole del generale americano
prendeva concretamente
corpo l’intima essenza di
quella concezione della “giustizia”
già avviata poco tempo
prima a Norimberga, in occasione
di un analogo processo
contro i vertici politico-militari
della Germania nazionalsocialista:
il diritto dei vincitori,
l’applicazione pratica di quel
principio del “guai ai vinti!”
sempre presente nella storia
umana, ma che nessun Paese,
prima degli Stati Uniti, aveva
mai cercato di formalizzare
“giuridicamente” e tanto meno
di utilizzare come strumento
di pseudolegittimazione della
propria politica internazionale.
Come talvolta capita
ai militari, la sequenza logica
era un po’ troppo rudemente – e
dunque chiaramente – espressa, ma
aveva il merito di illuminare una
“sottile” e “raffinata” concezione
del diritto internazionale, che da
allora in avanti avrebbe trovato
numerose altre applicazioni. E tale
concezione era ritenuta talmente
solida sotto il profilo etico e giuridico,
e talmente condivisa in ambito
internazionale che, a partire da quella
stessa data, il Paese che aveva
contribuito a diffonderla nel mondo,
tanto per dare universale riconoscimento
della propria onestà di intenti
e della propria equanimità, avrebbe
sempre rifiutato di lasciarla applicare
a se stesso ed alla propria dirigenza
politico-militare.
Il lettore annoiato penserà a questo
punto che avremmo fatto meglio a
parlare subito di giustizia-farsa e
non potremmo che dargli ragione.
Ma non c’è parso inutile chiarire un
minimo la perversa logica che sta
dietro alla concezione americana del
diritto internazionale: un instrumentum
regni già deplorevole di per sé
come forma di imperialismo etico,
ma che lo diventa ancora di più nel
momento in cui rifiuta di sottoporsi
a propria volta alle categorie di cui
pretende di farsi fautore, rivelandosi
insopportabilmente disgustoso.
In questa logica rientra alla perfezione
il processo apertosi in questi
giorni a Baghdad contro l’ex-dittatore
Saddam Hussein: un processo
che le manipolazioni nella scelta dei
giudici, la mancanza di giurati internazionali,
la deliberata alterazione
delle regole processuali consentono
di inserire a buon diritto nella non
nobile tradizione iniziata a Norimberga,
proseguita a Tokyo, continuata
a carico dell’ex-autocrate serbo
Milosevic e ora nuovamente in
azione.
Tribunale dei vincitori, giustizia dei
vincitori, le solite accuse di “crimini
contro l’umanità” e via discorrendo.
Non una parola, naturalmente, sull’aggressione
militare che ha portato
all’abbattimento a mano armata di
un Paese che era certamente una dittatura,
ma anche un membro riconosciuto
della comunità internazionale
e degli organismi che in qualche
modo cercano di governarla. Non
una parola sulle forzature mediatiche
che hanno cercato di giustificare
tale aggressione agli occhi del
mondo e sulla montagna di menzogne
utilizzate per supportarla. Solo
le colpe (certo gravissime) del
Raiss, per altro non l’unico dei dittatori
in un mondo che, se dovesse
realmente prevedere l’abbattimento
manu militari di tutti i regimi non
democratici, risulterebbe sprofondato
in conflitti di dimensioni catastrofiche
e durata indefinibile.
Per non parlare del rischio – che già
si profila tutt’altro che trascurabile
– di fare di Saddam Hussein l’eroe e
magari tra qualche tempo il martire
(se dovesse prevalere la sciagurata
eventualità di comminargli una condanna
a morte) di tutta quella parte
del mondo (e non è così piccola)
che non si riconosce nelle farse
pseudogiuridiche di marca statunitense.
Come è stato notato anche da fonti
molto autorevoli (ad esempio un
esperto di diritto internazionale di
chiara fama come il professor Antonio
Cassese), la categoria dei “crimini
contro l’umanità” è un’arma
terribilmente a doppio taglio, che
potrebbe essere tranquillamente utilizzata
utilizzata
domani a carico di chi oggi
ne abusa a proprio vantaggio.
Sarebbe stato decisamente più saggio
eliminare fisicamente l’ex-dittatore
iracheno durante la fase di
scontro militare oppure costringerlo
all’esilio.
Ma si sarebbe trattato di una soluzione
ispirata ad una logica di Realpolitik
che rimane del tutto estranea
alla dirigenza statunitense, la quale
non si accontenta di abbattere i propri
nemici (quando ci riesce), ma
desidera anche delegittimarli e, al
tempo stesso, dimostrare al mondo
tutta la propria presunta superiorità
morale (quella materiale è già
abbondantemente nota). Non mira,
in altre parole, alla creazione di
equilibri politico-strategici più solidi
di quelli che ha deciso di alterare
con un’azione unilaterale, ispirata
ad una pura logica di potenza, ma a
convincere tutti di stare dalla parte
della ragione e – sempre più insistentemente
– di essere essa stessa
la ragione, il diritto, la libertà, la
democrazia: tutto.
Come nota – con la franchezza che
gli è abituale – Robert Kaplan nel
suo ultimo libro (Imperial grunts)
su quell’imperialismo americano di
cui egli è innegabile cantore, «è la
necessità assoluta dell’ordine [che]
porta alla conquista del mondo e ne
desta l’avversione». Gli amanti del
“disordine” sono avvertiti: è a causa
di questa debolezza, ad un tempo
etica ed estetica, che si abbatte su di
loro la “collera dei buoni”. Anche se
non lo sapete, o se la sola prospettiva
vi fa paura, gli Stati Uniti stanno
lavorando per voi e per il vostro
bene: da Guantanamo ad Abu Graib,
passando per Baghdad. Siate (obbligatoriamente)
riconoscenti, o saranno
guai, di ogni genere.