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Il sovranismo non è una protesta. Ecco perché è destinato a vincere

di Lorenzo Vita - 11/11/2018

Il sovranismo non è una protesta.  Ecco perché è destinato a vincere

Fonte: Gli occhi della guerra

I sovranisti non rappresentano per forza un voto di pancia o di protesta. E se anche il vento “populista” ha iniziato a soffiare nel 2009, con l’avvento della crisi economica, è impossibile oggi ribadire che quel voto sia frutto della crisi. Lo ha spiegato bene Foreign Policy, in un editoriale che ripercorre le ultime tappe della fine dei leader della socialdemocrazia e dell’avvento degli uomini nuovi che hanno preso il potere o stanno scalzando la vecchia guardia.
Per molto tempo, ci è stato detto che i movimenti sovranisti fossero il frutto di una protesta. L’intellighenzia mainstream ha etichettato il fenomeno come una sorta di esaltazione demagogica delle classe popolari, in cerca di certezze dopo l’impoverimento causato dalla grande crisi che ha sconvolto l’Occidente. Ma relegarlo al pericolo di perdere potere d’acquisto o posti di lavoro rischia di essere superficiale, o quantomeno fuorviante.
Non è solo la crisi economica ad alimentare i nuovi grandi partiti politici. Perché la crisi economica, che ancora c’è, evidentemente, in molti Paesi, non è più quella che sconvolto gli Stati europei e l’America nel 2008. E molti Stati dove crescono i movimenti “di protesta” sono in realtà estranei alla crisi. La disoccupazione non ha dato che indicano un malcontento diffuso, il popolo non è affamato. E in alcuni casi, i Paesi dove cresce il sovranismo, che viene etichettato come una sorta di “populismo di destra”, sono in realtà tra i più avanzati e ricchi d’Europa.
In questo senso, fanno riflettere i casi di tre Paesi: Germania, Olanda e Polonia. A Varsavia, i sovranisti sono esplosi quando il Paese era considerato la vera locomotiva dell’Europa orientale. Era il 2015 quando Beata Szydło di Dritto e Giustizia è diventata primo ministro. Poi è stato il turno di Mateusz Morawiecki, sempre della destra polacca. Il partito di Jarosław Kaczyński ha da sempre portato avanti una retorica nazionalista, fortemente legata ai valori cattolici della Polonia e ancorata a una visione conservatrice della società civile. Ha strappato le redini del Paese al partito di Donald Tusk, che promuoveva l’europeismo dalla sua Piattaforma civica per traghettare Varsavia nell’alveo dell’Europa occidentale. E invece la Polonia, nonostante la crescita economica e nonostante l’interesse nell’entrare nell’Unione europea, si è scoperta sovranista e anti-Ue.
Lo stesso può dirsi dell’Olanda. Un Paese ricco che non ha sofferto la crisi economica come altri Paesi dell’Unione europea. I Paesi Bassi non hanno avuto l’emigrazione dei giovani, non sono crollati i salari, la disoccupazione, ad agosto 2018, era del 3,9%, con un picco massimo del 6 per cento nel 2016. Anche qui l’economia è in crescita, eppure l’ultradestra di Geert Wilders non domina ma è una costante. Idem per la Svezia, dove i Democratici svedesi di Jimmie Akesson hanno invaso il parlamento di Stoccolma.
Il caso della Germania, invece, è ancora più eclatante. Angela Merkel sta lentamente collassando. E se la Cdu vuole spostarsi a destra, il vento del sovranismo sta prendendo piede in tutto il Paese. Non c’è parlamento locale in cui l’Alternative fur Deutschland non abbia preso seggi. Il partito dell’ultradestra ha guadagnato consensi e continua ad accrescere il suo peso in tutto il territorio tedesco. E questo nonostante la Germania resti la locomotiva d’Europa e il Paese che di fatto rappresenta il cuore economico e industriale dell’Unione europea. La Baviera, in questo senso, è stata un esempio perfetto: un Land ricco, produttivo eppure con un elettorato che si spostato a destra.
Perché quindi la crisi non serve a spiegare il sovranismo? Perché i sovranisti si fondano su altre esigenze. Che sono le stesse che negli Stati Uniti hanno condotto all’elezione di Donald Trump nel 2016 o alla conferma dei repubblicani nell’America profonda, rurale e industriale. Non c’è solo l’economia. C’è una crisi di identità, una volontà di riavere una società da cui le persone della parte più profonda del Paese si sentono escluse.
Non è una lotta per la sopravvivenza economica, ma una lotta quasi antropologica, culturale, che sposta l’attenzione non sul portafogli, ma su altri valori. C’è l’immigrazione, c’è la sovranità politica ed economica, c’è la sfida verso il progressismo ultra-liberale. Steve Bannon, parlando del voto negli Stati Uniti, non ha parlato di economia, ma di lotta fra “nazionalisti” e “cosmopoliti”. I sovranisti europei non prendono consenso parlando di lavoro e tasse, ma di chiusura dei confini e di identità perduta, di cultura patria e di valori da ripristinare.
È per questo che il sovranismo è destinato a rimanere saldo in tutto l’Occidente, mentre la socialdemocrazia perde colpi. Perché i partiti del mondo liberale non rispondono alle esigenze della popolazione che si sente sempre più esclusa non a livello economico, ma a livello culturale. C’è un senso di estraneità a un mondo di cui non ci sente più parte.
E quei valori che hanno costituito le basi delle società occidentali, sono colpiti costantemente da un mondo progressista che sta mettendo sotto assedio parti sempre più ampie delle popolazioni facendo riaffiorare un sentimento identitario sopito negli ultimi decenni. I sovranisti vincono perché ha infiammato l’identità nazionale delle persone. Ma lo stanno facendo soprattutto perché il mondo progressista ha messo in dubbio le diversità. E queste, sotto attacco, riaffiorano. E riaffioreranno sempre finché il progressismo non cambierà obiettivi.