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“Guerra perfetta”, un’illusione svanita

di Piero Visani - 02/11/2005

Fonte: lineaquotidiano.it

Il delirio di onnipotenza fa dimenticare il Vietnam

Duemila morti americani
in Iraq. Una nuova
fatidica soglia è
stata superata, ed è chiaro a
tutti che il costo dell’impero si
fa sempre più elevato. La
guerra non finisce e il controllo
del territorio comporta un
grave stillicidio di perdite,
anche se viene svolto con
molta più cautela di un tempo
e con ambizioni decisamente
più limitate. La vittoria appare
impossibile. Una strategia di
dignitosa fuoriuscita dal pantano
iracheno (la sempre più
evocata exit strategy) sarebbe
la benvenuta, ma al momento
non c’è e probabilmente neppure
si riesce ad immaginarla.
La conta dei caduti, l’esercizio
più tipico in un Paese che da
sempre insegue il sogno della
“guerra senza morti”, diventa
così non solo un modo per
evidenziare la gravità e la difficoltà
del conflitto, ma anche
un tentativo per cercare di
capire qualcosa di più sulla
guerra e su chi la combatte.
Il primo quesito è certamente
il più difficile da risolvere, ma
le statistiche – autentica mania
nazionale degli americani –
non danno tregua e certo portano
un contributo chiarificatore.
Così si viene a sapere
che, dei duemila caduti dall’inizio
della guerra ad oggi, il
78,1% lo è stato in combattimento,
mentre il restante
21,9% è deceduto in azioni
genericamente definite come
“non ostili”, dietro le quali si
può celare qualsiasi cosa,
dagli incidenti stradali alla fin
troppo diffusa pratica del
“fuoco amico” (cioè il fuoco
che uccide, invece che i nemici,
i propri commilitoni o gli
alleati).
Per età, la fascia più colpita è
quella dei militari tra 21 e 24
anni, nella quale è compreso
ben il 35,1% dei caduti. Dietro
di essa si situa, con il 17,9%,
quella dei giovanissimi, con
età inferiore a 21 anni. È dunque
una guerra fatta da giovani
e alimentata con il loro sangue,
dal momento che le fasce
anagrafiche tra i 18 ed i 24
anni comprendono ben il 53%
dei caduti in Iraq.
(…) Ma è anche una guerra fatta da
membri della Guardia Nazionale e
da riservisti, se si pensa che il 5,3%
dei deceduti ha più di 40 anni e il
7,0% è compreso nella fascia dai 36
ai 40. Per genere, la prevalenza
maschile è schiacciante: 98% di
morti, a fronte di un 2% di donne.
Se si considera che la componente
femminile delle Forze Armate
americane si aggira intorno
all’11-12%, è chiaro che il loro
reale impiego operativo è comprensibilmente
modesto (e
sarebbe interessante sapere
quanto di questo 2% sia causato
da incidenti e non da operazioni
vere e proprie) e conferma
tutti i dubbi sulla presenza
di donne in armi.
Per appartenenza, il 68% dei
morti fa parte dell’Esercito,
seguito dal 29% dei Marines. Il
97% dei caduti appartiene dunque
alle due forze che si dividono l’ingrato
compito del controllo del territorio.
Se si considera che il Corpo
dei Marines è, per dimensioni,
meno della metà dell’Esercito (U.
S. Army) viene smentita la tesi assai
diffusa che i Leathernecks (questo il
loro soprannome) siano chiamati a
svolgere le operazioni più dure e
onerose. Se lo fanno, la loro professionalità
è tale da consentirgli di
contenere le perdite in proporzioni
accettabili.
Di grande interesse, infine, risulta
la composizione dei caduti per
appartenenza etnica: il 73,9% è formato
da bianchi, il che smentisce
clamorosamente uno degli assunti
classici della polemica pacifista,
quella per cui gli oneri più gravi
della guerra ricadrebbero sulle
minoranze etniche. Si tratta infatti
di una percentuale superiore all’incidenza
reale della componente
bianca nella società americana, che
si aggira intorno al 68%. Per contro,
le perdite delle minoranze etniche
unanimemente ritenute più sfruttate,
vale a dire gli ispanici (10,9% del
totale dei caduti) ed i neri (10,4%),
risultano addirittura leggermente
inferiori all’incidenza di queste
etníe sul totale della popolazione
(rispettivamente intorno al 14 e al
13%). Il restante 4,8% è riservato
alle altre minoranze etniche, con
quote sostanzialmente in linea con
la loro incidenza sul totale della
popolazione USA.
Si può dire dunque che il quadro
delle perdite americane in Iraq rappresenti
un sostanziale spaccato della
società statunitense, privo di
quelle radicalizzazioni che si è
sovente inclini ad attribuirgli. È probabile
che ciò sia frutto del fatto che
il conflitto è sempre meno affidato
alle Forze Armate professionali e
coinvolge per contro, in misura
costantemente più marcata, la Guardia
Nazionale e la Riserva, che
reclutano il loro personale in un
ambito decisamente più ampio di
quello della componente di mestiere
e – come tali – rispecchiano in
misura meno squilibrata la composizione
della società statunitense. Tutto
ciò, però, pone altri problemi:
come sempre succede quando i conflitti
diventano lunghi e sanguinosi,
l’esercito di mestiere mostra i limiti
legati al fatto che, al suo interno, la
componente di combattenti reali
(quella che per convenzione si
potrebbe definire “guerriera”) è
minoritaria e tende a rimanere coinvolta
totalmente in una guerra, con
possibilità di ricambio decisamente
inferiori alle necessità operative.
Tali possibilità risultano poi compromesse
dal fatto che le guerre lunghe
e sanguinose spaventano tutti
coloro – e sono la maggioranza
- che nelle Forze Armate
hanno trovato o cercano un
rimedio (che si augurano di
breve durata) ai loro problemi
economici e sociali: un
rimedio alla disoccupazione
o la possibilità di compiere
studi altrimenti preclusi per
ragioni di costo. Questo
spiega l’attuale, grave crisi
del reclutamento, che ha fatto
balenare già in varie sedi
l’ipotesi di un ricorso alla
coscrizione obbligatoria, come
ai tempi del Vietnam.
È quasi certo, tuttavia, che il
potere politico farà tutto quanto in
suo potere per evitare il ricorso ad
una soluzione che, se adottata, lo
esporrebbe ai rischi di lacerare e al
tempo stesso spaccare la società
americana come avvenne ai tempi
del conflitto vietnamita. Allora ci
volle parecchio tempo prima che gli
Stati Uniti cessassero di interrogarsi
sul loro ruolo nel mondo e tornassero
alla loro vocazione imperiale.
Oggi Washington non si può più
permettere un lusso del genere, se
non altro perché la situazione politica
internazionale non è quella statica
degli anni della “Guerra fredda”,
ma in continuo movimento. La tradizionale
(anche se abusata e non
sempre corretta) distinzione tra chi
le guerre le scatena e chi le paga
sulla propria pelle deve rimanere
concentrata ad un nucleo relativamente
ristretto di professionisti controllabili,
consapevoli dei rischi che
corrono; non può essere allargata al
resto della società. Una volta di più,
gli USA confermano che la loro
concezione della potenza non è per
nulla così peculiare come pretenderebbero.