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Nel tempio della dea fortuna

di Luca Lionello Rimbotti - 26/10/2006


La celebrazione del potere primigenio

Il tempio dedicato
alla Dea Fortuna a
Palestrina rientra tra
le costruzioni monumentali
erette nell’antichità
in forma
di altare telluricocosmico.
Qualcosa di radicato al
suolo e avvinto alla struttura stessa
della terra, come scaturito dai contrafforti
del colle. Dalla base alla
sommità del rilievo dominante
l’antica Praeneste si levava il grandioso
e scenografico tempio: qualcosa
di simile all’altare
di Pergamo,
inglobante l’intero
altopiano, oppure a
certe rappresentazioni
fantastiche della
liturgia faraonica.
Molti tra i più celebri
studiosi rinascimentali,
scrutando i pochi
resti antichi che si
potevano vedere tra
le povere casupole di
Palestrina, si erano
ingegnati a immaginare
quale forma
avesse in origine il tempio che si
sapeva essere della Fortuna Primigenia.
Ricostruzioni ideali di Giuliano da
Sangallo o del Palladio liberavano
la fantasia ad immaginare i più
colossali edifici, secondo
le geometrie di un
gigantesco neoclassicismo.
Ma neppure la fantasia
poteva superare la
realtà. Furono le bombe
americane dell’ultima
guerra a liberare in più punti
le incrostazioni e a mostrare in
tutta la sua portata quello
che era stato davvero il magnifico
tempio. Si trattava di una
imponente costruzione che,
già nel IV secolo,
occupava l’intero colle:
un sistema di terrazze
saliva per gradi sino
alla sommità, in cui si
trovava il tempio più
interno, e ogni tappa
del viaggio ascensionale
era segnata da vari
livelli, con scalinate,
rampe, stazioni.
Tutto il complesso aveva
l’aspetto di un sistema
geometrico costruito
in asse col tempio
più alto e con la statua
del culto supremo, in
un quadro che qualcuno
ha definito “ideologico”,
volendo rimarcarne
gli aspetti di
celebrazione del potere
divino attribuito al contatto con l’energia
generatrice dell’uomo. La
terrazza degli Emicicli, quella dei
Fornici, quella delle Fontane, quella
della Cortina erano altrettante
tappe del sacro itinerario. Sino alla
sommità, dove, sul culmine del colle,
si levava il tempio vero e proprio
della Fortuna Primigenia.
Era un luogo essenzialmente oracolare.
In una grotta naturale ai primi
livelli della salita, all’estremità della
parete addossata al suolo, è stato
trovato uno spazio impreziosito di
colonne scanalate e con i resti di un
pavimento musivo. È l’Antro delle
Sorti, in cui l’oracolo emetteva i
suoi responsi. Questi, altre volte,
secondo Cicerone, venivano ottenuti,
per così dire, alla maniera nordica,
interpretando le sortes, lettere
incise su pezzetti di legno che venivano
estratte dalla roccia e interpretate.
E il sacello costruito sul
luogo in cui si operò questo oracolo
era ritenuto particolarmente sacro.
Poco distante, dietro l’abside del
Duomo attuale, là dove un tempo
sorgeva la basilica di epoca repubblicana,
ecco comparire l’aula absidata,
anch’essa in parte scavata neldi
la roccia e dotata di ricca decorazione
architettonica. Qui fu rinvenuto
il famoso mosaico detto del
Nilo, risalente all’80 avanti Cristo,
che oggi si conserva al Museo.
Questo capolavoro contiene una
specie di mappa geografica dell’Egitto
e un vero bestiario esotico.
Ma, ciò che più interessa, è che è
stato messo in relazione con le
mutazioni della Fortuna e con il
viaggio fatto da Alessandro Magno
in Egitto, quando rese onore a Giove
Ammone.
Una presenza, questa di Giove, che
era anche a Praeneste sin dagli inizi,
dato che - secondo Tito Livio -
Cincinnato, che conquistò la città
alla fine del IV secolo, portò a
Roma come preda di guerra proprio
una statua di Giove Vincitore, posizionandola
sul Campidoglio.
Il culto alla Fortuna è uno dei più
antichi su suolo italiano. In esso si
intrecciavano motivi legati sia alla
fertilità che alle potenze oracolari.
Esiste la prova che nel santuario
prenestino il culto ufficiale alla Fortuna
era gestito dai patres e dai
sacerdoti virili, mentre quello femminile
legato alla fecondità era
appannaggio di collegi di matres.
Questa duplice vocazione del tempio
è stata riconosciuta dagli studiosi
come prova di un sincretismo
che, per la verità, era assai diffuso a
Roma.
Lo stesso abbinamento che è stato
fatto tra la Fortuna e Iside, cui in
epoca ellenistica anche a Praeneste
veniva reso onore, non è che un’ennesima
riprova della capacità pagana
di unificare in concetti organici
anche ispirazioni diverse. Le fonti
antiche affermano che esistevano
due statue della Dea Fortuna: una
bronzo dorato e una di marmo bianco,
nella posa di allattare Giove
Giunone bambini. La presenza
Giove all’interno di un tempio dedicato
alla Fortuna non sembra essere,
dunque, una contraddizione tra
significati della sovranità e quelli
della maternità. Anzi, era proprio
luoghi come questo che nell’antichità
si intendeva celebrare ad un
tempo tanto il potere sovrano che
l’origine della vita, fondendo in un
unico culto la gerarchia uranica della
potenza e quella
tellurica della
genealogia.
Alla celebre iconografia
della Fortuna
recante la cornucopia
dell’abbondanza
si affianca quella,
che era ricorrente
specialmente sulle
monete, di una
duplice Dea: una
vestita con la corona
sul capo, l’altra
seno nudo con un
elmo sulla testa. Del
resto, sulla più alta terrazza,
là dove, secondo
Cicerone, l’olivo avrebbe
secerto miracolosamente
del miele, si trovava
la statua guerriera
della Fortuna, posta ad
un gradino più elevato
di quella materna del
santuario situato
livello inferiore.
Rappresentazione ben
chiara che questo santuario
riuniva in sé tutti
valori principali della vita,
celebrando alla maniera pagana
e in modo uniforme tanto la virilità
quanto la femminilità. Alcuni studiosi
hanno poi rimarcato l’importanza
della Dea Fortuna nell’ambito
delle credenze italico-
latine più arcaiche,
sottolineando
come i loro più profondi
attributi fossero
quelli legati al primordiale
potere di assicurare
la fecondità e
riproduzione della
discendenza. La speciale
tutela sulla nascita
e sulle sue arcane
provenienze era l’aspetto
principale, assicurato
dal dettaglio
rivelatore che la Dea
Fortuna la si diceva
avere potere di protezione
sul corpo e,
particolare, sugli organi
genitali.
Una divinità della
genealogia, della trasmissione del
sangue, della nascita? È proprio
questo che deve intendersi sotto
denominazione di Fortuna Primigenia,
intimamente legata, in altre
parole, al concetto di “buona nascita
originaria”. Questa era, dunque,
per i nostri antichi padri la vera
“fortuna primigenia”: avere buona
razza, essere di ceppo sano e legato
all’origine.
È tra le pieghe di monumenti e
luoghi che fanno parte del nostro
panorama quotidiano, e dei quali,
solito, trascuriamo di ricordare i più
profondi significati, che si nascondono
alcune verità essenziali della
nostra civiltà. Per dire, andare oggi
a Palestrina a visitare il tempio della
Dea Fortuna significa inevitabilmente
ammirare il palazzo della
famosa famiglia papalina dei
Colonna-Barberini, costruito nella
zona più alta dell’antico santuario
che come un cuculo si è posato sul
nido di una religione più antica
diversa, occultandone oggi l’intimo
senso. Ma i simboli parlano, a chi
sa intenderli, anche se offuscati dalle
manomissioni e dalla dimenticanza.