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Il nomadismo precario del popolo sovrano

di Carmelo R. Viola - 03/10/2006


Esempio didattico. - Un giovane si munisce di un diploma tecnico di livello medio-superiore. Si compiace di avere uno strumento specifico per farsi strada nel “mercato del lavoro”. Fallisce una serie di concorsi con pochi posti disponibili. La capacità personale, la fortuna e chissà quanti “fattori occulti” hanno giocato a suo sfavore. Ma il padre, noto commerciante, non è da meno: riesce a farlo assumere da una ditta locale con sede di lavoro in periferia. Non è grande ma consolidata da anni di esperienza. Il nostro giovane, felice, sente allontanarsi lo spettro della disoccupazione. Sposa la ragazza del cuore e si fa una famiglia, convinto di potere affrontare il suo futuro con sufficiente sicurezza. Il contratto di lavoro “a tempo determinato” si è tramutato in “a tempo indeterminato”. Da precario è passato a stabile. La sua felicità diventa esultanza ed assapora la gioia del “posto fisso”.

La degustazione di un ormai “frutto proibito” dura lo spazio di alcuni anni cioè fino a quando il “datore di lavoro” si trasferisce ad un centro molto lontano dove ha più possibilità di buoni affari e di profitti. E ne ha il diritto. Il nostro giovane, già prossimo padre, vacilla davanti all’aut-aut prendere o lasciare. Deve imparare a ragionare in termini di fabbisogno dell’imprenditore e non dei propri diritti: questo gli riesce difficile comprenderlo. La vicinanza dei nonni, che ancora lo coccolano, le amicizie, le abitudini, la differenza climatica, le spese di trasloco, lo stress della futura madre sono fattori secondari davanti alla necessità del lavoro, che comincia ad acquistare il sapore della condanna. Manzoni ha descritto in modo magistrale l’angoscia dell’allontanarsi dal proprio habitat affettivo e identitario nel passaggio “Addio monti sorgenti dalle acque.”. Il nostro giovane accetta lasciandosi alle spalle genitori, parenti, ricordi d’infanzia e quant’altro per inseguire il lavoro. Gli dicono che i tempi sono cambiati, che bisogna seguirli e che lui, giovane, si ambienterà. Accetta e poco dopo dovrà consolare la compagna che inizierà il suo mestiere di madre in totale solitudine.

Seguirà un secondo lieto evento ma, quasi a ruota, la ditta crolla. Il nostro attore entra in cassa integrazione e qualche tempo dopo si ritroverà senza lavoro, lontano da casa, solo e con un enorme carico di famiglia. Dovrà bussare dal padre per non soccombere: si sente un naufrago attaccato a un legno galleggiante. Sa che i contributi ai fini della lontana pensione sono stati sospesi ed è solo pazzesco pensare alla consigliata assicurazione integrativa. Un nuovo reimpiego si profila in un centro ancora più lontano. Lo accetta e va ad abitare in una stanza in famiglia: il sabato libero è allietato dal tripudio del rientro in casa. Dopo una specie di tirocinio e a prova superata, organizza un nuovo trasloco con annessi e connessi. I due bambini cambiano asilo. Ma la rincorsa non è finita. Il posto di lavoro si sposta di alcune decine di chilometri. Il nostro diventa pendolare. Aumentano le “spese vive” per conservare il lavoro e si riduce il tempo da dedicare alla coniuge e ai figli. I quali crescono fino all’adolescenza e frequentano già le medie. A questo punto la ditta viene assorbita da una molto più grande con sede all’estero, la quale ristruttura tutto: il nostro uomo viene licenziato per riduzione di personale. Nel rispetto della legge. Il nostro giovane, che si sarebbe comunque trovato in difficoltà per la lingua, semplicemente non sa che fare.mentre compagna e figli già accusano turbe psichiche da deprivazione affettiva e disadattamento ambientale. A quasi quarant’anni il nostro ora meno giovane si ritrova in alto mare.

Il neoliberismo è quella “filosofia, più economica che politica” secondo cui il motore della vita sociale è l’insieme degli imprenditori, industriali, uomini di affari e banchieri. Tale “insieme”, peraltro a perenne conflittualità interna, non è l’economia . Quando costoro assumono dei prestatori d’opera, sono i “benemeriti”: quando licenziano, hanno ragione. L’impresa è “sovrana” e le sue esigenze fanno legge. Lo stato di salute (o di sofferenza) della collettività dipende da essa. Lo Stato? Si arroga perfino la qualifica “di diritto” solo perché legittima quella sovranità e giustifica il nomadismo precario dei lavoro-dipendenti come ineluttabile.

Il neoliberismo è una pratica antibiologica e patogena perché fa scempio della fisiologia dei “complementi affettivi”e dei rapporti d’identità con l’ambiente e ignora il danno nevrotico dovuto ai cambiamenti forzati, specie nell’età evolutiva e, per la donna, durante la gestazione e il puerperio. Si parla del neoliberismo come di una condizione prodotta dall’evoluzione della civiltà ovvero come di una fenomenologia di tipo meteorologico a cui è necessario adeguarsi per stare al passo con i tempi.
Al contrario, si tratta di una patologia involutiva della civiltà dovuta al prevalere dell’adolescenza della specie - ovvero dell’antropozoismo - sul compimento etico dell’uomo. Quanto più cresce la tecnologia (erroneamente identificata con il progresso) tanto più aggressivo e antiumano si fa l’antropozoismo.

Stando così le cose, richiamare gli articoli della Costituzione, specie a proposito di lavoro e di sovranità popolare, è semplicemente grottesco a fronte della reale “sovranità dell’impresa e dell’industria” e alla crescente asocialità dello Stato che recita la sconcertante parte dell’”arbitro cornuto”. La legalità neoliberista è criminalità per sé stessa, che si arricchisce di quella illegalità interna, di cui è carica la cronaca di tutti i giorni. Completa il quadro la criminalità collaterale paralegale indicata con nomi convenzionali come mafia, camorra ed altri equivalenti. Il potere giudiziario non può guarire i mali prodotti dal sistema, di cui è esso stesso un’espressione penosa più che penale. Manca il concetto di diritto, che è la spettanza biologica a cui dovrebbero essere conformate le leggi dello Stato. Solo in questo caso non ci sarebbero né padroni, cittadini privilegiati che hanno più delle spettanze biologiche, né poveri e disoccupati che sopravvivono mendicando il diritto di vivere.

Ecco un abbozzo di “pentalogo della barbarie neoliberista”:

1 - Non c’è alcuna certezza di potere entrare nel mercato del lavoro.
2 - Un dipendente - con la sola eccezione di quello pubblico - può ritrovarsi sul lastrico dall’oggi al domani, a qualsiasi età.
3 - La possibilità del reimpiego è inversamente proporzionale all’età e alla non specificità delle competenze.
4 - Non c’è alcuna certezza di potersi pagare tutte le rate di un’eventuale assicurazione integrativa.
5 - Non c’è alcuna certezza di raggiungere l’età pensionabile con diritto alla pensione o con una pensione che non sia di fame.
Che ne pensa il prode professor Prodi?