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La fine di tutte le cose

di Simone Sauza - 03/02/2019

La fine di tutte le cose

Fonte: Indiscreto

Non c’è mai stata un’epoca che non abbia creduto di essere immediatamente davanti ad un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità
(Walter Benjamin, I Passages di Parigi)


«Non penso niente», disse Schulhoff. «Aspetto la fine»
(Antoine Volodine, Terminus Radioso)

Comincia tutto con il ghiaccio. Immaginiamo un’enorme massa di circa seimila chilometri quadrati. Ora figuriamoci questo iceberg del peso di miliardi di tonnellate staccarsi dalla sua piattaforma e cominciare un galleggiamento diretto verso un altrove imprevedibile. È quanto accaduto meno di un anno fa alla piattaforma Larsen C, un processo di smembramento (ice calving) di una parte del ghiacciaio, dovuto alla doppia azione delle temperature atmosferiche e delle temperature marine. Secondo buona parte dei glaciologi, pur essendo quello del calving un processo naturale, la velocità del fenomeno della piattaforma Larsen C è da imputare al riscaldamento globale.
L’evento, nel giro di poco tempo, finì sulle pagine di tutti i giornali. La primissima reazione fu l’allarmismo; poi arrivò l’indifferenza. La comunità scientifica aveva invitato alla calma rispetto agli allarmi inondazioni che erano circolati in Rete. L’iceberg, in effetti, faceva parte di una piattaforma già galleggiante, quindi senza particolare influenza sul livello del mare (un cubetto di ghiaccio che si scioglie in un bicchiere non fa traboccare l’acqua). Ma l’episodio della piattaforma Larsen C è l’indicatore di qualcos’altro: la velocità con cui l’Antartide, che si pensava immune dagli effetti più devastanti del global warming, si sta scaldando. Lo scioglimento del permafrost, che negli ultimi decenni si è rivelato inaspettatamente rapido, ad esempio, rilascia grandi quantità di metano. Un fenomeno solitamente più frequente e costante nella regione artica, che per l’effetto serra va a sua volta a riscaldare l’atmosfera, come in una brillante ghirlanda del disastro. Il riscaldamento globale è al centro dell’aumento dell’intensità (e non della quantità) di tornado, uragani e alluvioni che mettono a rischio l’abitabilità di molte zone del pianeta. A meno di dodici mesi di distanza, la sorte di quell’iceberg – un evento che segna un prima e un dopo, un “undici settembre ecologico” – è scomparsa dall’immaginario delle persone.
Il senso della fine è un fantasma che sta tornando ad abitare il nostro tempo. Se guardiamo alla produzione culturale contemporanea, sembra tornato in auge un certo gusto apocalittico. Eppure, gli allarmi climatici da parte di quella o quell’altra ricerca scientifica che ogni tanto leggiamo sui quotidiani nazionali sembrano un contorno di colore alla quotidianità di persone e governi. Questo neo-pessimismo di maniera ha le sembianze di un fantasma. Facciamo un passo indietro. C’è una frase, attribuita a volte a Fredric Jameson e a volte a Slavoj Zizek, che ultimamente va piuttosto di moda: “È più facile immaginare la fine del mondo piuttosto che la fine del capitalismo”. Ci sono numerosi motivi per cui alcune citazioni vanno di moda, così come ce ne sono tanti per cui va di moda citare questa frase. Tra i tanti ce n’è uno molto serio: in circa 70 caratteri tiene insieme i tre nodi che ossessionano una parte della produzione culturale di quest’epoca. L’immaginario, la fine del mondo fisico e il sistema sociale ed economico che abbiamo costruito per gestire il nostro abitare.
Amitav Ghosh, nel suo ultimo lavoro La grande cecità, scrive:
La cultura induce desideri – di mezzi di trasporto, elettrodomestici, un certo tipo di giardini e case – che sono fra i principali motori dell’economia basata sui combustibili fossili. Una veloce decappottabile non ci entusiasma perché amiamo il metallo e le cromature, né per un’astratta conoscenza della sua tecnologia, bensì perché evoca l’immagine di una strada che guizza in un paesaggio incontaminato; pensiamo alla libertà e al vento nei capelli; ci sembra di vedere James Dean e Peter Fonda che sfrecciano verso l’orizzonte; pensiamo a Jack Kerouac e a Vladimir Nabokov. […]. Questa cultura è intimamente legata alla più ampia storia dell’imperialismo e del capitalismo che hanno plasmato il mondo.
Non si desidera mai veramente solo un oggetto singolo. Si desidera sempre un insieme, una concatenazione di cose. Questa relazione viene messa in opera da discorsi, istituzioni, strutture architettoniche e leggi vigenti in una data società. Il brano dello scrittore e antropologo indiano sembra parafrasare il concetto di “macchina desiderante” di Gilles Deleuze, applicandolo ai cambiamenti climatici. L’immaginario è una struttura mentale in continuo divenire, una griglia percettiva attraverso cui guardiamo e alteriamo la realtà, che si forma dalla concrezione di forme simboliche che incontriamo nel quotidiano. Una canzone pop, un film, un cartone animato, ma anche l’architettura o la pianificazione urbanistica, direttamente o indirettamente, ci instillano un frammento della società che viviamo e costruiscono questa griglia. Tutto ciò che per noi si fa oggetto rimanda ad altro, a un orizzonte più ampio di senso. Marito e moglie che camminano per strada sono a loro insaputa esemplificazioni di uno specifico rapporto sociale costruito nel tempo: il matrimonio borghese così come scaturisce da anni di diritto, eterosessuale, incarnato in una serie di gesti e posture, come il modo di baciarsi o la distanza che tengono l’uno dall’altra, a sua volta scaturite dai codici e dai costumi erotico-sessuali del tempo. Esiste, cioè, una sorta di responsabilità dei significanti che riempiono lo spazio pubblico.

Secondo Amitav Ghosh, il cambiamento climatico è il grande rimosso dell’immaginario. Uno dei fenomeni più terrificanti e più influenti sulla vita umana, ma per lo più assente nelle preoccupazioni imminenti dell’opinione pubblica. Il paradosso è che questa indifferenza avviene proprio all’interno di una pop culture in cui le narrazioni distopiche sono tornate a proliferare. Un articolo di Francesco Guglieri poco tempo fa parlava della distopia come unico realismo possibile. La fantascienza come alfiere per comprendere il nostro tempo e adoperarsi per cambiarlo. Il problema è che quel ruolo di “letteratura di resistenza”, come poteva ancora essere ai tempi di George Orwell, Ray Bradbury o Aldous Huxley, sembra essere mutato nel suo contrario. La distopia oggi è un brand: da Black Mirror a The Handmaid’s Tale, passando per The Man in the High Castle. In ambito editoriale non c’è progetto che non smani per mettere nella bandella di un libro l’etichetta “distopico”. L’urgenza al cuore di questo genere letterario è passata dalla critica politica radicale a una forma di intrattenimento innocua. Se la distopia diventa di moda, è inevitabile che venga in qualche modo banalizzata, normalizzata ed estetizzata per la fruizione del grande pubblico. È come se ci fosse una legge: più una critica politica diventa un oggetto pop, meno inciderà sulle coscienze, venendo fagocitata dall’industria culturale. Un passaggio di un articolo uscito su Vulture sui migliori libri distopici è particolarmente rivelatore in questo senso: “It’s fashionable to be pessimistic”, si dice a un certo punto. Il pericolo è abbastanza semplice da intuire. Il pessimismo si basa su un ottundimento cieco, svuotato da argomentazioni razionali, della capacità di pensare possibilità ulteriori a partire da un ragionamento sul presente. “Il pessimismo va di moda”: l’immaginario del disastro non è più frutto di un pensiero critico, ma diventa una posa priva di autoconsapevolezza. La frase apparsa su Vulture ricorda un passaggio de La società dello spettacolo di Guy Debord: l’insoddisfazione è diventata una merce. In questo caso la brandizzazione della distopia, pur presentandosi come narrazione massimamente politica, avrebbe così un effetto depoliticizzante.
Il senso del disastro imminente è strettamente connesso a un’esuberanza della capacità immaginativa. Immanuel Kant nel 1794 fa pubblicare sulla Berlinische Monatsschrift un piccolo saggio intitolato La fine di tutte le cose. Il filosofo tedesco si chiede, tra le varie riflessioni intorno al tema della fine, perché gli uomini di ogni cultura e di ogni luogo si aspettino una fine del mondo e siano, per di più, inclini a pensarla in termini terribili. «L’idea di una fine di tutte le cose non trae la sua origine da ragionamenti relativi all’ambito fisico, ma da riflessioni sul corso morale delle cose di questo mondo». La corruzione del genere umano, evidenziata da segnali mondani come l’ingiustizia crescente tra ricchi e poveri, non può avere che una fine drastica. Il mondo dura finché gli esseri razionali sono «all’altezza dello scopo finale della loro esistenza». Altrimenti, il mondo sarebbe come un’opera teatrale senza conclusione. L’intento di Kant è trasformare la fine di tutte le cose nel fine di tutte le cose: vale a dire il senso della fine, che trascende la nostra esperienza, è un ente di ragione che ci spinge a rendere morale lo scopo finale della nostra esistenza. È la fine come completamento della maturità dell’umanità, vale a dire il momento in cui l’uomo riesce, tramite la ragione pratica, a mettere un freno alla sua opulenza e all’egoismo. Oggi siamo consapevoli di qualcosa di più. La “corruzione del genere umano”, per dirla con Kant, sconfina nel mondo fisico e diventa una variabile causale dei cataclismi. Le forme sociali tramite cui abitiamo il pianeta stanno avendo una diretta influenza sull’ecosistema alterandolo a livello fisico, chimico e biologico. L’homo sapiens per la prima volta è diventato un agente geologico, una variabile ingombrante nella complessità del globo. Com’è noto, secondo una parte della comunità scientifica, sulla scia di un fortunato testo del chimico Paul Crutzen, la nostra era geologica andrebbe rinominata Antropocene.
Cinque estinzioni di massa si sono succedute sulla terra in 540 milioni di anni. Il motivo principale è stato quasi sempre l’aumento di carbonio nell’atmosfera. Secondo alcuni ricercatori, come Daniel Rothman, geofisico al MIT di Boston, siamo all’inizio di un processo che nel giro di 100 anni potrebbe portare alla sesta estinzione di massa. Lo studioso americano ha analizzato il tasso di cambiamento del carbonio nelle precedenti estinzioni e come, raggiunta una certa soglia, l’ecosistema sia crollato. Oggi non siamo lontani dal raggiungere la soglia calcolata. Il 2100, considerando il ritmo di aumento delle emissioni di CO2, è la data stimata per la catastrofe. E dopo? La modalità di realizzazione di un fenomeno cataclismatico è qualcosa che va oltre la conoscenza umana. Hic sunt leones, come nel mito delle carte geografiche antiche. I segni del caos climatico si leggono, ad esempio, nella diminuzione repentina del numero di specie viventi. Il nostro sistema sociale ed economico sta alterando l’ecosistema in maniera sempre più irrimediabile. Questo sistema si presenta come eterno, come compimento senza alternative della storia sociale umana. E questo stesso sistema si sta rivelando insostenibile per la sopravvivenza della specie. Se tale modello esautora la possibilità di pensare un futuro alternativo, allora non possiamo far altro che immaginare, come eventualità prossima, la fine di tutte le cose. Se accettiamo il fatto che la produzione narrativa rappresenti in qualche modo i fantasmi che agitano l’inconscio collettivo, potremmo dire allora che, da un decennio circa, l’immaginazione umana, come in un neomillenarismo secolarizzato, è tornata a lavorare sulle figure della Fine. Uno degli autori che nella sua produzione ha descritto meglio questo sentimento di caducità è Antoine Volodine. Nel suo Terminus Radioso quella descritta è un’umanità che anela all’estinzione. Mentre tutta la realtà circostante assume i contorni di un infinito decadimento e un’infinita rovina, la morte sembra qualcosa di irraggiungibile. La morte, detto altrimenti, assume una prospettiva salvifica come termine del non-senso. Le radiazioni nucleari hanno trasformato un mondo post-totalitario – una terza Unione Sovietica in rovine – e i suoi abitanti in esseri né vivi né morti, in un limbo che sembra un susseguirsi di sogni e incubi incastonati l’uno dentro l’altro. Il tempo si sussegue in maniera indefinita fino a perdere di significato. Il disertore Kronauer e Schulhoff, il marito di una delle figlie dello sciamanico presidente del kolchoz Soloviei, – in una sorta di umorismo del disastro tipico di Volodine – aspettano una fine che forse non verrà mai:
Mentre si abbandonavano entrambi al torpore e al declino di quasi tutte le funzioni organiche e mentali, ufficialmente per rimettersi dalle fatiche dello spettacolo e riprendere le forze, in realtà perché l’idea di scomparire, a loro, non dispiaceva affatto, il corvo che li aveva ascoltati fino a quel momento sbatté le ali e il becco e atterrò sulla parte alta del fossato
La letteratura di Volodine non parla di cambiamenti climatici, ma è forse la produzione che coglie meglio questo senso intimo del disastro. Una letteratura dell’Altrove, come definita dallo stesso Volodine, che fa i conti con uno scenario tanto post-umano che post-politico. Un sentimento – anche qui senza toccare i territori letterari climate-fiction – analogo a quello presente in una straordinaria uscita editoriale italiana, Voragine di Andrea Esposito. Il protagonista, Giovanni, si muove in un mondo ferino intriso di violenza e macerie. La morte del padre e del fratello gravano su un cammino di sopravvivenza sempre più prossimo al grado zero dell’umanità, alla nuda vita. Il capitolo centrale del romanzo, incentrato su una città sotto assedio, è più di una metafora. È, come in Volodine, un segno di una fine di tutte le cose che appare come terribile salvezza, ma che viene sempre rimandata. La fine del Senso e il senso della fine si compenetrano. Ciò che viene colto da una letteratura di questo tipo è uno spartiacque con l’immaginario moderno. Il venir meno di un’idea di vita sociale incentrata sull’ordine e sul dominio dei fenomeni che ora deve far fronte all’incontrollabile. Nella produzione culturale moderna, questa idea di ordine, questa ricerca del cosmos sul caos, rimane indelebile anche quando occultata o mascherata. L’immaginario borghese porta con sé un’idea della propria epoca come climaticamente stabile, ordinata, umanizzabile: vale a dire un ordine funzionale all’idea di un’umanità che tramite la tecnica forgia il proprio destino. Non che la negatività sia assente, ma il romanzo moderno ha descritto più il tumulto che il caos. Dopo la letteratura moderna la figura di un destino a portata di mano si è sgretolata. E con la fantascienza (e le ibridazioni a essa inerenti) che sta emergendo sempre più dal contenitore della letteratura di genere, a venir meno è anche un tipo di narrazione incentrata sull’interiorità dei personaggi.
C’è anche una difficoltà intrinseca nell’oggetto della narrazione. I cambiamenti climatici sfuggono spesso alla previsione e all’oggettivazione. Non sono localizzabili spazialmente, ma influiscono sull’intero vivere umano. La loro “invisibilità” sfida il linguaggio. Timothy Morton ha coniato il termine “iperoggetto” per descrivere questi enti, come il riscaldamento globale, che sfuggono ai parametri dell’ontologia classica: sono oggetti che non possono essere abbracciati epistemologicamente da un soggetto esterno, perché quest’ultimo ne è ospite e parte allo stesso tempo. Oggetti che decostruiscono la dicotomia esterno/interno. Scrive Morton in Hyperobjects: «Quanto più sappiamo a proposito degli iperoggetti, tanto più ci rendiamo conto che non potremo mai veramente conoscerli. Eppure, per quanto ci sforziamo di allontanarli, non possiamo separarci da loro».
Inadeguatezza del linguaggio, critica all’antropocentrismo, rapporto con il non-umano: un filo rosso che attraversa, ad esempio, la Trilogia dell’Area X di Jeff Vandermeer. Lo scarto tra parola e rapporto dell’uomo con il non-umano è in filigrana ai tre libri. L’Area X è un Altrove situato in un luogo spaziale indefinibile, forse causato dall’attività umana sul pianeta. Un Iperoggetto, appunto, che interagisce con il pensiero e con la materia organica che si trova nella sua prossimità, e il cui Confine in espansione, come un ulteriore organismo, sfugge alla comprensione umana. Quella di Vandermeer è una delle uscite editoriali più notevoli che rispondono idealmente alla mancanza che Amitav Ghosh imputa alla letteratura moderna: provare a narrare l’invisibile che sta definendo le nostre vite.
A proposito di invisibile che sta definendo le nostre vite, nel 1962, Il mondo sommerso di J. G. Ballard raccontava profeticamente di una Londra sprofondata sotto il livello delle acque a causa dello scioglimento delle calotte polari. A febbraio l’Artico ha visto un aumento delle temperature senza precedenti. Mentre l’Antartide, come detto all’inizio, per la prima volta sta andando verso un’inversione di rotta. Fino a poco tempo fa, questa regione risentiva poco del riscaldamento globale grazie a una peculiare circolazione delle masse d’acqua. Il rapido scioglimento dei ghiacci artici veniva controbilanciato da questa resistenza. Adesso, però, qualcosa è cambiato. Se prima il ghiaccio antartico in diminuzione era quello marino, ora sta subentrando qualcosa di mai verificato nella storia umana recente. Proseguendo per circa quattromila chilometri al di sotto dell’estremità del Sudamerica, si incontra Pine Island Bay, un’insenatura nel mare di Amundsen. Una zona in cui si trovano due tra i ghiacciai più grandi dell’Antartide: Pine Island e Thwaites. Oltre a un primato in termini di dimensione, Pine Island e Thwaites sono anche i due ghiacciai che si stanno sciogliendo più velocemente in tutta la regione. Entrambi poggiano su un terreno solido. Le correnti oceaniche calde stanno pian piano sciogliendo le loro basi. Tale erosione crea delle piattaforme (ice shelf) che rischiano di collassare per il peso del ghiaccio land-based (cioè terrestre, non galleggiante) da trattenere, riversando così enormi quantità di acqua che si aggiungerebbe alla massa totale dei mari. Come spiegato dal meteorologo Eric Holthaus in un discusso articolo dal titolo icastico Ice Apocalypse:

Insieme agiscono come un tappo che trattiene abbastanza ghiaccio da poter innalzare il livello del mare oltre i 3 metri di altezza – una quantità che sommergerebbe ogni città costiera del pianeta. Per questo motivo, scoprire quanto velocemente questi ghiacciai collasseranno è una delle questioni scientifiche più importanti al mondo oggi [traduzione mia].
L’eventualità di un collasso di proporzioni enormi nella Pine Island Bay non è uno scenario fantapocalittico. È già successo, undicimila anni fa, allagando le coste di tutto il mondo. Un collasso odierno potrebbe essere una questione di tempo. A questo proposito nel 2015 era stato avviato un progetto di ricerca intitolato “How much, how fast?” con operazioni di rilevamento sul campo che sarebbero partite nel 2018. L’amministrazione Trump, nell’ultima proposta di bilancio della Casa Bianca, ha mostrato l’intenzione di tagliare i fondi alla National Science Foundation, che finanzia buona parte dei progetti di ricerca in Antartide. Un taglio che si presenta come un unicum nella storia recente degli Stati Uniti. Il punto di congiunzione tra politica, immaginario e letteratura è anche qui. Le finanze globali seguono le rotte dell’immaginario del capitalismo fossile conosciuto finora.
Dopo la combustione fossile (65%), la deforestazione è la maggior causa della concentrazione nell’atmosfera di diossido di carbonio. «Le attività umane sono la principale causa della distruzione di vari ecosistemi a un tasso che ha le caratteristiche del cataclisma», scrive David Quammen in Spillover, il suo celebre testo sull’evoluzione delle pandemie. Il 2018 segna i cinquant’anni dalla prima volta in cui l’industria dell’energia fossile riceveva un’analisi dettagliata sull’impatto delle emissioni di CO2. Era il primo gennaio 1968. La Stanford Research Institute (SRI) fece recapitare un report intitolato Sources, Abundance, and Fate of Gaseous Atmospheric Polluters alla American Petroleum Institute (API), la principale associazione di categoria nel campo dell’industria fossile. Il termine global warming sarebbe arrivato circa dieci anni dopo. Mentre altri vent’anni dopo il climatologo James Hansen avrebbe testimoniato al Senato sull’aumento del riscaldamento globale e sulla relazione con l’inquinamento atmosferico. Nel 1968, le particelle di CO2 nell’atmosfera erano a quota 323ppm (parti per milione), oggi si parla di 408,79 ppm. In mezzo, cinquant’anni di politiche e attività di lobbying tese a minimizzare l’impatto mediatico, fino alla nascita di movimenti negazionisti: dall’orrore invisibile dell’Olocausto all’orrore invisibile del Disastro. Un anno fa Donald Trump firmava l’ordine esecutivo che poneva fine alle norme per la riduzione delle emissioni inquinanti delle industrie americane, regole contenute nel Clean Air Act dell’era Obama. La motivazione si reggeva su un calcolo elettorale e sull’incapacità di riorganizzare ampi settori dell’attività umana: il ritorno all’era del carbone garantisce posti di lavoro nelle fabbriche e indipendenza energetica, cioè consenso elettorale. A dominare è la politica a breve termine: come un deficit della nostra coscienza temporale. In questo senso i cambiamenti climatici spingono a ridefinire il nostro modo politico e sociale di stare insieme: dalle frontiere all’azione collettiva degli Stati sulla scena globale, passando per i focolai di guerra. La domanda da porsi è se le istituzioni che finora abbiamo scelto per abitare il pianeta sono adeguate. Quelli come l’abolizione del Clean Air Act non sono atti isolati di Stati che gestiscono sovranamente il proprio settore energetico, ma decisioni capaci di influenzare il resto del mondo.
Per capire l’influenza dell’immaginario che stiamo descrivendo, pensiamo di dover dire a un nostro amico abitante di Los Angeles di doversi trasferire a causa della posizione della sua città. Ci prenderebbe per pazzi. La razionalità gradualista è quella che ha guidato il pensiero scientifico fino a pochi decenni fa. La natura è prevedibile, non fa salti, le sue mutazioni non sono repentine. Pensiamo ora a New York. Pensiamo al 2012. È l’anno dell’uragano Sandy. Nonostante gli avvisi e il monitoraggio, l’evento viene in un primo momento sottostimato. Il sindaco Bloomberg – prima di “blindare” la città come poi effettivamente è stato – aveva riferito ai giornalisti che l’amministrazione aveva iniziato a prendere precauzioni, ma che in quel momento non vi era alcuna richiesta di evacuazione obbligatoria e che non prevedeva di sospendere la viabilità o di chiudere le scuole. Alcuni cittadini furono restii ad abbandonare le abitazioni anche dopo l’ordine di evacuazione, sottostimando l’evento. Nell’immaginario newyorkese, semplicemente, quei disastri non facevano parte dell’Occidente. Sono scenari da terzo mondo. Vi è qui all’opera un certo paradigma della vista. Un dominio della visione sull’immaginazione tipico della storia della cultura e della spiritualità occidentale: dal rendere visibile il Dio nel Cristianesimo attraverso l’Incarnazione, al “mito del dato” nella cultura scientifica (per usare l’espressione del filosofo americano Wilfrid Sellars). La nostra epistemologia, il nostro modo di pensare la conoscenza, è inadeguato a un’ontologia degli Iperoggetti.
A volte le piccole apocalissi hanno un effetto dirompente nell’immaginario. Esse aprono cioè alla possibilità del cambiamento nel nostro modo di relazionarci; vedere, ad esempio, che una dicitura come “disastro naturale” richiama una sorta di evento ineluttabile. La portata disastrosa di certi fenomeni climatici, invece, spesso ha delle cause sociali: come la vulnerabilità di aree urbane povere prive di infrastrutture adeguate, la scarsa attenzione delle amministrazioni nelle politiche di prevenzione garantita in quartieri e zone con fasce di popolazione a basso reddito, l’intensità dei fenomeni ampliata dalle emissioni di CO2 del nostro modello di sviluppo. Il geografo Neil Smith, riferendosi principalmente al caso dell’uragano Katrina e ai danni su New Orleans, ha sostenuto che i «disastri naturali sono in realtà il prodotto di tangibili diseguaglianze sociali. La presunta “naturalità” dei disastri diventa un camuffamento ideologico per le dimensioni sociali (e quindi prevenibili) di tali disastri, che coprono interessi sociali piuttosto specifici». La maggioranza della popolazione urbana mondiale oggi vive in paesi in via di sviluppo. Secondo Ashley Dawson, autore di Extreme Cities, molti di questi sono cittadini vittime della deregulation agricola e delle politiche imposte da FMI e Banca mondiale che hanno favorito le corporation a scapito dei contadini, standardizzando la produzione, intensificando l’uso di prodotti chimici e facendo crollare i prezzi dei prodotti agricoli. Politiche «che hanno spinto milioni di contadini negli slums delle conglomerazioni urbane largamente deindustrializzate del Sud Globale». Spesso si tratta delle zone più a rischio per quanto riguarda gli effetti dei cambiamenti climatici. Terreni esclusi dallo sviluppo urbanistico proprio per la natura dell’area, soggetta a smottamenti e inondazioni. La pianificazione urbanistica, prima ancora dei flussi economici, è un elemento chiave per capire e inquadrare le diseguaglianze. Un esempio emblematico è Haiti, dove gli effetti devastanti di un terremoto sono stati ampliati da infrastrutture inadeguate, mancato accesso all’acqua pulita, assenza di servizi igienici e medici di base. Non solo. Nel 1923 le foreste coprivano il 60% di Haiti, ora ne ricoprono il 2%. Questa deforestazione non è senza conseguenze. Ogni anno, senza foreste, 6000 ettari di terra coltivabile vengono erosi, aumentando la vulnerabilità di Haiti agli smottamenti causati da uragani che spazzano via fattorie, strade, comunità. Un altro esempio chiave è l’uragano Katrina negli Stati Uniti. Tra le aree più colpite ci furono quelle ad alta densità di popolazione afroamericana come New Orleans, dove sotto l’amministrazione Bush furono vendute ai costruttori privati vaste porzioni di terreno umido poco adatto all’edificazione. Sidney Blumenthal, ex Senior Advisor di Bill Clinton, affermò che i danni di Katrina potrebbero non essere stati semplicemente un risultato di un “act of nature”. Blumenthal, nello specifico, sottolineò come sotto Bush vennero interrotti dei progetti di ricerca dello US Army Corps Of Engineers su come prevenire gli effetti catastrofici degli uragani a New Orleans. Inoltre, a cominciare dal 2003, i fondi federali cominciarono ad essere dirottati sulla guerra in Iraq. Secondo quanto riportato da Blumenthal, a partire dal 2004, l’amministrazione Bush ha ripetutamente tagliato i fondi dello US Army Corps Of Engineers. David Harvey, in Città ribelli, sostiene che «la domanda riguardo a che tipo di città vogliamo non può essere separata dalla domanda circa che genere di persone vogliamo essere, quali tipi di relazioni sociali ricerchiamo, quali relazioni con la natura apprezziamo, quale stile di vita desideriamo o quali valori estetici coltiviamo».. Esiste, per così dire, una lotta di classe ecologica. Una necessità di politicizzare l’Apocalisse, di dare contenuto politico al senso della Fine.
La parte di popolazione meno responsabile delle emissioni di anidride carbonica, o delle politiche predatorie ambientali, è quella che ne soffre di più le conseguenze. La rivista Climate Change, ad esempio, nel 2017 ha pubblicato uno studio secondo cui le emissioni dei 90 produttori più importanti di combustibili fossili (aziende private come BP, Chevron, Shell, Total, ExxonMobil, ma anche big statali come Gazprom, Pemex, Aramco, Coal India, Kuwait Petroleum, Petroleos de Venezuela, National Iranian Oil Company) sono responsabili di quasi il 50% dell’aumento di temperatura, del 57% delle emissioni di CO2 e del 30% dell’innalzamento del livello del mare fin dal 1880. Oggi un vero capolavoro di colonizzazione della mente è quello dell’individualizzazione, della responsabilizzazione radicale dei singoli che elude sempre una messa in questione delle grandi decisioni politiche. Se soffri di stress da lavoro, sindrome da burnout, le aziende offrono supporto psicologico o, se te lo puoi permettere, vai in psicoterapia. Se non riesci a comprarti casa è perché non ti sei impegnato abbastanza o non sei bravo abbastanza da avere un certo reddito. Nel discorso ecologico, invece, se si parla di riscaldamento globale, la soluzione, viene detto, è il riciclo, la raccolta differenziata, le auto elettriche, la bicicletta. Pratiche che non sono da condannare in sé (alcune di queste hanno un impatto importante sulla salute e la qualità della vita), ma, secondo i dati sulle emissioni di CO2 prima citati, sono ininfluenti per quanto riguarda i cambiamenti climatici. «La libertà di queste società di inquinare, e la fissazione sullo stile di vita come risposta, non è un caso – ha scritto il giornalista ambientale Martin Lukacs sul Guardian – È il risultato di una guerra ideologica, condotta negli ultimi 40 anni, contro la possibilità di un’azione collettiva».
I cambiamenti climatici finiranno inevitabilmente per mutare il nostro modo di abitare il pianeta. La Banca Mondiale ha da poco stilato un report secondo cui, entro il 2050, circa 143 milioni di persone, provenienti principalmente da Africa Sub Sahariana, Sud Asia e America Latina, diventeranno dei migranti climatici.
La prossimità al caos climatico causata dal nostro modello di sviluppo svolgerà sempre più una funzione di decolonizzazione forzata dell’immaginario. New York come Bombay, Venezia come Calcutta, alimentando nuove mitologie: città forse perdute, inghiottite dalla Natura, nuove Atlantidi che potrebbero sorgere. La rottura di un modo di vivere che “cannibalizza” le future generazioni. Quei figli del futuro che lo scrittore e antropologo Matteo Meschiari, nel suo ultimo libro Neghentopia, immagina collocati in un mondo in rovina in cui «la polvere è ovunque». È la storia di un ragazzo assassino e  un passero parlante diretti verso un luogo, Neghentopia appunto, crasi tra la Neghentropia (l’entropia negativa che si oppone alla tendenza naturale al disordine) e l’Utopia, dove provare a invertire la direzione del futuro. Un ibrido letterario che prosegue il percorso narrativo e politico già visto con Artico nero, dove Meschiari aveva raccontato sette storie legate ai popoli dei ghiacci: dai Sami ai Nenet, dalla Groenlandia alla Siberia. Storie di colonialismo e rapporto ancestrale con l’ambiente, di violenza e appropriazione culturale, dove già si vive in un mondo alla fine del mondo senza bisogno di immaginare scenari distopici. Siamo abituati a immaginare il futuro come un’epoca di avanzamento tecnologico. L’epoca dell’IA e dell’automazione. Ma, anche qui, stiamo solo seguendo la griglia del nostro immaginario. Quella scaturita da eventuali disastri climatici potrebbe avere i contorni di un’era postumana. Il mondo potrebbe assomigliare più alle periferie del Blade Runner di Denis Villeneuve o a Mad Max: Fury Road di George Miller. Oppure al mondo dei già citati Volodine e Vandermeer, che nelle rispettive ultime uscite editoriali italiane, Gli animali che amiamo e Borne, immaginano territori devastati dall’attività umana. Deserti urbani in cui ciò che resta dell’uomo vive l’incontro più radicale possibile, quello con la bestialità e con il non-umano. L’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui, direbbe il filosofo franco-algerino Jacques Derrida. L’animalità ha spesso funzionato come un concetto negativo: la bestia esiste solo come Altro, come confine tramite cui definirci. L’uomo “è” ciò che “ha” in più rispetto alla bestia. Nel libro di Vandermeer diventa allora centrale la domanda su cos’è e come essere una persona. L’incontro con un’alterità inappropriabile, Borne o l’Area X della trilogia nel mondo di Vandermeer, permette all’uomo come specie di decentrarsi all’interno delle relazioni ecologiche.
Il ghiaccio torna spesso nella nostra storia. È un elemento archetipale della mente. At the Mountains of Madness di H.P. Lovecraft (ritradotto da poco per Il Saggiatore) colloca tra i misteri del ghiaccio l’orrore abissale, in una regione antartica mai abitata dall’uomo, nell’ignoto dove nessuno sguardo si è mai posato. La realtà non è oggi così lontana dalle mostruosità innominabili che abitano le profondità antartiche lovecraftiane. La penisola di Yamal situata nel circolo polare Artico, nel 2016 ha visto il ritorno dell’antrace. Basta la carcassa di una renna di un secolo fa che riaffiora nel terreno grazie allo scioglimento del permafrost causato dal riscaldamento globale. Gli strati di permafrost sono dei piccoli abissi. Animali, piante, muschi mai decomposti grazie all’effetto della bassa temperatura, che riportati alla luce cominciano un processo di marcescenza. Liberano gas, possono liberare patogeni e batteri sconosciuti all’attuale umanità. Il riscaldamento globale scava attraverso 16 milioni di tonnellate di permafrost che non è mai stato toccato in milioni di anni. Secondo Quammen, sempre nel suo Spillover, quella dei virus è una delle cause più verosimili di fine della specie umana. All’interno della rete biofisica in cui siamo immersi – sostiene – tra le cose che più ci legano tra tutti gli esseri viventi, come un «collante naturale», ci sono le malattie infettive. Virus a cui non siamo pronti e che noi stessi potremmo liberare. Tutto finirebbe con il ghiaccio.