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India: fra tradizione e modernità

di Stefano Vernole - 31/10/2006



Analogamente all’Europa, il subcontinente indiano è parte dell’enorme massa eurasiatica dalla quale si protende, ma se ne differenzia per le inaccessibili catene montuose che lo hanno isolato dall’Asia centrale, escludendolo dai flussi di merci e persone che nel corso dei secoli hanno attraversato le steppe.
Nonostante l’insormontabile barriera rappresentata da questa ininterrotta catena di montagne – Pamir e Karakoram fino al cuore dell’Himalaya, l’India ebbe continui contatti con i suoi vicini, specie verso ovest dove era facilmente raggiungibile l’altopiano afgano.
Dopo gli stretti rapporti commerciali con la Mesopotamia (fra il 2000 e il 1500 a.c. con la “civiltà di Harappa o dell’Indo”), intorno al 1000 a.c. popolazioni provenienti dall’Asia centrale invasero il subcontinente indiano portandovi la lingua indoeuropea, diffusasi in seguito anche in Europa.
Più tardi, all’epoca di Alessandro Magno, i Greci seguiti dai Saci, dagli Sciti, dagli Unni dell’Asia centrale poi da Turchi, Mongoli e Afghani conquistarono il nord-ovest del paese e vi si stanziarono, mentre dall’India si verificarono movimenti migratori verso l’Asia centrale, monaci e maestri buddisti diretti in Tibet e Cina, oltre che mercanti di beni di lusso.
I due bracci dell’Oceano Indiano, il golfo del Bengala e il mare Arabico delimitano i due restanti lati del triangolo indiano, conferendo alla regione uno spazio ben definito e una zona climatica particolare, quella dei monsoni.
Ogni estate i venti monsonici spazzano con violentissime piogge il subcontinente, la cui agricoltura dipende in maniera quasi totale da queste precipitazioni; le sue caratteristiche fisiche, rilievi montuosi e fiumi, dividono il paese in regioni ben distinte, facendone vere e proprie entità ecologiche, linguistiche e culturali.
La pianura gangetica è attraversata da fiumi che corrono paralleli all’Himalaya e confluiscono in unico bacino formando il sacro Gange, che da nord-ovest procede verso sud-est sfociando nel golfo del Bengala.
Fertile zona agricola, questa regione è chiamata Hindustan e fu il cuore degli imperi del nord e meta degli invasori provenienti da nord-ovest.
La pianura indogangetica che si estende per oltre 1600 chilometri comprende il Punjab, il ricco “doab” tra il Gange e lo Yamuna e più a est dove il Brahmaputra scende dal Tibet, la fertile e irrigata regione del Bengala, coltivata a risaie.
L’India settentrionale è separata da quella peninsulare, il Deccan, da basse catene montuose, fitte boscaglie e fiumi che scorrono verso ovest; le genti stanziate nel sud, che parlavano lingue appartenenti alla famiglia dravidica, svilupparono culture peculiari con caratteristiche ben distinte e Stati separati dal punto di vista territoriale e linguistico.
Malgrado queste differenze, già nel Medioevo quasi tutte le zone del subcontinente indiano presentavano elementi simili, riconducibili a quella che può essere definita “civiltà indiana”.

L’India pre-coloniale.

Nel 1700 gli abitanti dei territori governati dai Moghul erano circa 100 milioni, 5 volte i sudditi degli Ottomani e quasi 20 volte quelli dei Safavidi, mentre solo un secolo dopo l’impero rimase di nome ma non di fatto, circondato da potenze regionali in conflitto tra loro.
L’imperatore Moghul, ormai ridotto a un simbolo privo di potere, confinato nella zona di Delhi alla mercè di Afghani e Maratti del Deccan occidentale, venne posto sotto il controllo di quella compagnia inglese che agli inizi dell’Ottocento aveva deciso di realizzare i propri sogni di conquista.
Prima del colonialismo sia l’epoca sultaniale sia il regno moghul accelerarono i modelli di cambiamento già esistenti, espansero la frontiera agricola e le rotte commerciali, introdussero gradualmente le innovazioni tecnologiche, svilupparono le istituzioni politiche e religiose.
Appare inoltre fuorviante una certa storiografia che considerò i musulmani indiani come stranieri, poiché nei modelli statali creati dai primi sultanati le istituzioni politiche e culturali islamiche si evolsero interagendo con quelle locali (la capitale venne spostata da Lahore da Delhi).
Dal XIII alla fine del XIV secolo il Nord del paese rimase dominato da una serie di regni turco-afgani, il cui insieme viene in genere chiamato sultanato di Delhi – che periodicamente compirono incursioni nelle regioni meridionali.
Pur essendo invasori, Turchi e Afghani avevano modelli comportamentali familiari ai loro nemici; le istituzioni militari ed economiche tipiche di queste dinastie non furono specificamente islamiche, anche perché i sultani, più che come guide religiose, giunsero al potere attraverso le doti militari e la grande capacità organizzativa-governativa.
A partire dal 1206, anno di fondazione della prima dinastia turca di Delhi da parte del mamelucco Aibak, per oltre 600 anni la lingua dell’élite musulmana fu il persiano.
I sudditi non musulmani vennero chiamati “zimmi”, cioè “gente protetta”, in quanto poterono conservare le proprie tradizioni e leggi, furono soggetti al pagamento di un’imposta ma non alla coscrizione militare.
Le ambizioni dei sultani così come quelle dei Moghul loro successori si rivolsero soprattutto all’estensione dei propri domini e non alla conversione dei sudditi all’Islam.
La mancanza di un progetto sistematico in questo senso è dimostrata dal fatto che la popolazione musulmana dell’India di solito non risiedette nelle zone chiave della loro dominazione (all’epoca dei primi censimenti, introdotti dagli Inglesi nel XIX secolo, i musulmani costituivano circa ¼ dell’intera popolazione).
Tra il XV e il XVI secolo il sultanato si disgregò in una serie di regni regionali: Gujarat, Jaunpur, Delhi e Bengala, mentre a causa delle incursioni dei vari sultani nel Deccan e nell’India peninsulare si formarono nuovi regni.
Nel 1526 la dinastia musulmana di etnia afgana, Lodi, fu sconfitta a Parripat dal mongolo Muhammad Babur, discendente da Tamerlano e Gengis Khan, il quale regnò per soli 4 anni.
Grazie a questo monarca e soprattutto per merito di uno dei suoi discendenti, Akbar, ebbe inizio l’impero Moghul.
I confini, allargati da varie conquiste, giunsero a comprendere Kabul e il Kashmir a nord, il Bengala e l’Orissa a est, il Gujarat e parte del Deccan a sud, il Rajasthan a sud-ovest di Delhi.
L’élite dominante inglobò popoli provenienti dall’Asia centrale, Persiani, Arabi (che già nel 711 avevano conquistato il Sind e creato nuclei d’insediamento dediti al commercio lungo la costa del Malabar), Rajput e in seguito Maratti, una varietà etnica tenuta insieme dal lealismo espresso attraverso la cultura persianizzata nei confronti del sovrano, che rappresentava il vertice di una piramide gerarchica.
Oltre che da un’intensa fioritura culturale, il regno di Akbar si distinse per le riforme in campo amministrativo che diedero vita a un consolidato e duraturo sistema di governo.
Le cariche furono assegnate in base a due gerarchie parallele, una con responsabilità civili l’altra con competenze militari, in modo tale da creare un controllo reciproco a livello locale, provinciale e statale.
In cambio dei loro servizi ai nobili venne concesso il diritto di riscuotere le imposte sulla terra in suddivisioni territoriali (“jagir”) attribuite a rotazione, in modo tale che i beneficiari dei privilegi non divenissero una minaccia per l’autorità imperiale.
Tuttavia, anche un potere centralizzato come quello dei Moghul non riuscì a raggiungere ogni parte dell’impero e i funzionari di Akbar si trovarono spesso costretti a negoziare il versamento dell’imposta con l’aristocrazia terriera.
L’ultimo gradino della gerarchia imperiale rimase rappresentato dai contadini, i quali pur non proprietari di terre e impossibilitati a venderle, possedevano però il diritto ereditario di occuparle pagando le imposte statali.
Nel 1659 salì al trono Aurangzeb, che codificò il diritto musulmano e si attirò (fino ai giorni nostri) l’accusa di aver distrutto il pluralismo culturale e l’efficienza amministrativa dell’impero, in quanto i musulmani vennero privilegiati nell’assegnazione delle cariche.
Inoltre entrò in crisi il sistema di assimilare le nuove élites attraverso l’assegnazione di “jagir”, perché i costi esorbitanti delle sue campagne militari non consentirono più concessioni remunerative, in grado di soddisfare la crescente domanda di terre.
Alla sua morte furono soprattutto le rivendicazioni di aspiranti dinasti ad attribuire un nuovo significato ad antichi titoli che prima avevano avuto una connotazione puramente regionale o professionale, a partire dall’insurrezione maratta nel Deccan.
In ogni caso, le nuove forme di devozione vishnuita e shivaita si svilupparono proprio in questi secoli, a riprova che le conversioni all’Islam in India non furono né di massa né forzate.
Dopo la morte di Aurangzeb (1707), i principi (“zamindar”) dell’India settentrionale e centrale si sollevarono contro l’autorità imperiale e alcuni di loro riuscirono a formare comunità coese in grado di rappresentare una seria minaccia all’impero moghul, in particolare quelle dei Maratti (nel Deccan), dei Sikh (nel Punjab) e dei Jat (in Agra, sud-est di Delhi).
Altri principi, pur accettando formalmente l’autorità imperiale pagandole i tributi, esercitarono invece fattivamente il potere all’interno dei propri domini sfuggendo al controllo centrale (“sfida dei rajput”), mentre i governatori provinciali che l’imperatore aveva nominato quali amministratori di zone con cui non aveva nessun tipo di legame iniziarono ad agire in modo autonomo.
L’episodio che scosse profondamente la stabilità dell’impero moghul fu l’attacco nel 1739 del persiano Nadir Sha, promotore dell’ascesa dell’Afghanistan, regione entrata nella sfera delle fiorenti reti commerciali a causa dell’espansione russa e cinese.

L’ingerenza britannica

Il XVIII secolo può essere caratterizzato dalla creazione di un’unica figura, quella dell’appaltatore d’imposta che si assunse la responsabilità per un dato territorio, impegnandosi a pagare allo Stato per un certo numero di anni una somma prefissata e accollandosi le spese per la raccolta dei tributi (ma rivendicando per sé l’intero surplus).
Così com’era già avvenuto in Europa, il reclutamento di forze di fanteria molto più efficienti e disciplinate della cavalleria moghul, comportò un forte esborso e costrinse i monarchi ad adottare nuove strategie fiscali, ricorrendo in particolare a banchieri, commercianti e intermediari nell’esazione fiscale.
Dopo la fondazione nel 1600 della Compagnia delle Indie Orientali, gli Inglesi scelsero l’India come base delle loro attività commerciali; i Moghul li accolsero di buon grado alfine di compensare la partenza dei Portoghesi e degli Olandesi, lo stesso fecero i mercanti indiani.
Nonostante il divieto di fortificare le sue basi, la Compagnia cercò di attuare una difesa armata delle sue postazioni di Surat e Shivaji ma nel 1686 venne sconfitta duramente dai Moghul; il loro declino all’inizio del 1700 permise comunque ai britannici di assicurarsi tre grandi “presidenze”, a Madras, Bombay e Calcutta.
Queste ultime funsero da trampolino di lancio per l’espansione verso l’interno, dove gli Inglesi si dovettero confrontare almeno nei primi decenni del XVIII secolo con Olandesi, Danesi e soprattutto Francesi (i quali s’insediarono a Pondicherry dove rimasero fino al 1950).
Grazie al possesso del Bengala nel 1757 (era la provincia più ricca) e alla vittoria contro i Moghul a Buxar nel 1764, Londra divenne padrona dell’India orientale e si assicurò il “diwani” tramite editto dell’imperatore, cioè il diritto alla riscossione delle imposte nelle province del Bengala, del Bihar e dell’Orissa.
A Warren Hastings, in carica dal 1772 al 1785, si attribuì il merito di aver posto le basi del sistema politico del “raj” britannico in India, sistema che venne poi consolidato dal suo successore Lord Cornwallis (1785-1793).
I “Regulating Acts” cercarono di porre la Compagnia sotto il controllo della Corona e la creazione del comitato di controllo nel 1783 inserì il suo presidente nel gabinetto britannico.
L’ordinamento giuridico voluto da Hastings si basò su due convinzioni fondamentali; la prima che in India esistesse un corpo fisso di leggi nel corso del tempo corrotto da aggiunte e interpretazioni, le quali andavano semplicemente ripristinate nei loro testi originari, la seconda che esistessero codici distinti e separati per indù e musulmani, considerati due comunità distinte con propri costumi, usanze e tradizione scritta.
La decisione di ricercare un corpo fisso di leggi privilegiò inevitabilmente i testi britannici rispetto alle usanze locali, diverse a seconda della casta e della regione.
Un’altra riforma significativa venne attuata da Lord Wellesley (1798-1805), che nel 1802 fondò una scuola a Calcutta per insegnare le lingue locali ai funzionari di nomina recente; sul suo esempio, gli amministratori della Compagnia fecero lo stesso a Haileybury, in Inghilterra, dove gli impiegati in erba trascorrevano un paio d’anni acquisendo un’istruzione di base prima di partire alla volta dell’India.
Si formò così l’Indian Civile Service (ICS), ossatura dell’amministrazione indiana, alla quale si decise di affiancare un’efficiente struttura militare; per il reclutamento nell’esercito Hastings si rivolse agli indù di casta elevata (rajput e brahmani), preoccupandosi di tutelarne le divisioni anche religiose ma esponendosi ad ammutinamenti tutte le volte che i sepoy ritenevano lesi i loro diritti.
Questi ultimi erano una forza mercenaria, la cui lealtà poteva essere assicurata sia da una paga regolare sia dall’orgoglio di appartenere a un reggimento dalla grande disciplina.
Nonostante una certa separazione “fisica” determinata dal razzismo biologico britannico, a poco a poco si determinò una certa intimità tra Inglesi ed Indiani (specie a causa dei rapporti con le prostitute); col passare del tempo i meticci formarono una comunità a sé stante perché disprezzata da entrambi e la riforma dei costumi voluta da Cornwallis fu accompagnata dalla separazione razziale, inasprita dall’arroganza dei coloni di Londra e dalla diffusione della religione evangelica, basata su un liberalismo di stampo moraleggiante.
Le ulteriori annessioni territoriali furono il risultato del sistema di alleanze sussidiarie varato in precedenza, che consentiva alla Compagnia di dislocare le proprie truppe negli Stati indiani contraenti per difendere il Bengala da eventuali attacchi.
Questo tipo di accordo prevedeva che il principe ricevesse protezione dai suoi nemici esterni e interni, si assumesse il costo del mantenimento delle truppe e accettasse la presenza di un “residente” inglese alla propria corte, obbligo che lo portò a indebitarsi sempre più con i banchieri britannici.
Gli Stati indiani non potevano inoltre possedere un esercito indipendente né intrattenere relazioni diplomatiche tra di loro, mentre ai “residenti” era consentito intervenire in modo attivo nelle dispute di successione.

Un’occupazione coloniale

Inizialmente, la Compagnia si comportò come un’istituzione commerciale che acquistava tessuti in India per il mercato britannico e creava sbocchi in Cina per il cotone e l’oppio, ma finì presto per organizzare un’economia coloniale basata sull’importazione di manufatti e l’esportazione di materie prime.
Un ruolo fondamentale lo ebbe l’introduzione della proprietà privata della terra (1793), che consentì agli “zamindar” di ottenere la piena proprietà sulle loro terre, mentre i contadini vennero ridotti al rango di fittavoli privi di diritti.
Spesso, però, lo stesso “zamindar”, faticando a soddisfare le esose richieste britanniche, venne costretto a vendere la terra, al punto che nei primi decenni del 1800 gli Inglesi abbandonarono l’idea dell’imposta fissa e si riservarono il diritto di rivedere l’ammontare del prelievo fiscale ogni 20 o 30 anni, in tutto il paese tranne che nel Bengala.
Questo sistema generò un diffuso malcontento fino a sfociare nella famosa ribellione del 1857, considerata l’evento spartiacque che segnò la nascita dell’India moderna.
Collegandola alla questione dell’imposta terriera, il dominio britannico adottò la decisione di rendere sedentaria la popolazione indiana, perciò i gruppi che conducevano vita nomade vennero stigmatizzati come criminali; tale clima fu alla base della campagna contro i thagi, da cui derivò il termine inglese “thug”, una setta segreta devota alla dea Kali che praticava l’omicidio rituale mediante strangolamento.
Dal 1828 al 1835 il governatore generale Lord Bentinck avviò una politica riformista e nel 1829 abolì la “sati”, l’immolazione delle vedove sulle pire funerarie dei mariti.
La “sati” in realtà non era così diffusa e in tutto il Bengala si contavano al massimo 800 casi all’anno, ma i liberali inglesi decisero per l’abolizione di questa pratica che più si confaceva al loro impulso riformista, chiudendo invece un occhio su pratiche ben più diffuse quali ad esempio l’infanticidio delle femmine praticato dai “rajput” nell’India del Nord, la cui proibizione avrebbe potuto scatenare una rivolta.
Nel 1839, grazie alla morte di Ranjit Singh che vi aveva creato uno Stato fiorente e un forte esercito, Londra tentò finalmente la conquista del Punjab; la regione del Basso Indo era attraente sia per i traffici lungo il fiume, via diretta verso l’Asia centrale, sia per l’accesso all’Afghanistan.
Gli Inglesi miravano a fare di quest’ultimo uno Stato cuscinetto alfine di contrastare la crescente avanzata russa in direzione dell’Hindukush, ma dopo una sconfitta cocente furono costretti a ripiegare sul Punjab che venne infine conquistato nel 1850 (nel 1842 i britannici occuparono invece il Sind).
Tra coloro che cercarono di sfruttare la situazione appoggiando gli Inglesi bisogna segnalare il raja indù Gulab Singh, che ricevette in cambio il lussureggiante regno montano del Kashmir, la cui popolazione era però per la stragrande maggioranza di religione islamica.
Il colonialismo britannico pose le basi dello Stato moderno, promovendo principi quali l’unificazione della sovranità, il controllo della popolazione, la creazione di una classe colta di cittadini … mentre i cimiteri municipali, la letteratura inglese come materia scolastica, gli istituti di indagine statistica nacquero addirittura prima in India che in Inghilterra.
Ma fu soprattutto l’economia delle due nazioni ad essere caratterizzata da una crescente interdipendenza, favorita sia dallo sviluppo ferroviario sia da quello del servizio postale e telegrafico.
Il casus belli della rivolta del 1857 viene unanimemente riconosciuto nell’ammutinamento dei Sepoy, i quali si sentirono umiliati dopo il loro rifiuto di strappare con i denti l’estremità delle cartucce trattate con grasso di vacca o maiale.
Dal nord del paese, l’insurrezione si propagò presto all’India centrale ma non vi fu mai una strategia coerente per scacciare gli Inglesi e mancò un’ideologia unificante.
Molti indiani rimasero comunque fedeli a Londra, ad esempio i soldati del Punjab, di Bombay e di Madras, ma ancor più coloro che avevano ricevuto un’educazione occidentale e i vari principi rimasti sul trono.
La repressione inglese fu di tale ferocia che Lord Canning dovette proclamare la “Clemency Proclamation”, mentre il Parlamento britannico diede vita al Government of India Act, con il quale tutti i diritti della Compagnia delle Indie Orientali furono trasferiti alla Corona, le revisioni ventennali dello statuto affidate al controllo del Parlamento britannico rappresentato dal Segretario di Stato per l’India, l’affidamento della suprema autorità coloniale alla figura del viceré.
A quest’ultimo si decise di affiancare un consiglio esecutivo nel quale entrarono 12 nuovi membri, metà dei quali non funzionari coloniali, spesso aristocratici indiani accuratamente selezionati.
La paura e il razzismo emersi al tempo della rivolta del 1857 presero forma visibile allorché gli Inglesi iniziarono a crearsi propri spazi separati, le “civil lines”, gli acquartieramenti per le truppe e le stazioni montane.
Le “civil lines” racchiusero tutti gli edifici attorno ai quali ruotava la società coloniale europea, gli uffici governativi, il club, il campo da polo, la chiesa, le attività commerciali, mentre tutta la vita sociale rimase modellata sugli usi e costumi della classe elevata e riservata agli europei.
Nel 1871 venne effettuato il primo censimento, accompagnato da alcune disposizioni tese a limitare la libertà di stampa; in base ad esse, riviste e giornali dovettero essere registrati e la pubblicazione di libri ed opuscoli approvata dal governo.
Il censimento fu importante per la creazione di una coscienza di gruppo; molte caste esistenti o emergenti, desiderando raggiungere una condizione più elevata nelle liste anagrafiche, fondarono associazioni chiamate “sabha”, i cui membri accettarono di conformarsi a determinati comportamenti sociali magari accreditandosi come appartenenti a una casta più elevata.
Agli inizi del XX secolo l’India divenne il cuore del sistema imperiale britannico e fornì forza lavoro a contratto per tutte le colonie inglesi, dalla Giamaica fino all’Uganda, così come l’Indian National Army, a spese del contribuente indiano, si trovò dislocato in tutto il mondo dalla Cina fino al Medio Oriente, per proteggere le rotte commerciali e gli interessi della Corona d’Inghilterra.

La società civile

Nel 1885, una settantina di Indiani che avevano ricevuto un’educazione britannica fondarono a Bombay il Congresso Nazionale Indiano, stabilendo il principio secondo il quale gli interessi personali, castali e comunitari dovevano essere subordinati alla nazione indiana.
Il suo programma iniziale vertette sulla richiesta di un maggiore coinvolgimento della popolazione indigena all’interno dei consigli legislativi e dell’Indian Civile Service, unitamente a una riduzione delle spese militari.
Trasformati i principi in grandi proprietari terrieri affinché si ponessero in difesa del “raji” britannico, gli Inglesi puntarono sulla leadership musulmana quale potenziale roccaforte della stabilità (anche se dopo la rivolta del 1857 proprio i musulmani erano stati i maggiori imputati a causa del loro forte coinvolgimento nella sollevazione), allo stesso tempo anche i sikh furono spronati a distinguersi dal resto della società.
Nel 1900 il varo di un provvedimento che equiparava l’hindi all’urdu quale lingua dei tribunali minori e dell’amministrazione, ebbe lo scopo di equiparare le comunità indù e musulmane e trasformare le due lingue in veri e propri simboli culturali.
Le divisioni religiose iniziarono a manifestarsi veementemente nell’ultimo decennio del 1800 e la questione riguardante la protezione delle vacche sacre trasformò la tensione tra le due comunità in una vera e propria agitazione popolare.
Altro motivo di contrasto giunse dalla riorganizzazione del Bengala operata da Lord Curzon, che decise di unirne la parte orientale alla regione dell’Assam, formando così una provincia di 31 milioni di abitanti e un’altra di quasi 50 milioni, costituita dal resto del Bengala, dal Bihar e dall’Orissa. La divisione fece sì che i musulmani divenissero maggioranza nel Bengala orientale, scatenando per tutta risposta una campagna di boicottaggio delle importazioni britanniche a favore dell’uso di prodotti locali.
I leader islamici, che inizialmente non avevano appoggiato la spartizione, di fronte alla retorica dei nazionalisti indù rafforzarono la loro presenza nell’India orientale, consentendo ai britannici di controbilanciare il potere indù nel Bengala.
Tra le varie riforme introdotte dall’India Councils Act (1909) vi fu l’introduzione di elettorati separati, nonché di seggi riservati ai musulmani nell’elezione dei consigli legislativi provinciali e centrali, ma il durbar imperiale di Delhi annunciò tre novità.
La presentazione di re Giorgio V ai sudditi indiani (1911) venne accompagnata dalla decisione di spostare la capitale da Calcutta a Delhi, di riunire Bengala occidentale ed orientale, di elevare il Bengala a governatorato insieme a Bombay e Madras, provvedimenti che accontentarono il Congresso e lasciarono molti dubbi ai leader musulmani.
Nell’agosto del 1914 la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania, trascinando con sé tutto l’impero; in India tutti i partiti sostennero la madrepatria, nella speranza di ottenere quell’autodeterminazione per cui gli Alleati, a parole, dichiaravano di combattere, eccezion fatta per alcuni esponenti musulmani che collaborarono con Turchi e Tedeschi per fomentare disordini lungo la frontiera afgana e finirono arrestati.
Nel 1915 e 1916 il Congresso e la Lega musulmana tennero riunioni congiunte che sfociarono nel “Patto di Lucknow”, il quale prevedeva maggioranze elette in tutti i consigli, un ulteriore estensione del diritto di voto, elettorati separati per i musulmani, la garanzia di una rappresentanza minima per la comunità che si trovasse in minoranza in una data provincia.
Le proteste di Gandhi (rientrato nel 1915 dal Sudafrica) e del Comitato panindiano per il Califfato (Khilafat) furono però represse brutalmente dal potere britannico, in particolare col massacro di Amritsar del 1919 (400 morti e oltre 1000 feriti).

La crisi dell’ordine coloniale

Nella propria terra natale, il Gujarat, Gandhi riuscì a costruire quell’alleanza tra mercanti, professionisti e agricoltori che diede un fortissimo sostegno al suo attivismo morale, sociale e politico; al di fuori di questa regione, il nazionalismo indiano si diffuse soprattutto nella zona centrale della piana gangetica, Bihar e Province Unite, dove il Mohatma seppe attirare i professionisti, i mercanti e i contadini più agiati.
Accanto a Gandhi, il giovane Jawaharlal Nehru guardò invece alla Russia socialista come modello di sviluppo economico.
Malgrado gli anni compresi tra il 1916 e il 1922 fossero contraddistinti da un forte clima di armonia e collaborazione, Congresso e Khilafat continuarono a mantenere la visione dell’India quale paese formato da due comunità separate, l’indù e la musulmana, ciascuna con leggi, tribunali e sistemi scolastici propri.
Quando nel 1924 abolì il califfato turco, Ataturk eliminò paradossalmente anche il collante tra le due comunità religiose, che finirono per sviluppare le proprie ambizioni particolari facendosi attrarre dalle promesse britanniche.
Dopo la prima campagna di non collaborazione tra il 1920 e il 1922, conclusasi con l’arresto di Gandhi, nel 1928 il “rapporto Nehru” chiese inutilmente l’immediata concessione dell’autogoverno e finì per allargare la spaccatura tra indù e musulmani, in quanto la sua proposta delineava un’India federale con un forte potere centrale e nessun seggio per la comunità islamica nell’assemblea legislativa centrale.
Nel 1930 la “marcia del sale” ingigantì l’immagine di Gandhi a livello mondiale e favorì la diffusione del suo movimento di non cooperazione in tutto il paese, compreso il sud abitato dai Tamil; la repressione inglese comportò 40.000 arresti tra i disobbedienti.
Dal punto di vista legislativo, invece, il Government of India Act del 1935 trasformò l’India in una federazione con un governo centrale e ministri responsabili di fronte alle proprie assemblee provinciali, le quali ricevettero competenze in tutti i settori, contemporaneamente esso allargò il diritto di voto.
L’esperienza di collaborazione con i governatori provinciali britannici, successiva al trionfo elettorale del 1937, consentì un’esperienza importante ai membri del Congresso nella pratica governativa, mentre la nuova politica tariffaria protezionista diede avvio a un processo che liberò l’economia indiana dal dominio europeo, creando un modello autarchico che sopravvisse fino agli anni Ottanta.
Scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, il viceré Lord Linlithgow, annunciò che l’India entrava in guerra a fianco della Gran Bretagna contro la Germania: per protesta i ministri del Congresso nelle varie province decisero di dimettersi.
Quasi contemporaneamente, nel marzo 1940, la Lega musulmana riunita nella sua assemblea annuale di Lahore approvò la “mozione Pakistan”; ne seguirono una lunga serie di negoziati e atti di disobbedienza civile che culminarono nella rivolta dell’agosto 1942, mentre i britannici nello sfruttamento dell’India divennero debitori nei suoi confronti per oltre 1 miliardo di sterline.
Di fronte all’impasse, il Congresso votò nel 1942 la deliberazione “Abbandonate l’India”, che si risolse in un’esplosione di violenza incontrollata guidata da leader minori e singoli attivisti e nell’arresto immediato della sua leadership.
Nonostante l’impressionante partecipazione popolare, il movimento di resistenza non portò all’espulsione degli Inglesi ma scatenò una repressione estrema, facendo comunque emergere figure eroiche quali Narayan, che mise in piedi un governo provvisorio al confine con il Nepal.
Il disperato bisogno di reclutamento spinse i britannici ad arruolare quasi due milioni di unità e per la prima volta ufficiali indiani si trovarono ad occupare posizioni di comando, così nel 1945 l’India si trovò a disporre di un esercito nazionale pronto a guidare la nazione verso l’indipendenza.
Inoltre, dopo la caduta di Singapore (1942), i Giapponesi inquadrarono molti indiani fatti prigionieri nell’Indian National Army (INA) sotto il comando di Chandra Bose, simpatizzante del fascismo; questo esercito ebbe forte importanza sul piano morale perché contribuì a risvegliare l’orgoglio degli Indiani e la sua saga romantica contribuì a fare di Bose una delle figure più amate dal Paese.

L’India indipendente


Le elezioni tenutesi nel 1945-1946 ridussero la scena politica al Congresso e alla Lega musulmana, ora più che mai contrapposti.
La strategia del leader della Lega, Jinnah, finalizzata al siluramento degli unionisti, si articolò su due fronti: da un lato egli approfittò della rivalità esistente tra i gruppi di proprietari terrieri che formavano il partito, dall’altro fece appello direttamente al voto dei contadini ai quali propose la visione di uno Stato fondato su un lealismo religioso profondamente radicato.
Pakistan (“Stato dei puri”) divenne perciò sinonimo di un ordine politico islamico ideale, in cui la realizzazione di uno stile di vita musulmano si sarebbe fuso con la tradizionale autorità dello Stato.
La proposta di una federazione avanzata dai britannici e approvata da Jinnah nel 1946 si scontrò però con il rifiuto di Nehru, in quanto essa avrebbe comportato il controllo musulmano in regioni strategiche quali il Punjab e il Bengala; il capo del Congresso preferì un Pakistan totalmente indipendente rispetto a un India unitaria ostacolata nelle sue funzioni da province con troppi poteri e da interessi locali latifondistici di cui la Lega musulmana venne ritenuta rappresentante.
Il grande massacro di Calcutta, dal 16 al 20 agosto 1946, lasciò sul terreno circa 4.000 morti di entrambe le comunità, infiammò gli animi e fu il preludio all’incredibile mattanza del Punjab, dove vennero coinvolti anche i Sikh, circa il 13% della regione.
Inviato da Attlee, Lord Mountbatten anticipò la devoluzione dei poteri al 15 agosto 1947, quando Nehru annunciò l’indipendenza dell’India, ma gli scontri nel Punjab costarono la vita a centinaia di migliaia di persone e il terrore contribuì a rafforzare il lealismo nei confronti dello Stato di appartenenza.
Circa 5 milioni di Indù e Sikh si spostarono dal Punjab occidentale in India, mentre 5 milioni e mezzo di musulmani presero la direzione opposta; una situazione simile si verificò anche tra il Bengala occidentale (sotto controllo indiano) e quello orientale (sotto sovranità pakistana) ma in dimensione più ridotta e in forma meno cruenta.
Grazie a una politica di minacce e intimidazioni, unita all’offerta di rendite, il ministro degli Interni Patel convinse quasi tutti i principi ad aderire all’Unione Indiana; l’Hyderabad, governato da un nizam musulmano optò per l’indipendenza e venne schiacciato dall’esercito, che distrusse in questo modo l’unico luogo del Deccan in cui si patrocinavano la cultura e gli studi islamici.
Il maharaja del Kashmir, incerto sul da farsi, subì l’invasione di milizie irregolari pakistane e decise nell’ottobre 1947 di aderire all’India scatenando un conflitto tutt’oggi irrisolto, trattandosi di una regione a grande maggioranza musulmana.
Il Pakistan si assicurò una parte del Kashmir occidentale, insieme alle regioni del Gilgit e del Baltistan, ma non riuscì mai ad impadronirsi della fiorente valle di Srinagar, che costituisce il cuore dello Stato; l’ONU mediò un cessate il fuoco e inviò un contingente di osservatori internazionali tuttora presenti.
Nehru accettò nel 1947 la proposta di un referendum con cui la popolazione del Kashmir avrebbe deciso in merito al proprio futuro ma il plebiscito non ebbe mai luogo perché secondo l’India, il rifiuto del Pakistan di ritirare i suoi soldati dalla zona contesa, invalidava le condizioni di base previste per la consultazione.
Il Mahatma Gandhi, sostenitore di un’India unita nella quale Jinnah sarebbe dovuto divenire Primo Ministro, obbligò il governo di Nuova Delhi a cedere al Pakistan la sua parte di disponibilità liquide, circa 40 milioni di sterline trattenute a dispetto degli accordi, finendo assassinato da un fanatico indù mentre si recava a una riunione di preghiera nella capitale (30 gennaio 1948).
I nazionalisti indù divergevano dal Congresso su alcune questioni; essi volevano che la lingua fosse un hindi “sanscritizzato”, scritto in alfabeto devanagari, mentre Gandhi propendeva per l’adozione dell’indostano, dialetto dell’India settentrionale e più adatto ad unire i vari popoli.
In particolare, l’Associazione dei volontari della nazione (RSS), aveva una struttura disciplinata, gerarchica e paramilitare ed era connotata da un carattere fortemente antislamico e antipakistano, ma dopo l’assassinio di Gandhi venne messa fuori legge: solo alla fine degli anni Settanta la destra indù riuscì a riorganizzarsi e a pesare politicamente.

L’India contemporanea

La Costituzione dell’India, approvata il 26 gennaio 1950, troncò per sempre i suoi legami con la Corona britannica, anche se la nazione rimase nell’ambito del Commonwealth.
Essa introdusse un sistema simile a quello di Westminster, con un Parlamento bicamerale e un Primo Ministro (Nehru) nominato dal partito di maggioranza nella Camera Bassa, la “Casa del Popolo”, mentre al presidente toccò la funzione puramente rappresentativa di Capo dello Stato.
I vecchi elettorati separati dell’epoca coloniale furono aboliti e sostituiti con il sistema uninominale aperto a tutti, anche se 200 articoli del Government of India Act finirono per essere incorporati, così come rimasero la struttura federale e quella del Indian Civile Service, ribattezzato Indian Administration Service; una novità fu l’introduzione della Corte Suprema, dotata del potere di rivedere le leggi.
Tutti i partiti concordarono che la nuova India dovesse essere un paese democratico con suffragio universale, libertà di stampa e di parola, decisero perciò l’abolizione dello status di “intoccabile” e della “dote”, garantirono alle donne il diritto di voto, di divorzio e la possibilità di ereditare la proprietà.
Il partito del Congresso adottò i principi del laicismo e del socialismo, scelse quali simboli centrali della bandiera e della moneta nazionale la ruota e il leone del capitello del re buddista Asoka, invece di immagini indù, cercò di tutelare le varie tradizioni religiose e promosse la convivenza di sistemi scolastici e legislativi separati.
Dal 1950 al 1964 Nehru rimase il leader incontrastato dell’India; nel 1956 egli diede vita alla riorganizzazione amministrativa della nazione, dividendola su basi linguistiche e ristrutturandola in 14 Stati, con 6 territori dipendenti direttamente da Delhi; nel 1966, il governo centrale dovette concedere però la nascita di tre nuovi Stati, il Punjab (su spinta sikh), l’Haryana e l’Himachal Pradesh (su spinta indù).
A livello territoriale è interessante segnalare che mentre la Francia restituì all’India il territorio di Pondicherry, il Portogallo rifiutò di cedere Goa e Nehru dovette riprenderla con un intervento militare (1959)
Dal punto di vista economico, il Congresso promosse la visione di una Stato basato sul modello socialista, secondo il quale “i principali mezzi di produzione sarebbero appartenuti o posti sotto il controllo di tutta la società”.
Il primo piano quinquennale (1951-1956) fu incentrato sull’agricoltura, il secondo (1956-1961) sullo sviluppo industriale; in base ad essi, si sarebbe voluto abolire il latifondo e porre sotto il controllo del governo i settori trainanti, quelli dell’industria ferroviaria, aerea ed energetica.
Questo decennio di sviluppo pianificato fece uscire l’India dal ristagno economico ma troppi fondi risultarono dirottati sull’industria a scapito della produzione agricola, l’insistenza sull’autosufficienza fece lievitare i prezzi dei prodotti di consumo e mantenne in vita beni non aggiornati.

La politica estera indiana e il ciclo di Indira Gandhi

Nehru decise per una politica di non allineamento, il cui maggiore successo rimase la conferenza di Bandung (1955), scelta che dovette rivedere dopo l’invasione del Tibet da parte della Cina (1959).
Nel 1962, dopo varie dispute di frontiera, i cinesi invasero l’India dilagando nelle pianure dell’Assam e dopo essersi ritirati oltre l’Himalaya orientale presero possesso della regione contesa dell’Aksai Chin, a nord del Kashmir.
L’umiliante sconfitta di Nuova Delhi generò inoltre una forte intesa tra Cina e Pakistan, la cui risposta si concretizzò per un breve periodo in un avvicinamento tra India e Stati Uniti.
Nel 1965 scoppiò invece la crisi linguistica: nel 1950 l’Assemblea costituente aveva infatti stabilito che l’hindi scritto in alfabeto devanagari dovesse divenire la lingua ufficiale e per agevolare la transizione dall’inglese si calcolò un periodo di 15 anni (1965, appunto).
L’hindi era però la lingua madre di meno della metà della popolazione indiana e si parlava quasi esclusivamente nella parte settentrionale del paese; di fronte alle massicce proteste di quell’anno, si dovette raggiungere un compromesso, in base al quale l’inglese rimase quale lingua associata, soprattutto per le comunicazioni interstatali.
Sempre nel 1965, a causa del rifiuto indiano di tenere un referendum in Kashmir, il Pakistan esercitò pressioni militari lungo il confine meridionale con l’India e dopo l’infiltrazione di unità di guerriglieri decise d’inviare truppe regolari nella zona sotto il controllo di Nuova Delhi.
L’India fece allora avanzare i carri armati fino alla periferia di Lahore e dopo tre settimane di combattimenti l’Unione Sovietica riuscì a far sottoscrivere un accordo a Taskent (1966), in base al quale i due paesi ristabilirono lo status quo precedente il conflitto.
Dopo l’improvvisa morte di Shastri, l’incarico di Primo Ministro toccò a Indira Gandhi, figlia unica di Nehru (1966), la quale lanciò la cd. “Rivoluzione verde” con un incremento della produzione agricola del 26%.
Prese le distanze dall’ala più conservatrice del suo movimento, la nuova premier fondò un proprio Partito del Congresso, attraverso il quale mise in pratica alcune idee di “sinistra”, nazionalizzando le banche più importanti e concludendo alleanze con il DMK Tamil e il Partito Comunista, che le consentirono di rimanere in carica.
Nel 1971 Indira Gandhi fece appello direttamente al popolo e con lo slogan “eliminiamo la povertà” ottenne un importante successo elettorale; grazie ad esso, riuscì a far approvare un emendamento costituzionale che limitò il diritto alla proprietà, poi abolì le rendite di Stato, nazionalizzò le compagnie di assicurazione e le miniere di carbone, segnò un’alleanza con l’Unione Sovietica che mise fine ai rapporti con gli Stati Uniti, deterioratisi dopo i forti aiuti militari di Washington a Islamabad.
Lo stesso anno, con la tumultuosa nascita del Bangladesh (Bengala orientale), l’India prese prigionieri 100.000 soldati pakistani ed emerse quale nazione egemone del subcontinente.
Nel 1975, però, la Corte Suprema decise d’invalidare l’elezione della Gandhi, a causa di irregolarità da lei commesse durante la campagna elettorale del 1971; il Primo Ministro, invece di dimettersi, proclamò lo stato di emergenza (previsto nella Costituzione) e sospese tutte le libertà civili, censurò la stampa, vietò i partiti di opposizione, gettò in carcere decine di migliaia di oppositori.
Ricorrendo a una propaganda che a molti ricordò quella del regime fascista italiano, Indira cercò di spronare la nazione invitando il suo popolo alla disciplina e al duro lavoro ma non fu in grado di debellare la decennale povertà del Paese.
Due provvedimenti, in particolare, la resero impopolare: il risanamento urbano, che a Delhi comportò la demolizione di baracche, negozi e quartieri residenziali, il controllo delle nascite, basato sulla sterilizzazione maschile per chi avesse più di due bambini; dalle elezioni del 1977 uscì così vincitrice l’opposizione, unita nel Janata Party (“destra”).
Nel 1980 Indira Gandhi raccolse una nuova affermazione elettorale ma la repressione dei Sikh del Khalistan le costò la vita; il suo successore risultò, in virtù dello straordinario successo ottenuto nella consultazione del 1984, il figlio secondogenito, Rajiv Gandhi.
Quest’ultimo operò una forte rottura con la tradizione economica del Partito del Congresso, aprendo l’India al sistema capitalistico internazionale ed esaltando i pregi dell’iniziativa privata, ma non si liberà della tentazione di giocare la carta del “comunitarismo” pur di mantenersi al potere.
Nel 1985 si riaprì la questione della coesistenza di due codici legislativi separati, quello indù e quello musulmano, in quanto l’articolo costituzionale che garantiva un codice civile uniforme in tutta la nazione indiana non era mai stato applicato.
Capovolgendo la decisione della Corte Suprema, la quale aveva messo da parte la legge coranica che garantiva alla donna musulmana divorziata il mantenimento solo per alcun i mesi, Rajiv Gandhi costrinse il Parlamento ad approvare un progetto di legge in base al quale le dispute tra musulmani sarebbero state regolate dal codice islamico.
Il suo intervento nello Sri Lanka (l’ex Ceylon) fu ancora più disastroso; dopo che la minoranza induista nel Nord dell’isola ebbe reclamato l’indipendenza dalla maggioranza di lingua singalese e religione buddista (1983), egli decise di appoggiare segretamente le Tigri Tamil e inviò una forza di pace indiana.
Quest’ultima venne però rifiutata dagli stessi guerriglieri indipendentisti e nel 1990 fu costretta a ritirarsi; l’anno successivo, proprio un ordigno dei Tamil costò la vita a Rajiv Gandhi, che nel frattempo aveva perso la carica a favore di Pratap Singh (il governo da lui composto si basò sull’appoggio dei comunisti e della “destra” indù, incarnata dal Partito del Popolo Indiano, il BJP).

L’India oggi

Negli anni Novanta la liberalizzazione dell’economia aprì l’India alla globalizzazione capitalistica ma aumentò notevolmente le ineguaglianze sociali e le violenze private, l’affermazione di interessi castali e statali, un nazionalismo militarista e culturale, al punto che in tre Stati si rese necessario l’uso della forza: Kashmir, Punjab e Assam.
Il governo dell’anziano leader del Congresso, Narasimha Rao, durò dal 1991 al 1996 e si caratterizzò per un clima d’isteria antimusulmana, provocato dalla distruzione nel 1992 della moschea di Ayodhya ad opera di attivisti del Consiglio Mondiale Indù (VHP), episodio che scatenò un’ondata di violenze con migliaia di morti.
Rao sciolse i quattro governi statali guidati dal Bharatiya Janata Party (BJP) e fece arrestare i principali esponenti di quel partito, mentre economicamente fu costretto dallo spaventoso debito estero a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale, in quanto il crollo dell’Unione Sovietica aveva provocato la perdita del principale importatore dei manufatti indiani.
In cambio del prestito di 1 miliardo e mezzo di dollari, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) pretese la svalutazione della rupia del 20%, l’abolizione dei sussidi alle esportazioni, l’abbassamento delle tariffe doganali, la riduzione delle imprese pubbliche e l’eliminazione delle licenze per le imprese.
Dopo i primi tre anni di riforme il tasso di crescita annuale raggiunse il 7%, grazie all’emergere del settore del software, mentre per gli investimenti si puntò molti sui cd. “NRI”, cioè gli Indiani Non Residenti, molti dei quali imprenditori negli Stati Uniti.
Il Bharatiya Janata Party e i partiti di “sinistra” si unirono nelle critiche alla politica economica di Rao e Singh, denunciarono l’imperialismo occidentale e i suoi effetti nocivi per la cultura indiana, in particolare l’attacco che la globalizzazione portava ai valori morali e familiari; ad essi si unì il rilievo del premio Nobel per l’economia, Amartya Sen, che accusò il governo di non aver investito nel campo delle risorse umane (“metà degli adulti sono analfabeti”) , in una popolazione in continua crescita (1 miliardo di abitanti nel 1999).
D’altronde, se in seguito alle riforme la classe media aumentò allo stesso tempo crebbe il suo divario con il resto della società, così come risultarono acuite le disuguaglianze tra regione e regione.
Dopo una breve esperienza di soli 12 giorni nel 1996, il Bharatiya Janata Party tornò saldamente al potere nel 1999 e il Primo Ministro Atal Mehari Vajpayee raggiunse una maggiore stabilità di governo per aver concordato preventivamente il programma con i propri alleati,.
In campo economico egli giudicò irreversibile il processo di liberalizzazione ma rinunciò a redigere un codice civile uniforme e ad abrogare l’articolo 370 della Costituzione, che proibisce il possesso di terre in Kashmir agli abitanti degli altri Stati.
Il sentimento anti-islamico venne deviato sul piano internazionale, in Kashmir, Bangladesh e Palestina, dove l’India riconobbe lo Stato di Israele, mentre la decisione del 1998 di sperimentare armi nucleari fu presentata come una risposta al rafforzamento militare della Cina.
Il Pakistan reagì eseguendo a sua volta test nucleari e occupando nel 1999 l’area di Kargil, oltre la Linea di controllo, iniziativa che scatenò una guerra costosa ad entrambe le parti in termini di vite umane.
Vajpayee varò perciò misure per incoraggiare l’afflusso di capitale estero: in particolare egli autorizzò gli investimenti anche per il settore dei beni di consumo, abrogò la clausola della maggioranza nazionale nelle joint ventures, si adeguò ai regolamenti dell’OMC in campo assicurativo.
Il tentativo di affidare a studiosi nazionalisti la direzione di istituzioni accademiche indiane e “induizzare” così il sistema scolastico con testi e valori indù si scontrò invece con il rifiuto di una dozzina di ministri statali, che accusarono il suo partito di voler distruggere il tessuto laico dell’India.
Alle elezioni del 2004 la vittoria toccò a Sonia Gandhi (vedova di Rajiv) che rinunciò a favore di Manmohan Singh, l’attuale premier, il quale inaugurò una nuova politica estera distensiva.
Con gli accordi del 2004, l’India riconobbe il Tibet parte integrante della nazione cinese, mentre Pechino confermò la sovranità di Nuova Delhi sul Sikkim.
Nell’aprile 2005, la visita ufficiale del Primo Ministro cinese Wen Jiabao nella capitale indiana, suggellò la ritrovata intesa e pose fine alle dispute di confine sull’Himalaya attraverso la firma di un accordo ufficiale tra i due paesi; Wen auspicò la crescita economica tra Pechino e Nuova Delhi (30 miliardi di dollari l’interscambio entro il 2010) e garantì l’appoggio cinese alla candidatura dell’India nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.


Conclusioni

Venendo ai giorni nostri, agli inizi del 2006, Manmohan Singh ha offerto a sorpresa un “trattato di amicizia e cooperazione” al Pakistan, trovando una certa disponibilità ad Islamabad; in quest’atmosfera di ritrovata concordia tra le potenze del subcontinente, si è inserita l’iniziativa diplomatica degli Stati Uniti, che con l’accordo del marzo 2006 hanno annunciato di “aiutare l’India a sviluppare il suo settore nucleare civile”.
Questa mossa della Casa Bianca, seguita alla sigla di alcuni accordi “per la sicurezza” tra Washington e Nuova Delhi, ha messo ovviamente in allarme il regime del generale Musharraf.
L’India, che come Israele e Pakistan non ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare, ha accettato di classificare i suoi 22 reattori nucleari, distinguendoli tra civili, soggetti ad ispezioni internazionali, e militari, esclusi da ogni tipo di controllo sovranazionale.
I tradizionali buoni rapporti con la Russia, forieri di aiuti militari, sono comunque continuati (Mosca ha chiesto a Nuova Delhi di entrare a far parte dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai), allo stesso tempo vi è stato un riequilibrio nella politica mediorientale, quando l’India nel maggio 2006 ha annunciato di voler proseguire gli aiuti economici all’Autorità Nazionale Palestinese nonostante l’isolamento del suo governo, provocato da Stati Uniti e Israele dopo la vittoria elettorale di Hamas.


STEFANO VERNOLE




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