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Shantaram

di Stenio Solinas - 28/09/2006

 

L’uomo della pace di Dio

Ogni volta che mi è
capitato di andare
in India, ciò che al
ritorno ne ho ricavato
è stato sempre
un senso di
quieta disperazione.
Tutto dell’India mi attrae, eppure
tutto mi respinge, una passività
che, di punto in bianco, sfocia in
violenza incontrollabile, un fatalismo
che non si porta dietro nessuna
idea di destino e che, però, gli
costruisce intorno un’intera filosofia,
la moltitudine di lingue, dialetti,
credi e religioni in un equilibrio
precario e, tuttavia, a suo modo
solido, la più grande democrazia al
mondo, ma anche la più corrotta, la
più inquinata dal malaffare e dalla
delinquenza organizzata, la più
insopportabile da accettare per l’ingiustizia
e l’ineguaglianza che quotidianamente
ti mette davanti agli
occhi. Sono considerazioni epidermiche,
di uno che, in fondo, è
esperto in nulla ed è scettico di tutto,
ma io credo che i popoli, come
le persone, si accettano e si rifiutano
più per intuizione che per conoscenza,
più per sentimento che per
ragione, più per piacere che per
dovere. E non è detto che capire sia
meglio di limitarsi ad amare.
In questa attrazione-repulsione, l’elemento
della spiritualità ha, naturalmente,
un grande spazio, ma
resto dell’idea che quella indiana
sia difficilmente esportabile e che
nel “viaggio” in tal senso intrapreso
da molti occidentali, soprattutto
negli anni Settanta, ci fosse più un
istinto di fuga che una volontà di
ricerca, e, insomma, una confusione
di obiettivi, la stessa che mi sembra
emergere alle spalle del cosiddetto
“terzaneismo”, quel miscuglio di
pacifismo, fidelismo, anti-occidentalismo,
generico pauperismo che è
cresciuto all’ombra della figura e
dei libri di Tiziano Terzani. Debbo
dire che a me l’ultimo Terzani,
quello perennemente vestito di
bianco e con la barba da santone,
faceva lo stesso effetto di monsignor
Milingo, ma, l’ho già detto, il
mio è un approccio epidermico e
scettico alle cose...
È anche per questo che ho aspettato
a lungo prima di leggere “Shantaram”
(Neri Pozza, 1.177 pagine, 22
euro), il romanzo che Gregory
David Roberts ha ricavato dalla sua
esperienza in India, principalmente
a Bombay, all’inizio degli anni
Ottanta. Al di là delle dimensioni,
più di mille pagine, e della biografia
del suo autore, un ex attivista
politico australiano, già di per sé un
controsenso, poi eroinomane e rapinatore,
infine evaso e fuggiasco per
il mondo, mi spaventava l’idea di
trovarmi di fronte alla solita pappa
del cuore dell’occidentale folgorato
dall’Oriente, del violento che si
redime e porta in giro la buona
novella di pace e amore, del combinato
disposto di miserie e felicità,
maestri e discepoli, cibi vegetariani
e maledizione tecnologica. Anche il
fatto che l’attore americano Johnny
Depp ne avesse comprato i diritti
cinematografici mi dava da pensare:
Depp è più colto e più problematico
della media dei suoi colleghi, con
un passato di eccessi di assoluto
riguardo dal quale, però, è riuscito a
uscire indenne, ma Hollywood è
sempre Hollywood e il fumettonepolpettone
una possibilità non trascurabile.
“Shantaram”, ovvero “uomo della
pace di Dio”, è, invece, un bel libro
e lo è proprio perché Roberts si
guarda bene dal cadere nella trappola
della spiritualità un tanto al chilo,
dell’esotismo facile, del vittimismo
gratuito. All’inizio della sua storia è
un evaso in fuga, uno che vive di
espedienti e che sa di non avere un
futuro, alla fine lo troveremo componente
di una gang mafiosa, con
molti soldi in tasca, ma l’avvenire
egualmente incerto... In mezzo c’è
stato di tutto: la ricaduta nella droga,
la prigione indiana, la vita negli
“slum” miserabili della città, un
viaggio in Afghanistan come
mujaeddin, regolamenti di conti,
vendette, sangue... Quanto e se si
tratti di fantasia pura e semplice, di
vita romanzata o di autobiografia
tout court, poco importa: l’impressione
che ne ricava il lettore è
un’impressione di verità, di uno che
conosce bene ciò di cui scrive, che
non abbellisce e, soprattutto, non
addolcisce, e però non indulge nel
“grand guignol” a senso unico, non
cerca gli effetti speciali.
Il risvolto di copertina dice che
Roberts, già arrestato in Australia
nel 1978 per una rapina a mano
armata ed evaso lo stesso anno,
dopo la parentesi indiana è stato di
nuovo arrestato in Germania, nel
1990, e da lì estradato nel suo Paese,
dove ha scontato due anni di
confino e quattro di reclusione: è in
carcere che ha cominciato a scrivere
“Shantaram” e gli ci sono voluti
altri sei anni per finirlo.
Quando Roberts arriva in India ha
poco meno di trent’anni, un matrimonio
fallito alle spalle, una figlia
di cui non sa più nulla... Aggiunti
alla condanna e all’evasione, questi
elementi fanno di lui uno sradicato
la cui vita non vale nulla e al quale
la vita non riserva nulla. Eppure, è
proprio il vitalismo occidentale,
l’arrivismo, il vivere, errare, cadere,
trionfare, ricreare la vita dalla vita
che è la chiave della sua resurrezione.
Non è un attivismo fine a se
stesso, la ricerca di un puro e semplice
benessere materiale o una
voglia di protagonismo. Più semplicemente
e, quindi, in modo più
complesso, perché alla semplicità si
arriva al termine di un percorso lungo
e difficile, cerca una ricostruzione
intima, personale, spirituale, l’unica
l’unica
che, mettendolo di fronte a se
stesso, possa permettergli di affrontare
gli altri. In questa ricerca,
Roberts non sceglie mai la scorciatoia
di prendere a prestito un’altra
identità, un’altra religione, un’altra
fede: il suo amore e la sua passione
per l’India, per gli indiani, per la
stessa Bombay-Mumbay non si tramutano
mai in adorazione acritica:
al fondo sa che si tratta di entità
separate, accettabili e comprensibili
se ciascuna di esse è pronta a cedere
qualcosa all’altra, ma non interscambiabili,
perché ciascuna radicata
profondamente in un modo d’essere,
una storia, una natura.
Ciò che rende il libro affascinante è
che nell’incredibile odissea del suo
protagonistaa non c’è mai un’idea
di sopraffazione, di gratuita cattiveria.
Roberts non è un santo, naturalmente,
ma appartiene a quel particolare
tipo umano che ha un proprio
senso dell’onore, che cerca di essere
sempre all’altezza di modelli che
nel tempo si è costruito, che non ci
sta a farsi degradare, che ha in
maniera acuta il senso della dignità,
propria e altrui. Non è un profittatore,
insomma, non è un prevaricatore,
e sa bene che l’umiltà è la virtù
dei grandi.
“Shantaram” permette una lettura
dell’India non convenzionale e si
presta anche a una comprensione
politico-ideologica di alcuni degli
elementi clou di questi ultimi anni. I
capitoli che raccontano il jihad
afghano ai tempi dell’invasione
sovietica e il ribollire dell’identità
musulmana in terra indiana sono, da
questo punto di vista, esemplari. Ma
la chiave di volta del libro è in questa
purezza del cuore del suo protagonista,
la volontà di non arrendersi,
la dignità di continuare a battersi,
l’accettare il volto sorridente e feroce
del mondo, che è, poi, il volto
della vita.