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notizie dal mondo 16/31 ottobre 2005

di rivistaindipendenza.org - 03/11/2005

Fonte: rivistaindipendenza.org

Irlanda del Nord. 15 ottobre. Il PUP manterrà i propri legami con la UVF. Lo ribadisce al proprio congresso annuale a Belfast. Smentite così le voci che volevano il Progressive Unionist Party (PUP), guidato da David Ervine, sul punto di rivedere i suoi legami con l’Ulster Volunteer Force (UVF). Il PUP ha legami anche con un altro gruppo armato lealista, i Red Hand Commandos.

Mauritania. 15 ottobre. Ely Vall, capo della nuova giunta al potere a Nouakchott, ha confermato quattro giorni fa di voler rispettare gli impegni assunti dal precedente regime con USA ed Israele. Il 3 agosto scorso, dopo oltre due decenni a capo della Repubblica Islamica di Mauritania, il presidente Taya, che tanto malcontento aveva suscitato in patria per la sua politica interna ed estera, assistette dall’estero, impotente, ad un colpo di Stato “pacifico” organizzato dai suoi stessi uomini e festeggiato dalla popolazione nelle strade. L’evento venne allora condannato dall’ONU, dall’Unione Europea, dall’Unione Africana e soprattutto dagli Stati Uniti. Toni che ben presto si acquietarono quando il nuovo gruppo al potere, il Conseil Militaire pour la Justice et la Démocratie, guidato dall’ex capo della sicurezza, il colonnello Ely Vall, affermò subito di voler rispettare «tutti i trattati e gli accordi internazionali» firmati da Taya. Un golpe che, secondo vari analisti, è il frutto di una lotta di potere per lo sfruttamento dei nuovi giacimenti petroliferi, su cui un ruolo decisivo ha giocato l’isolamento politico di Taya. Sui giacimenti petroliferi, anche qui bisogna segnalare l’interessamento della Cina: la Compagnia cinese del petrolio (CNPC) ha infatti acquisito diritti di sfruttamento della zona petrolifera lungo la frontiera con il Senegal. Cina altresì interessata al ferro e ai fosfati mauritiani.

Mauritania. 15 ottobre. La Mauritania è attualmente un fedele alleato degli USA nell’Africa Occidentale, nelle mire strategiche di Washington per gli ingenti giacimenti petroliferi presenti nel Golfo di Guinea, che dovrebbero in un prossimo futuro garantire il 25% del rifornimento USA di greggio. Proprio con la Mauritania (oltre che con Niger, Mali e Ciad), con il pretesto della “lotta al terrorismo”, il Dipartimento di Stato USA sta svolgendo programmi di addestramento uomini e forniture militari nel quadro della “Iniziativa antiterrorista transahariana” (Tscti). Stretti anche i legami con Israele, i cui rapporti militari e relazioni diplomatiche sono osteggiati dalla Lega Araba, di cui la Mauritania fa parte. Il paese è infatti, assieme ad Egitto e Giordania, uno dei pochi Stati arabi che mantiene relazioni diplomatiche con lo Stato sionista. Una scelta che ha scatenato le proteste dell’opposizione, specie in occasione della visita (nel maggio scorso) del ministro degli Esteri israeliano Shalom: «Relazioni con Israele sono contro le convizioni religiose e la volontà del popolo della Mauritania», ha dichiarato Ould Mansour, membro del partito della Convergenza Democratica, considerato pro-Islamico.

Cina / USA. 15 ottobre. Cresce la competizione sulle risorse energetiche africane –70% delle quali si concentrano nell’area del Golfo di Guinea (dalla Mauritania all’Angola)– tra i due giganti mondiali. Aumenta di conseguenza la penetrazione militare di Washington nell’area. Oltre al rafforzamento dei legami strategici con la Nigeria, si segnalano gli accordi della Guardia costiera USA con Stati come San Tomè, Capo Verde, Ghana, Benin e Guinea equatoriale; i programmi del Dipartimento di Stato di addestramento ed equipaggiamento militare del Pan-Sahel Initiative e della successiva Trans-Sahara Counterterrorism Initivative con Niger, Mauritania, Mali e Ciad; l’impianto di un’importante base militare nello strategico staterello di Gibuti. Pechino risponde in primo luogo con investimenti economici, finanziamenti di infrastrutture, financo missioni mediche e sanitarie e facilitazioni per gli studenti africani nelle università cinesi. Il commercio con l’Africa è aumentato del 50% dal 2002 al 2003 ed è prevista un’ulteriore crescita. Molto forte (assieme all’India) la presenza nel Sudan. Due grandi compagnie cinesi, la China National Petroleum Company (per i giacimenti) e la Sinopec (per le infrastrutture) sono largamente diffuse nel paese. Pechino non disdegna nemmeno legami di carattere militare: ecco la presenza in missioni cosiddette di “peacekeeping” in Liberia e in Congo, le forniture di uniformi in Mozambico, di elicotteri in Mali e Angola e di armi in Namibia e Sierra Leone. Investimenti in infrastrutture e sostegno economico e militare anche nello Zimbabwe di Robert Mugabe, che recentemente la segretaria di Stato USA Rice aveva catalogato tra gli «avamposti della tirannia». Mugabe, con la sua politica aggressiva verso i possidenti bianchi delle fattorie agricole, gode di consenso tra i ceti neri poveri del Sudafrica, paese dove è pure forte la presenza di una classe di grandi proprietari “bianchi”. Da qui la contrarietà del governo di Pretoria a sanzioni contro Mugabe. In questo dissenso tra Sudafrica ed USA, prova ad inserirsi la Cina per rafforzare il suo ascendente nell’area, con un occhio ai ricchi giacimenti di cromo dello Zimbabwe.

Venezuela. 15 ottobre. Intervista de La Stampa (11 ottobre) ad Hugo Chávez dopo la consueta trasmissione settimanale Alò Presidente, svoltasi stavolta a Cuara dove «una dozzina di dottori cubani hanno edificato la missione Barrio Adentro, un centro medico e diagnostico dove i residenti possono sottoporsi gratis a qualsiasi tipo di visite». Diversi gli argomenti toccati. Interrogato sui fondamenti del nuovo modello di società venezuelana, Chávez afferma di basarsi su socialismo e cristianesimo da opporre al «capitalismo che distrugge i diritti della maggioranza (…) I veri squilibri del Pianeta sono quelli evidenziati dalle immani devastazioni che continuano ad abbattersi sull’umanità: dagli uragani ai terremoti, è come se la natura stesse dando la propria risposta al capitalismo selvaggio (…) Dopo la dissoluzione dell’URSS c’è stato il tentativo di imporre un po’ ovunque il neoliberismo, ma la risposta ai nostri problemi, alla necessità di libertà ed eguaglianza, viene dal socialismo, che rende attuale l’utopia di Simon Bolivar ed è al tempo stesso cristiano (…) Un documento del Concilio Vaticano II, che ho avuto modo di studiare e leggere, afferma che la proprietà privata deve tenere conto delle necessità sociali. Ciò significa che essere cristiani significa essere contro le speculazioni, per lo sviluppo agricolo ed a favore della cooperazione sociale. Il cristianesimo armonizza la proprietà privata con la necessità di convivere, perché vuole impedire che vengano arrecati danni intollerabili. Armonizzare il bene comune non significa distruggere la proprietà privata, ma tutelare i deboli, ovvero la maggioranza».
 
Venezuela. 15 ottobre. «Cuba e Venezuela lavorano assieme per realizzare l’alternativa bolivariana in tutta l’America Latina. I medici e i docenti cubani sono soldati senza armi che curano ed insegnano a milioni di persone (…) Grazie ai cubani, in Venezuela c’è più sicurezza (…) Lo sforzo che Cuba sta facendo in Venezuela è monumentale. Passeranno i decenni, i secoli, ed i medici cubani saranno sempre qui a curare i nipoti dei nostri nipoti, per sempre (…) A Cuba c’è una rivoluzione che garantisce lavoro, educazione e salute. A Cuba, come in Venezuela, è in atto un processo di liberazione». Parole del presidente Chávez –che promette di «aumentare gli stipendi ai medici» grazie al reinvestimento dei proventi petroliferi, in aumento esponenziale grazie alle quotazioni del prezzo del greggio– riguardo i rapporti Venezuela-Cuba. Sull’amministrazione Bush, il presidente venezuelano riporta il contenuto di una lettera di un cittadino USA: «Bush dimentica gli aiuti agli afroamericani, vittime dell’uragano Katrina mentre bombarda gli iracheni. A San Pablo hanno chiuso una biblioteca, all’Università di Berkeley mancano penne, quaderni e libri per gli studenti ispanici. Sono pronto ad aiutare per porre rimedio a queste mancanze. Manderò ciò che serve agli abitanti di San Pablo rimasti senza libri ed agli studenti dell’Università che tanto ruolo ebbe nella mobilitazione liberal e pacifista degli anni Sessanta. Darò ogni appoggio ed ogni aiuto ai poveri degli Stati Uniti. Soprattutto a quelli che vivono in grandi metropoli come New York e Chicago. Possono contare su Chávez».
 
Venezuela. 15 ottobre. Fondamentale nei propositi del presidente venezuelano è «la lotta al latifondo. La proprietà privata non è sacra, deve armonizzarsi con le necessità pubbliche. È la Bibbia che lo afferma. Il latifondo è un gigantesco inganno ai danni del popolo venezuelano. Un pugno di persone possiedono enormi quantità di territorio che non producono nulla, non sono adoperate in alcuna maniera, oziano. Bisogna trasformare il modo di produzione. Servono delle cooperative cui saranno affidate le terre inutilizzate, affinché possano produrre. Le espropriazioni saranno indennizzate (…) Anche negli Stati Uniti la Corte Suprema si è espressa di recente in favore delle espropriazioni di proprietà inutilizzate. Solo che in quel caso le espropriazioni possono essere fatte a vantaggio di altri privati, mentre in Venezuela la motivazione è l’interesse pubblico. Si tratta di un passaggio importante verso un nuovo modello economico post-capitalista teso a soddisfare i bisogni della collettività e basato sulla necessità di raggiungere la piena sovranità alimentare grazie allo sviluppo di ogni tipo di agricoltura, strappando terre ai troppi latifondi esistenti».

Venezuela. 15 ottobre. Critiche rivolge invece Chávez ad un recente rapporto dell’ONU sullo sviluppo umano, secondo i cui dati la povertà in Venezuela sarebbe aumentatata negli ultimi anni: «Penso che questi dati sono frutto di mancanza di conoscenza. Quanto afferma il rapporto delle Nazioni Unite sullo sviluppo umano è falso. Si tratta di cifre relative al 2003 che non tengono conto di quanto è poi avvenuto da noi nel 2004 e 2005 ed inoltre è stato usato un metodo sbagliato nel calcolo della ricchezza. È come se si tentasse di misurare con metodi molto tradizionali il vento portato da un grande uragano».
 
Iran. 16 ottobre. Teheran vede la mano britannica dietro gli attentati in Khuzestan, regione iraniana a maggioranza araba al confine con l’Iraq, ed in generale accusa Londra di stare attizzando «tensioni interetniche e interreligiose in Medio Oriente». Ieri cinque i morti e 105 i feriti per l’esplosione di due bombe ad Ahvaz, città principale del Khuzestan. Nelle stesse ore la segretaria di Stato USA, Condoleezza Rice, giungeva a Londra per analizzare la questione del nucleare iraniano con il suo fedele alleato. Stati Uniti ed Unione Europea minacciano di portare l’Iran al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Gli attentati ad Ahvaz hanno luogo a meno di un mese dall’arresto, vicino alla città irachena di Bassora, di due militari britannici in possesso di armi ed esplosivo per compiere attentati. L’immediato intervento militare britannico, con tanto di carri armati, per riprendere i due militari incarcerati in una prigione delle autorità collaborazioniste irachene, è degenerato in scontri con la popolazione ed ha determinato una grave crisi tra la maggioranza sciita del sud Iraq e Londra. Le accuse di Teheran contro Londra coincidono con quelle britanniche sulla responsbailità iraniana negli ultimi attacchi che hanno avuto come obiettivo soldati britannici nel sud Iraq.

Iraq. 16 ottobre. I sunniti sarebbero riusciti a bocciare la Costituzione irachena, superando i 2/3 di voti contrari in almeno 3 delle 18 province dell’Iraq. Lo ha dichiarato ai giornalisti Saleh al-Mutlaq, portavoce del Consiglio per il dialogo nazionale, una delle organizzazioni sunnite schierate per il “no” nel referendum. I primi risultati ufficiali del referendum di ieri dovrebbero essere resi noti in serata a Baghdad dalla Comissione Elettorale Indipendente Irachena (IECI) creata dall’ONU.

Iraq. 16 ottobre. Gli attacchi della Resistenza proseguono incessantemente lontano dai riflettori dei media, impegnati a propagandare la “Costituzione” redatta ed imposta dagli USA. Violenti scontri e bombardamenti aerei si sono ad esempio registrati ieri a Ramadi. Colpi di mortaio hanno colpito sezioni elettorali e la sede del cosiddetto “Partito Iracheno Islamico”, favorevole alla “Costituzione”. L’agenzia di stampa Quds Press ha reso noto che gli scontri sono iniziati nel centro della città, quando combattenti della Resistenza con lanciarazzi da spalla e granate anticarro hanno teso un’imboscata ad una pattuglia USA incendiandone un veicolo. A Rutbah, sul confine giordano, la Resistenza ha distrutto due Humvees USA, mentre parecchi combattenti si sono impossessati delle armi abbandonate dai soldati iracheni in fuga. Il corrispondente del Mafkarat al-Islam ha smentito una trasmissione della stazione TV al-Iraqiyah –stazione di propaganda del regime fantoccio– in cui si diceva che aerei USA stavano bombardando postazioni della Resistenza: ciò non era possibile, essendo queste troppo vicine a quelle USA per essere prese a bersaglio dagli aerei. A Falluja un razzo terra-aria ha abbattuto un elicottero USA Apache. Oltre ai due membri dell’equipaggio deceduti, sono rimasti uccisi in uno scontro a terra anche quattro marines. Ad Abu Ghraib forze della Resistenza hanno sparato colpi di mortaio contro il famigerato carcere. Quattro granate sono scoppiate nei dormitori dei marines e delle guardie, ma non sono stati comunicati danni e vittime. A Baghdad sono stati effettuati vari attacchi contro le sezioni elettorali, seppur meno di quanto fatto nelle precedenti elezioni. A  Ba’aj, a sudovest di Mosul, una combattente fida’i della Resistenza –sembra si tratti di una donna di mezza età– si è fatta saltare presso un posto di controllo USA. Il locale corrispondente del Mafkarat al-Islam riferisce, da testimonianze, di 11 marines fra morti e feriti.

Iraq. 16 ottobre.  Portavoce del governo ungherese annunzia l’invio di 77 carri armati T-72 per le forze USA d’occupazione in Iraq che verranno, secondo accordi NATO, donati al regime collaborazionista iracheno. Il primo ministro ungherese li aveva offerti durante una sua visita in Iraq alla fine del 2004. Costruiti in Polonia e nella ex Jugoslavia, sono stati ristrutturati da una società che ha ricevuto dal governo USA due milioni e mezzo di dollari per questo lavoro.  
 
Russia / USA. 17 ottobre. Persiste il disaccordo sul nucleare iraniano. È emerso ieri nell’incontro tra il presidente russo, Vladimir Putin, e la segretaria di Stato USA. Putin si è mostrato, inoltre, particolarmente interessato al recente viaggio della Rice in Asia Centrale. «So che il suo viaggio è stato un successo, e mi congratulo. Se fosse tanto cortese da dirmi qualcosa di più sul risultato di questa visita, le sarei molto grato», avrebbe detto, con ironia, Putin alla Rice, secondo fonti di stampa russa. La Rice si sarebbe limitata a rispondere che questo viaggio non era diretto contro nessuno.

Iraq. 17 ottobre. Un’«alta partecipazione» al referendum di sabato, secondo gli occupanti statunitensi, si sarebbe registrata nelle province a maggioranza sunnita. Con il 66% del voto sul totale degli iscritti alla consulta, nelle province a maggioranza sunnita come Salah El Din, Ninive, At Tamim e Diyali, cioè nei «feudi» della Resistenza, il Comando d’occupazione USA parla del 95% di partecipazione. Nel Kurdistan Sud e nelle aree sciite, invece, appena il 50% degli iscritti. Basterebbe che tre delle diciotto province che compongono l’Iraq respingano la bozza con percentuali superiori ai 2/3 dei votanti perché il testo sia invalidato. L’opposizione sunnita mette in guardia su frodi nella consulta sulla bozza di costituzione. Saleh al Mutlaq, portavoce del partito Consiglio del Dialogo Nazionale, sostiene, infatti, che i 1600 osservatori del suo partito registrano una massiccia ondata di “no” sunniti contro il testo. Lo scrutinio del voto, fanno sapere occupanti e collaborazionisti, richiederà almeno una settimana. Tempi ‘curiosi’, visto che bisogna computare dei “sì” e dei “no”. «Avvertiamo dei rischi su falsificazioni del risultati e sul fatto che (la Costituzione, ndr) si imponga con la forza, perché così si genereranno reazioni impossibili da contenere», ha avvertito Mutlaq. L’alta partecipazione degli arabi sunniti, concorda il politico sunnita Ahmed Duleimi, attesta la «determinazione di rifiutare la Costituzione, che porrebbe le basi per lo smembramento del paese». Intanto sedici organizzazioni armate sunnite della Resistenza all’occupazione hanno deciso di fermare gli attacchi il giorno della consultazione per favorire la partecipazione della propria comunità al referendum ed ottenere così il rifiuto della Magna Carta.

Iraq. 17 ottobre. Kurdi e sciiti spiegano l’apatia del proprio elettorato. Mahmud Osman, deputato kurdo e membro dell’Unione Patriottica del Kurdistan guidata dal presidente iracheno, Yalal Talabani, sostiene che la bassa partecipazione nel Kurdistan Sud «esprime la frustrazione dei kurdi perché il governo non è stato capace di dare soluzione ai loro problemi, come ad esempio creare posti di lavoro». Secondo Yauad Maleki, figura di spicco della comunità sciita, il calo di partecipazione al referendum di ieri è dipeso dal fatto che «i votanti sentivano che la bozza costituzionale sarebbe stata approvata anche se non si fossero recati ai seggi».

Iraq. 17 ottobre. Bombardamento aereo su Ramadi, oggi, come rappresaglia per un attacco della Resistenza che, il giorno del voto referendario, ha causato la morte di cinque militari USA. Aerei F-15 ed F/A-18 ed elicotteri Cobra statunitensi hanno colpito anche località vicine a Ramadi, per un complessivo bilancio per ora provvisorio di 70 morti. Il Comando centrale USA, in un suo comunicato, assicura che tutte le vittime sono «ribelli e terroristi» ed ha aggiunto che la pianificazione degli attacchi è stata predisposta «minimizzando la possibilità di danni collaterali» ai civili. Il Dipartimento Provinciale Sanitario di al-Anbar, però, ha emesso un comunicato nel quale si afferma che le vittime dei bombardamenti USA (39) sono: 21 bambini, 5 donne ed il resto uomini, in maggioranza anziani. 54 feriti sono stati  estratti da sotto le macerie, molti in condizioni critiche, e anch’essi in gran parte donne e bambini.

Iraq. 17 ottobre. L’agenzia di stampa Quds Press informa di numerosi pattuglie di marines assalite a Ramadi da forze della Resistenza, nel clima di rabbia che pervade la città dopo le incursioni aeree USA dei giorni scorsi che hanno fatto strage di civili. Bombe stradali, attacchi con razzi ed imboscate la risposta della Resistenza. Gli Stati Uniti sostengono di aver ucciso con le loro incursioni 70 combattenti della Resistenza: dato smentito dagli abitanti, secondo cui le vittime sono soltanto civili. Gran parte delle abitazioni sono state distrutte.  

Iran. 17 ottobre. Gli Stati Uniti, sostenuti da Israele, intenderebbero lanciare sull’Iran la prima bomba atomica dopo quelle gettate su Hiroshima e Nagasaki. L’allarme lo lancia Jorge Hirsch, professore di fisica all’università di San Diego (California), in un articolo sul sito www.antiwar.com. L’attacco, sostiene, potrebbe partire tra fine 2005 ed inizio 2006. L’autore richiama diversi atti a sostegno della sua tesi. Tra questi: le dichiarazioni di politici israeliani di tutti i partiti e di esponenti statali di alto rango (in particolare, il ministro della difesa Silvan Shalom, il capo del Mossad Meir Dagan ed il capo dello Shin Bet Avi Dichter) che chiedono agli Stati Uniti di fermare con urgenza il programma nucleare iraniano o Israele «agirà unilateralmente»; l’accordo con il capo della Russian Atomic Energy Organization, Alexander Rumyantsev, per consegnare il primo carico di carburante nucleare per la centrale iraniana di Bushehr alla fine del 2005 o all’inizio del 2006 (dato da tenere a mente perché Israele bombardò nel 1981 il reattore nucleare iracheno di Osirak, al tempo sotto supervisione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, proprio prima che questo venisse caricato con combustibile nucleare); le dichiarazioni del Presidente Bush, secondo cui «tutte le opzioni sono sul tavolo» –compresa dunque l’aggressione militare– nel caso Teheran insista a voler proseguire il suo programma nucleare; il voto del Congresso USA del 6 maggio 2004 (376 a favore, 3 contrari), che autorizza l’amministrazione ad usare tutti i mezzi appropriati per dissuadere e prevenire che l’Iran si doti di armi nucleari; il documento del Pentagono Doctrine for Joint Nuclear Operations, che prevede esplicitamente l’uso di armi nucleari (ma anche chimiche e biologiche) «per contrastare forze convenzionali avversarie potenzialmente superiori; per mettere fine a una guerra rapidamente e favorevolmente secondo gli interessi USA; per assicurare il successo di azioni statunitensi e multinazionali»: in sostanza, le armi atomiche potranno essere usate senza condizioni, in qualsiasi occasione lo si ritenga ‘opportuno’!

Iran. 17 ottobre. Secondo Jorge Hirsch, l’Iran verrà attaccato anche se Russia e Cina dovessero porre il veto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU o se l’AIEA dovesse rifiutare, il 24 novembre prossimo, di portare il caso Iran al Consiglio di Sicurezza. «L’azione militare dovrebbe però eseguirsi prima che la Russia consegni il combustibile di uranio all’Iran, e sarà inevitabilmente condotta dagli USA con l’uso di armi nucleari contro l’Iran». Un’aggressione che avrà conseguenze anche sull’Iraq: «i 150.000 marines statunitensi rischiano di essere attaccati da missili iraniani (…) o dalle forze convenzionali di Teheran». Il problema, secondo Hirsch, è come inizierà l’aggressione. Secondo il docente universitario, è difficile che il senato USA autorizzi il bombardamento di installazioni iraniane, ed avanza l’ipotesi che sarà Israele a fare il primo passo. «Una volta che Israele lancia la prima bomba sugli impianti nucleari iraniani, come fu per Osirak (…), sarà un punto di non ritorno. Bushehr sarà probabilmente il primo obiettivo; altre installazioni seguiranno. L’Iran risponderà, come minimo lanciando missili su Israele. Inizialmente Teheran potrà anche rinunciare a colpire le forze militari USA in Iraq, ma data la speciale relazione USA-Israele, gli Stati Uniti non staranno fuori dal conflitto. Molte strutture iraniane da colpire si trovano sottoterra: c’è bisogno delle bombe USA per distruggerle».
 
Iran. 17 ottobre. «Lasciate proseguire l’Iran con il suo programma per l’energia nucleare civile», afferma Jorge Hirsch, che rileva come «più di 30 paesi hanno civilian nuclear programs, mentre solo nove hanno armi nucleari». È poi un paradosso che «una superpotenza nucleare vuole bombardare con atomiche uno Stato non nucleare (l’Iran, ndr), che ha firmato il trattato di non-proliferazione nucleare e sta cooperando con l’AIEA, su istigazione di uno Stato (Israele, ndr) che ha almeno 100 bombe atomiche e non ha firmato il trattato di non-proliferazione», e inizierebbe le ostilità «con atti di aggressione militare non provocati».
 
Bolivia. 17 ottobre. Esattamente due anni fa fuggiva dalla Bolivia il presidente Gonzalo Sanchez De Lozada. Questi, di fronte alle continue e insistenti mobilitazioni degli indigeni aymara contro il progetto di svendita del gas boliviano, aveva incaricato l’esercito di ripristinare l’ordine. Fu un massacro: almeno 80 morti e centinaia di feriti (tra cui svariati mutilati). Dopo due giorni di eccidi, i soldati fecero sapere di non voler più eseguire gli ordini. Per De Lozada fu l’inizio della fine. Le proteste dei contadini aymara aumentarono di consistenza e furore, ed il governo assistette al ritiro di alcuni suoi membri. Dopo aver provato a frenare i tumulti accennando il 15 ottobre, quattro giorni dopo l’ordine di reprimere le proteste, alla possibilità di un referendum a tempo indeterminato sulla questione del gas (proposta appoggiata dagli Stati uniti, dall’Organizzazione degli Stati americani e dalla Confindustria boliviana), Lozada due giorni dopo annunciava le proprie dimissioni con un discorso in televisione. Fu in realtà una rocambolesca fuga con moglie, figlia, il ministro della difesa (Carlos Sanchez Berzain) e quello agli idrocarbri (Jorge Berindoague), che dall’Accademia militare di La Paz lo portò negli Stati Uniti.

Bolivia. 17 ottobre. L’edizione odierna de il Manifesto ricorda la vicenda Lozada collegandola alla richiesta di estradizione presentata agli USA. Dopo la richiesta d’incriminazione formale di Lozada presentata in Parlamento dal capo del partito d’opposizione MAS, Evo Morales, e l’apertura il 22 ottobre 2003 della procedura di verifica dell’incriminabilità, è stata una denuncia dell’associazione dei familiari delle vittime a far iniziare il processo un anno dopo, nel novembre 2004. Il 22 giugno 2005 il dipartimento di Stato USA ha ricevuto la formale richiesta di incriminazione per l’ex presidente e i suoi due ministri fuggiaschi, «ultimi di una lunga serie di assassini che hanno trovato rifugio nel paese del dollaro e della “guerra al terrorismo”», rileva il quotidiano. Superfluo aggiungere che «alle richieste boliviane, il ministero di Condoleezza Rice non ha nemmeno risposto, mentre l’ambasciatore in Bolivia David Greenlee continua a riunirsi con i principali rappresentanti del potere statale boliviano per gestire la complicata vicenda delle elezioni di dicembre (per i sondaggi è nettamente in testa Evo Morales, un cavillo costituzionale potrebbe addirittura bloccare il voto e sarebbero altre piazze incendiate, altri moti). E gli aymara boliviani, dal mezzo del niente in cima alle Ande, stanno lanciando quella che è una vera campagna internazionale per l’estradizione di Gonzalo Sanchez De Lozada e dei suoi complici».

Italia / Venezuela. 18 ottobre. 350 miliardi di barili di greggio e 130 trilioni di metri cubi di gas: sono le riserve energetiche del Venezuela (rispettivamente la prima e l’ottava riserva al mondo) dichiarate da Hugo Chávez in visita in Italia. Il presidente venezuelano afferma di volerle «condividere» con i paesi del Mercosur, innanzi tutto, ma anche con Cina, India ed Europa. Non con gli Stati Uniti: «il Venezuela non è più una colonia petrolifera di Washington», quindi niente più petrolio in regalo a «un impero più forte di quello romano», che «minaccia» il mondo intero e con cui «non c’è possibilità di discutere». Chávez ha pure affermato che gli Stati dell’America latina devono riuscire a conquistare «l’indipendenza economica», ed ha rivendicato a sé stesso il merito di aver bloccato l’ALCA, l’Accordo di libero scambio per le Americhe voluto dagli USA, «un accordo che avrebbe danneggiato anche l’Europa».

Italia / Venezuela. 18 ottobre. Accenni critici ha rivolto Chávez al modello capitalista, «che sta minacciando l’ecosistema e il futuro dei nostri figli». Il presidente venezuelano ha pure accennato al devastante uragano Katrina che ha colpito le zone povere degli Stati Uniti, «un rumoroso presagio» degli effetti distruttivi indotti dal capitalismo. Chávez richiama poi il messaggio del «Cristo originario», primo «martire antimperialista», affermando: «non si viene alla luce quando si nasce, ma quando quella luce la si diffonde agli altri».

Gran Bretagna. 18 ottobre. Rose Gentle, madre di un soldato scozzese morto in Iraq nel 2004, intende creare un campo della pace per 24 ore davanti a Downing Street. Anche la Gran Bretagna ha la sua ‘madre coraggio’ che si batte contro la guerra in Iraq: Rose ed altre donne che hanno perso figli o mariti in guerra intendono protestare contro il rifiuto di concedere aiuti alle famiglie e denunciare il premier Blair per il conflitto iracheno. Rose Gentle si è unita alla protesta di Cindy Sheehan negli USA.

Gran Bretagna. 18 ottobre. Una nuova generazione di armi atomiche rimpiazzerà le testate Trident, considerate superate: è il progetto di Tony Blair. Lo scrive Andy McSmith sull’edizione odierna di The Independent. Un progetto fortemente contestato all’interno del partito laburista e anche da alti funzionari militari per gli elevati costi, considerata la penuria di fondi nel bilancio della difesa. Il costo della nuove atomiche è valutato in 10 miliardi di sterline (15 miliardi di euro), da aggiungere ai costi per il mantenimento del vecchio arsenale nucleare (300 milioni di sterline l’anno, 507 dal 2006). Il compito di creare le nuove armi atomiche è stato affidato all’Atomic Weapons Establishment, una impresa statale cui sono stati raddoppiati i fondi, e che si occupa attualmente proprio della manutenzione dei Trident. Gli USA sostengono il progetto di Blair.

Gran Bretagna / Iraq. 18 ottobre. Le truppe britanniche in Iraq, attraversate da un profondo malessere, potrebbero presto raggiungere il punto di rottura. Lo scrive l’Independent richiamando le violente proteste di qualche giorno fa contro il contingente britannico, l’apertura di un’inchiesta da parte del ministero della Difesa sul presunto suicidio di un capitano della polizia militare, trovato impiccato nella sua camerata e il caso di una settantina di soldati che hanno deciso di lasciare la vita militare.

Sahara Occidentale. 18 ottobre. Il Fronte Polisario salva altri 22 immigrati abbandonati alla lora sorte da Rabat. Sono stati trovati dall’altra parte del muro costruito dal Marocco nel Sahara Occidentale per impedire le incursioni degli indipendentisti. Con questo gruppo salgono a 114 le persone di origine subsahariana tratte in salvo dal Polisario.

Iraq. 18 ottobre. La Commissione Suprema Elettorale ha annunciato ieri un ritardo nella pubblicazione dei «risultati preliminari ufficiali». I risultati da alcune province indicano che le relative popolazioni si sono espresse percentualmente in forma quasi unanime per il «sì» o per il «no». Dette percentuali, segnala la commissione, sono «alte se paragonate alle percentuali standard internazionali». La commissione non ha inteso specificare se celebrare una consulta in un paese occupato risponda agli «standard» mondiali. Ha solo comunicato che si verificheranno le relazioni ricevute.

Myanmar (Birmania). 18 ottobre. Il regime militare di Rangoon, osteggiato dagli USA, riesce grazie all’appoggio di India e Cina, a stabilizzare il proprio potere. Interesse destano gli idrocarburi e materie prime presenti nel paese, ma non solo. Anche da un punto di vista militare cresce la cooperazione tra Pechino e Rangoon: pensiamo all’assistenza alla marina militare birmana per il controllo delle coste contigue all’India (giudicate come contropartita agli investimenti cinesi nel paese), ma anche all’ulteriore impianto di una base per la sorveglianza marittima e all’intelligence elettronica nelle isole Coco affittate dal 1994. Tali basi sono strategicamente decisive per il controllo delle rotte marine verso il Golfo del Bengala e lo Stretto della Malacca, attraverso cui viaggiano i rifornimenti energetici via mare Pechino, e su cui non a caso gli Stati Uniti stanno aumentando la propria presenza.

Myanmar (Birmania). 18 ottobre. L’attivismo cinese ha spinto l’India da alcuni anni a mutare il proprio atteggiamento verso il regime birmano. Nel 2004 Rangoon e Nuova Delhi hanno formalizzato un impegno reciproco per la repressione di movimenti armati su base nazionale con campi base nei rispettivi territori. Le forze armate birmane si sono impegnate nella lotta ai guerriglieri Naga e Miapuri, che da Myanmar effettuano azioni in India; quelle di Nuova Delhi si occuperanno invece di tenere a bada il Chin National Army, che agisce a protezione della minoranza nazionale Chin. Il governo di centrosinistra indiano di Manmohan Singh ha deciso inoltre di fornire armi e tecnologie militari alle truppe del Myanmar, e si parla persino di offrire un appoggio attivo delle forze armate indiane.

USA / Cina. 18 ottobre. Entrare nel mercato finanziario cinese: secondo Il Sole 24Ore è l’ambizioso obiettivo dell’amministrazione Bush. Ciò consentirebbe di «scalzare il protezionismo finanziario cinese (ancora oggi, gli stranieri non possono controllare più di un quarto della proprietà di una banca cinese) e facilitare, attraverso la maggiore sofisticazione dei mercati finanziari, quella liberalizzazione valutaria che può (...) favorire la rivalutazione dello yuan», cosa che favorirebbe le strategie di politica monetaria globale di Washington. Insomma, la ristrutturazione dei comparti finanziari delle economie concorrenti è un obiettivo perseguito dalle classi dominanti USA per prevalere nella competizione globale.

Sahara Occidentale. 19 ottobre. Escalation repressiva marocchina nel Sahara occupato. Il Fronte Polisario denuncia un riacutizzarsi «pericoloso» della repressione delle autorità di Rabat negli ultimi giorni. Lo riferisce l’agenzia Sahara Presse Service. Varie famiglie di attivisti saharawi detenuti nel “Carcel Negra” ad El Aaiún, capitale amministrativa del Sahara Occidentale, che stazionavano davanti al carcere, sono state «brutalmente represse» dalle Forze di Sicurezza. Alcune di loro «sono state arrestate, torturate nei locali della polizia giudiziaria e poi liberate», prosegue il dispaccio d’agenzia. La manifestazione era stata organizzata contro la proibizione delle autorità penitenziarie marocchine a che i prigionieri, che hanno posto fine allo sciopero della fame lo scorso fine settembre, ricevano visite dei familiari. A Boujdour si segnalano una trentina di feriti ed una dozzina di arrestati nella manifestazione del 13 ottobre per il referendum di autodeterminazione.

Georgia. 19 ottobre. Terremoto politico a Tbilisi. Il primo ministro Zurab Nogaideli ha liquidato il ministro degli Esteri Salome Zourabichvili, dopo essersi consultato con il presidente Mikhail Saakashvili e con il Parlamento. Secondo l’agenzia statunitense Strategic Forecasting, i motivi della decisione, che ufficialmente «restano molto vaghi», sarebbero la presunta eccessiva «morbidezza verso la Russia». Saakashvili vorrebbe quindi indurire le posizioni georgiane verso Mosca. Tuttavia, secondo gli analisti di Stratfor, «tale fatto, che indica una dura battaglia politica all’interno del governo georgiano, si assomma ad una economia allo stremo, e potrebbe condurre al collasso dello Stato georgiano». La Georgia post-sovietica, si ricorda, è infatti contrassegnata da laceranti conflitti identitari che indeboliscono il potere centrale.

Irlanda del Nord. 20 ottobre. La Commissione Indipendente di Monitoraggio (IMC) conferma che l’IRA è inattivo. Londra e Dublino aspettano ora la seconda relazione prevista per gennaio. Se confermerà questa, ripartiranno le negoziazioni per il ripristino delle istituzioni nordirlandesi. «Non abbiamo evidenza di addestramento o reclutamento dopo la dichiarazione (dell’IRA sulla cessazione delle attività armate, ndr) del 28 luglio», scrive la Commissione nella sua relazione, che aggiunge che da parte dell’IRA si mantengono funzioni di raccolta informazioni che risulterebbero «politiche». La Commissione ritiene che per determinare l’inattività dell’IRA è importante esaminare «un’accumulazione di indicazioni di cambiamento per un periodo di tempo maggiore», e che questo lavoro dovrebbe intrecciarsi con la conferma del disarmo repubblicano da parte della Commissione di Messa Fuori Uso delle Armi. Il Sinn Féin denuncia come detta Commissione, dalla sua creazione, abbia poco o nulla di “indipendente”. La compongono: un unionista, Lord Alderdice; l’ex vicedirettore della CIA (agenzia spionistica statunitense, ndr), Richard Kerr; l’ex capo dell’unità antiterrorista della polizia londinese, John Grieve; l’ex funzionario irlandese Joe Brosnan. Sinn Féin ha a più riprese messo in evidenza come le opinioni che contano, nella redazione delle relazioni, siano quelle di Alderdice e Grieve, e che le uniche fonti di informazioni siano le relazioni delle forze di sicurezza britanniche (che proseguono ancor oggi, sostiene il Sinn Féin, anche se in modo più discreto e sottile) sul repubblicanesimo. Il dato politico che emerge dal documento dell’IMC, quindi, è che, allo stato, si tratta di un’espressione di appoggio di questa istituzione politica britannica al processo di pace che fino a questa estate agonizzava. Nulla esclude, ovviamente, che, per interessi politici, questo organismo possa richiedere sanzioni contro il Sinn Féin adducendo a motivo presunte inadempienze dell’IRA.

Irlanda del Nord. 20 ottobre. Il documento della Commissione, già in mano degli esecutivi britanico ed irlandese dal 14 ottobre, è stato presentato ieri a Dublino dal ministro irlandese degli Esteri, Dermot Ahern, e dal segretario di Stato britannico, Peter Hain. Fa riferimento al periodo marzo-agosto di quest’anno. Nella relazione si scrive che, fino a poco prima della dichiarazione di luglio sulla cessazione delle sue attività, l’IRA era responsabile di «attività di punizione» contro persone accusate di «attività antisociali». Si parla, inoltre, di difficoltà nello stabilire il proseguimento o meno di attività illegali, come il contrabbando di tabacco o di gasolio, che sono realizzate da membri dell’organizzazione e su cui la Commissione sostiene di non essere in grado di pronunciarsi, nel senso se attribuirli ad iniziative di interesse personale o come parte della riscossione di fondi per l’organizzazione. Queste parte, allo stato messa in ombra, spiega le preoccupazioni del Sinn Féin di possibili sanzioni ai suoi danni sulla base di possibili ed interessate pretestuosità quantomeno di settori dell’apparato britannico.

Irlanda del Nord. 20 ottobre. La partecipazione dei repubblicani del Sinn Féin alla composizione e al funzionamento dei consigli di polizia non si trasformerà nel prossimo scoglio sul ripristino delle istituzioni nordirlandesi e quindi del processo di pace. Lo assicura il segretario di Stato britannico, Peter Hain. Il rappresentante britannico ha anche annunciato che il Sinn Féin riprenderà a ricevere le prestazioni che hanno i partiti rappresentati al Parlamento di Londra, prestazioni congelate dopo che la Commissione Indipendente di Monitoraggio (IMC) aveva scritto, in una sua relazione, che l’IRA era responsabile del furto di 38 milioni di euro alla Northern Bank di Belfast nel dicembre dello scorso anno.

Irlanda del Nord. 20 ottobre. La Commissione Indipendente di Monitoraggio (IMC) riconosce la responsabilità dei lealisti nella maggior parte delle violenze nel nord Irlanda, e parla di un incremento del 38% nel numero delle aggressioni.

Iraq. 20 ottobre. Irruzioni casa per casa effettuate a Mosul dai marines, specialmente nel quartiere Islah az-Zira’i. Arrestati senza giustificazione 15 ragazzi fra i 10 e i 16 anni, portati via bendati e ammanettati. Il locale corrispondente del Mafkarat al-Islam dice che, secondo la gente del luogo, i militari statunitensi vogliono usarli come scudi umani in qualche operazione in città che ritengono particolarmente rischiosa.

Ucraina. 20 ottobre. Colloqui per l’ingresso nella NATO rinviati per Kiev. Lo ha detto il segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Jaap De Hoop Scheffer, dopo un colloquio col presidente Jushenko a Kiev. Il presidente ucraino aveva espresso l’auspicio di avviare trattative per entrare nella NATO in tre anni e in due anni per l’ingresso nell’Unione Europea. De Hoop Scheffer ha invece posto l’accento sulla ancora mancata «modernizzazione» del paese e ha invocato riforme non solo di difesa, ma anche politiche e economiche. «Le riforme sono essenziali e devono essere fatte», ha tuonato Scheffer.

USA. 20 ottobre. Un soldato statunitense su quattro, di ritorno a casa dall’Iraq, accusa problemi mentali. Alcuni hanno istinti suicidi e pensano che «starebbero meglio da morti» (circa duemila). Altri sono ossessionati dagli incubi, dai ricordi delle scene più atroci viste in guerra (circa 20mila) e non riescono a dormire. Altri hanno paura di perdere il controllo e fare «del male a qualcuno» (circa 3700). Sono questi i risultati del più grande esame psicologico effettuato dal Pentagono sui soldati USA in Iraq e in Afghanistan.

Afghanistan / Stati Uniti. 21 ottobre. Emittente australiana ha ieri trasmesso immagini di cinque militari statunitensi che bruciano i corpi di due talebani, posizionati in direzione di La Mecca. Queste immagini sono state registrate dal reporter australiano Stephen DuPon nel villaggio di Gonbaz (provincia di Kandahar). DuPont è stato al seguito, per un certo periodo, di un’unità statunitense in Afghanistan. Bruciare i corpi è un atto contrario alla tradizione islamica.

USA / Iraq. 21 ottobre. Più di un centinaio di prigionieri sono morti dal 2002 nei centri di detenzione statunitensi, particolarmente in quelli iracheni. Lo ha denunciato ieri Human Rights First, che preannuncia l’imminente pubblicazione di una relazione in merito. La ONG statunitense, sede a New York e Washington, parla di omicidi e di torture fino alla morte.

Palestina / Israele. 21 ottobre. Il governo Sharon congela il piano di separazione delle strade, in Cisgiordania, fra israeliani e palestinesi. Lo riferisce l’edizione di ieri del quotidiano Ha’aretz. La decisione segue alle critiche degli Stati Uniti delle misure punitive contro l’intera popolazione palestinese approvate dal governo Sharon dopo l’agguato in cui, domenica scorsa, sono rimasti uccisi tre coloni israeliani. Il piano, se attuato, renderebbe la Cisgiordania ancora più simile al Sudafrica dell’apartheid e ripeterebbe quanto già applicato a Gaza durante gli anni dell’Intifada. Con il pretesto di garantire la sicurezza dei suoi cittadini che vivono nella Cisgiordania occupata nel 1967, Israele progetta di riservare le strade principali, più ampie e meglio tenute, ai coloni ebrei (circa 200mila cui si aggiungono altri 200mila nei quartieri-insediamenti di Gerusalemme est) mentre quelle secondarie andrebbero ai palestinesi. Secondo il quotidiano Maariv la misura potrebbe diventare permanente. «È l’inizio di una mossa strategica per la separazione delle due popolazioni» scrive Maariv, cui seguirebbe un divieto d’ingresso in Israele dei lavoratori palestinesi. «Se attuano questo piano, sarà l’introduzione ufficiale di un sistema dell’apartheid» denuncia il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat. Di separazione di strade si parla da quasi un anno, da quando Ha’aretz rivelò che Israele aveva chiesto ai paesi occidentali di finanziare –con fondi destinati all’Autorità Nazionale Palestinese– la costruzione in Cisgiordania di reti stradali diverse per israeliani e palestinesi.

Siria / Libano. 21 ottobre. Il rapporto delle Nazioni Unite sull’assassinio di Hariri (del febbraio 2005) chiama in causa il governo siriano. Così facendo «fornisce agli USA un valido strumento per mettere sotto pressione Damasco», si legge in un’analisi di Strategic Forecasting. Washington vuole infatti che «Assad collabori per fermare il flusso di insorti [sic: «insurgent traffic streaming»] dalla Siria all’Iraq». La collaborazione di Assad, qualora si verificasse, potrebbe metterlo al riparo, secondo gli analisti di Stratfor, da un possibile «sgretolamento del regime Baathista-Alawita».

Siria. 21 ottobre. La relazione dell’ONU sull’uccisione di Hariri è «falsa e strumentale». Damasco respinge così il rapporto degli investigatori delle Nazioni Unite che coinvolgono alti esponenti dei servizi segreti siriano e libanese nella morte, lo scorso 14 febbraio, dell’ex primo ministro libanese, Rafik Hariri, saltato in aria, con altre 20 persone, per l’esplosione di un autobomba. Il rapporto è stato consegnato, nella tarda serata di ieri, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che prenderà una decisione. Secondo Mehdi Dakhlallah, ministro siriano dell’Informazione, quel documento è «a senso unico e senza prove» e «non porta alla verità». In un’intervista all’emittente qatariota Al Jazeera, Dakhlallah ha sostenuto che l’inchiesta diretta dal tedesco Detlev Mehlis «fa parte della campagna di pressione contro la Siria che viene accusata di tutti i mali di questo mondo». Questo rapporto, aggiunge, «è la negazione delle condizioni più essenziali e di seri metodi di inchiesta». Walid Al Mualem, viceministro degli Esteri siriano, intervistato ieri da Le Figaro, dice esplicitamente che «il rapporto-Mehlis è lo strumento esecutivo di un piano di statunitensi e francesi per accentuare le pressioni contro la Siria». A suo dire, la prima tappa di questo piano è consistita nell’«influire sui paesi arabi perché rompessimo le nostre relazioni con Iraq, Palestina e Libano». Ora ci troviamo nella seconda tappa «che ha l’obiettivo di isolarci»; la prossima sarà «l’imposizione di sanzioni economiche tramite risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU». Al Mualem ribadisce l’estarneità della Siria all’attentato mortale contro Hariri. Dice che non c’erano ragioni. «Siamo stati le vittime di questo assassinio. Chi lo ha pianificato e messo in atto, conosceva esattamente le conseguenze».

Polonia. 22 ottobre. Testa a testa al ballottaggio per le presidenziali polacche fra due eredi di Solidarnosc, Donald Tusk, dirigente del partito liberista Piattaforma civica (Po), e Lech Kaczynski, sindaco di Varsavia, del partito conservatore Diritto e Giustizia (PiS). Il presidente, in Polonia, gode di un certo potere d’indirizzo sulla politica estera, è comandante in capo dell’esercito, può proporre o porre veto su leggi, nominare il primo ministro –che detiene la maggior parte del potere esecutivo– e, in alcuni casi, sciogliere il parlamento. Al primo turno delle presidenziali dello scorso 9 ottobre, la differenza fra i due candidati è stata minima: Tusk in vantaggio con il 36,33% dei voti, Kaczynski indietro con il 33,10% delle preferenze. Dopo che Tusk sermbrava però aver preso il volo nelle intenzioni di voto, gli ultimi sondaggi segnalano una rimonta del rivale. Decisivi due elementi. Primo: il progetto di Kaczynski di non confermare alla carica di Governatore della Banca centrale polacca Leszek Balcerowicz, autore come ministro delle Finanze nel 1989-91 e nel 1997-2000 di contestatissime privatizzazioni e misure neoliberiste choc che hanno distrutto il tessuto industriale e fatto dilagare la disoccupazione. Secondo: le accuse rivolte da Kaczynski al rivale (i cui due partiti dovrebbero formare assieme un governo) nell’ultima settimana di campagna elettorale. A Tusk è stato infatti rimproverato un ultraliberismo insensibile alle esigenze delle fascie sociali più povere e la militanza di suo nonno nell’esercito della Germania nazista (la Wehrmacht) e la lingua madre di sua mamma (il tedesco). Più in generale, Tusk ha promesso rapporti più stretti con la Germania, e vanta buoni contatti con Angela Merkel. Elementi che suscitano timori in buona parte dell’elettorato polacco per le mai cessate mire egemoniche tedesche sul territorio polacco.
 
Polonia. 22 ottobre. Kaczynski ha promesso invece, in caso di vittoria, una politica di fermezza nei confronti della Germania. Nel corso della campagna elettorale, Kaczynski ha ricordato la richiesta di risarcimento danni (almeno 45 miliardi di dollari) avanzata come sindaco di Varsavia alla Germania nel 2004 per le distruzioni subite dalla capitale polacca nel corso della seconda guerra mondiale. Richiesta che sfociò in una risoluzione in Parlamento che obbligava l’allora governo degli ex comunisti ad intraprendere trattative sulle riparazioni di guerra con Berlino. Ciò è stata una conseguenza delle iniziative intraprese dalle associazioni degli Heimatvertriebene (i tedeschi espulsi dai territori orientali dopo la sconfitta del 1945), appoggiati dalla CSU e CDU tedesche, che pretendono indennizzi, a distanza di decine d’anni, sui beni immobili lasciati in Polonia e Repubblica Ceca alla fine della guerra. Kaczynski ha rilanciato in campagna elettorale con un rapporto di 700 pagine sulle distruzioni dell’occupazione nazista dal 1939 al 1945, sottolineando che la Polonia «ha bisogno di un presidente che parli chiaro e tondo, non un presidente aperto al compromesso, come la stampa tedesca ha presentato Donald Tusk (…) Se la Germania insisterà col riscrivere la storia, se ci saranno altre richieste di indennizzo (...) con questo rapporto noi abbiamo un’arma per difenderci», ha concluso Kaczynski.

Polonia. 22 ottobre. L’influente Radio Maryja (emittente cattolica) invoca «uno tsunami» per sconfiggere il liberismo di Donald Tusk. Un sostegno a Kaczynski per «non consegnare la Polonia ai liberali» è stato espresso anche da Andrzej Lepper (capo del partito Samoobrona, “Autodifesa”, che vanta consensi soprattutto tra i piccoli contadini), che ha avuto il 15,1% dei voti al primo turno delle presidenziali. Anche Mariano Krzaklewski, successore di Walesa nella guida di Solidarnosc, si è pronunciato per Kaczynski. Per Tusk, oltre all’appoggio dell’ex leader di Solidarnosc Lech Walesa, farà convergere i propri voti il candidato degli ex comunisti Marek Borowski (che si era attestato al 10,33%), in nome di una scelta, già annunciata dal presidente uscente ex comunista Aleksander Kwasniewski, riconducibile alla logica del “meno peggio”.

Francia / USA. 22 ottobre. Su il Riformista, Marcel Dupont evidenzia la nuova (forzata?) sintonia Parigi-Washington su diverse questioni di politica estera. «Le frizioni franco-statunitensi restano fortissime in campo economico-commerciale (Airbus-Boeing, agricoltura, negoziati per il futuro accordo in seno al WTO, con l’aggiunta del dossier sull’embargo militare alla Cina), ma sul piano politico francesi e americani hanno bisogno gli uni degli altri», scrive Dupont, che evidenzia la convergenza di posizioni di Parigi e Washington in tema Iran, Iraq, Haiti e Siria-Libano. Su quest’ultima vicenda, un grosso aiuto all’intesa franco-statunitense è venuto dalla speciale commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sull’assassinio dell’ex primo ministro libanese Rafic Hariri, guidata dal magistrato tedesco Detlev Mehlis, le cui conclusioni «confortano la tesi franco-americana dell’”indebita ingerenza” di Damasco nelle vicende politiche di Beirut». Sull’Iraq, Dupont afferma che «Chirac sembra essersi convinto che la stabilizzazione dell’Iraq è sempre più un interesse comune dell’Occidente», e nota come, nonostante l’opposizione all’intervento, «in due occasioni –il giorno dell’ingresso dei marines a Baghdad e quello della cattura di Saddam– Parigi abbia inviato messaggi di felicitazioni a Washington».

Francia / USA. 22 ottobre. Dupont lascia però trasparire che l’appiattimento delle posizioni di politica estera francesi su quelle statunitensi sia comunque il frutto dell’incontrastato peso imperialista che gli USA sono in grado di gettare sulla bilancia dei rapporti internazionali. Dupont cita la Costa d’Avorio, una colonia di fondamentale importanza per gli interessi del capitalismo francese, «in cui i ribelli controllano metà del territorio e le truppe di Parigi fanno da tampone tra i due schieramenti. Capita che le forze francesi s’impegnino direttamente nel mantenimento dell’ordine, con metodi talvolta assai poco ortodossi. La settimana scorsa un generale francese è stato punito per aver insabbiato l’inchiesta sui suoi soldati, colpevoli d’aver sparato sulla folla dei dimostranti filogovernativi e di aver ucciso chissà quante persone. In Costa d’Avorio la Francia ha bisogno dell’ONU, che difatti la sostiene. Ma questo sostegno dipende dalla buona volontà (tutt’altro che disinteressata) degli Stati Uniti». Ricapitolando: la Francia non vede di buon occhio l’attuale governo ivoriano ed appoggia i cosiddetti “ribelli”, in un contesto continentale in cui gli Stati Uniti, da più di un decennio, stanno erodendo le basi coloniali francesi (vedi la vicenda del genocidio in Ruanda, con grosse responsabilità francesi, da cui è comunque scaturito l’insediamento del filo USA e genocida presidente Paul Kagamé). L’appoggio alle strategie imperialiste USA da parte francese può essere allora stata barattata con una non ingerenza di Washington nella sfera d’influenza di Parigi in Africa. In tutto questo, va risaltato poi, ancora una volta, non tanto la subalternità ma proprio il sostegno dell’ONU alle strategie delle grandi potenze. In questa sede, ci limitiamo a citare le “missioni” ONU in Afghanistan, Haiti, Sudan e Congo (con gli abusi sessuali delle “truppe di pace” sui rifugiati di guerra), le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sull’Iraq, le inchieste contro la Siria ed il programma ONU Oil for Food, quest’ultima guidata dall’”indipendente” Paul Volcker, ex direttore della Federal Reserve (la Banca centrale USA) negli anni Ottanta: tutto in linea con i progetti di “Nuovo Ordine Mondiale” di Washington.

Sudafrica. 22 ottobre. Lotta intestina nell’ANC (Congresso Nazionale Africano), il partito al governo in Sudafrica. Il direttore dell’Agenzia Nazionale di Intelligence (INA), il suo vice ed il responsabile della contro-intellgence sono stati sostituiti. L’annuncio è arrivato ufficialmente ieri. I fatti avvengono nel quadro di una «vigilanza illegale» da parte dell’Agenzia nei confronti dell’imprenditore Saki Macozoma, fedele alleato del presidente, Thabo Mbeki, e che aspira a succedergli al termine del suo mandato nel 2009. Fonti vicine all’Agenzia hanno pubblicamente assicurato che Macozoma è coinvolto in una «cospirazione», insieme ad altri dirigenti politici, proprio in relazione alla successione presidenziale. Al fondo del conflitto c’è lo scontro politico che contrappone i seguaci di Mbeki e quelli che sostengono l’ex vicepresidente Jacob Zuma, che ha lasciato questa carica a giugno ed è ora sotto processo per corruzione. Zuma, che continua ad essere vicepresidente del partito governativo dell’ANC, è il candidato della sinistra ed è considerato come il più probabile candidato a succedere a Mbeki, al potere dal 1999, quando succedette a Nelson Mandela. Zuma ha il sostegno del Partito Comunista e della maggiore confederazione sindacale, Cosatu, alleati dell’ANC nel governo, oltre all’organizzazione giovanile dell’ANC. Mentre Mbeki difende un progetto liberale, Zuma ha idee più radicalmente di sinistra, con una forte base sociale.

Siria. 22 ottobre. L’ONU punta l’indice sul governo siriano per l’attentato mortale contro Hariri. Per l’ONU il coinvolgimento andrebbe dai servizi segreti libanese e siriano ai più alti livelli politici dei due paesi. Il presidente de Líbano, Emile Lahud, sarebbe coinvolto perché uno dei sospetti attentatori, Ahmad Abdel-Al, lo avrebbe chiamato sul cellulare poco prima dell’esplosione. Circostanza che Lahud smentisce. Il supertestimone dell’accusa coinvolge anche membri della famiglia del presidente, per la precisione Maher Assad, fratello del presidente sirio, Bachar el-Assad, e suo cognato, il gen. Assef Shawkat, capo dell’intelligence. I nomi, tuttavia, sono stati tolti all’ultimo momento per il diritto alla «presunzione di innocenza». La cancellazione dei nomi eccellenti potrebbe essere collegata al recente crollo di credibilità del «supertestimone» di Mehlis, arrestato sabato scorso a Parigi per falsa testimonianza. Si tratterebbe di Zuheir Saddiq, ex collaboratore dei servizi siriani, faccendiere pieno di guai giudiziari, da tempo in Libano. Saddiq l’estate scorsa avrebbe preso contatti con i servizi sauditi e questi a loro volta lo avrebbero «passato» ai francesi e quindi all’investigatore dell’ONU. Detlev Mehlis, sulla base delle sue dichiarazioni avrebbe quindi deciso l’arresto dei capi dei servizi segreti libanesi collegati a Damasco. Interessante il fatto che Zuheir Saddiq, sarebbe in realtà uomo di Rifaat Assad, fratello dell’ex presidente siriano Hafez Assad, mandato in un dorato esilio dopo aver tentato di prendere il potere negli anni Ottanta. Il rapporto tra i due e quello di Rifaat Assad con i servizi USA, potrebbe far pensare che in realtà l’uccisione di Hariri non avesse come obiettivo ultimo l’ex premier libanese ma piuttosto la Siria del presidente Bashar Assad.

Siria. 22 ottobre. Chi è Zuheir al-Saddiq, il superteste chiave del magistrato tedesco Detlev Mehlis per sostenere l’accusa contro Libano e soprattutto Siria? Per il settimanale tedesco Der Spiegel un teste molto poco affidabile. Si tratta di un noto truffatore, più volte condannato in Siria per sottrazioni di denaro. Alla Commissione d’inchiesta ONU, Siddiq ha detto di essere un ex agente dei servizi siriani e di aver lasciato Beirut due mesi prima dell’attentato ad Hariri. Poi ha cambiato versione: non solo era a Beirut, ma aveva preso parte alla preparazione dell’assassinio, ospitando nella sua abitazione vari agenti siriani venuti per uccidere il capo libanese. Secondo Der Spiegel, Siddiq è stato pagato per cambiare versione. Familiari e amici di Siddiq dicono di aver ricevuto da lui telefonate esultanti da Parigi, l’estate scorsa: «sono diventato un miliardario», gridava lui tutto allegro. A raccomandare Siddiq è stato Rifaat al-Assad: uno zio del presidente siriano in carica, fuggiasco dalla Siria per oscure ragioni, e nemico giurato del regime attuale. Questo Assad si è spesso auto-candidato come «il possibile presidente alternativo della Siria». Insomma una faida familiare nel clan alawita.
 
Siria. 22 ottobre. Per l’ONU, comunque, è impensabile che i rispettivi governi non potessero non sapere. A Washington si dà così credito alla relazione del magistrato tedesco Detlev Mehlis, sulla morte dell’ex primo ministro libanese, Rafic Hariri, il 14 febbraio scorso, nell’esplosione di un autobomba che uccise, nel cuore di Beirut (Libano) 20 persone. La commissione Mehlis, incaricata dal Consiglio di sicurezza, con i suoi 100 «esperti» e «investigatori», ricorda da vicino la vecchia Unscom, la commissione ONU per il disarmo non convenzionale dell’Iraq, incaricata in realtà di tenere alta la tensione con Baghdad e dare la possibilità ai servizi statunitensi e israeliani che l’avevano infiltrata, di destabilizzare dall’interno il regime. Il rapporto denuncia anche la «mancanza di cooperazione sostanziale» del governo di Damasco nell’inchiesta e sottolinea che «la motivazione probabile» dell’attentato «è stata politica», sebbene la motivazione degli individui che hanno partecipato all’attentato avrebbe a che vedere «con l’inganno, la corruzione ed il riciclaggio di denaro».

Siria / Israele. 22 ottobre. «Credo che siano necessari cambiamenti in Siria», ha dichiarato il leader laburista israeliano. Secondo, poi, il portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Lior Ben Dor, «il rapporto è un passo nella buona direzione (...). Vogliamo un Libano libero e indipendente», ha sottolineato il portavoce di un governo che ha occupato il Libano per svariati anni.

Siria / Libano. 22 ottobre. Un rapporto giuridicamente «inconsistente». Così lo giudica il politologo libanese Joseph Bahout. «Pone molte domande e offre poche risposte». Non ha dubbi nell’attribuirgli un obiettivo politico, quello di esercitare pressioni sulla Siria. Secondo la stampa statunitense, Washington e Parigi stanno preparando, per la prossima settimana, una risoluzione durissima contro Damasco. Il presidente Bush, a poche ore dalla presentazione del rapporto, ha chiesto una riunione urgente del Consiglio di sicurezza per adottare «tutte le misure del caso». Gli ha fatto eco il segretario di Stato, Condoleezza Rice che ha invitato la comunità internazionale a schierarsi con gli USA in questo nuovo capitolo dell’«esportazione della democrazia» in Medioriente. L’ambasciatore USA alle Nazioni Unite, John Bolton, è già al lavoro per l’adozione di sanzioni che dovrebbero preparare il terreno o ad una resa incondizionata di Damasco –sull’Iraq e sulla Palestina– o ad una disgregazione del paese secondo linee etnico-confessionali sul modello iracheno. Sullo sfondo l’ipotesi di uno scambio di tipo coloniale tra un Iraq, spezzettato e diviso, sciita-curdo-USA e una Siria, anch’essa divisa, non più governata da un presidente alawita (sciita) ma dai fondamentalisti islamici sunniti.

Siria / Libano. 22 ottobre. Sul rapporto Mehlis e le pressioni di Stati Uniti ed Israele in testa al governo libanese, ieri sera Hezbollah (il movimento della resistenza nazionale libanese), per bocca del segretario Hassan Nasrallah, ha messo in guardia il capo del governo Fouad Siniora, uomo della famiglia Hariri, «a non seguire» i «consigli» di Washington e di Parigi. Altrimenti Hezbollah (e forse anche l’altro partito sciita Amal) potrebbe uscire dal governo. Con tutto quel che significherebbe per gli equilibri libanesi.

Occitania. 23 ottobre. Circa 10mila persone sfilano in difesa dell’occitano. È accaduto ieri per le strade Carcasona (sud della Francia).

Polonia. 23 ottobre. Il candidato cattolico Lech Kaczynski, 56 anni, ha vinto il ballottaggio delle presidenziali in Polonia con il 53,52% delle preferenze. Emerge da exit poll concordanti della televisione privata Tvn. Il suo rivale, il liberale Donald Tusk, 48 anni, ha avuto, secondo il sondaggio, 46,48 dei voti. Leggermente diversi, ma pur sempre favorevole a Kaczynski, i risultati del laboratorio Tns Obop, reso pubblico dalla televisione pubblica Tvp: 52,8% delle preferenze per Kaczynski e 47,2% per Tusk.

Austria. 24 ottobre. Crollo elettorale dell’ultradestra. Alle regionali, il Partito Socialdemocratico (SPOe) ha vinto con il 48.9% dei voti, mentre l’Alleanza per il Futuro dell’Austria (BZOe), dell’ultradestro Joerg Haider, ha ottenuto solo l’1.2%. La partecipazione elettroale, cui per la prima volta potevano votare i giovani di 16 e 17 anni, è stata solo del 58%, otto punti in meno di quattro anni fa.

Polonia. 24 ottobre. Lech Kaczynski è il nuovo presidente polacco (54,04% dei voti) dopo un ballottaggio cui ha partecipato soltanto metà del corpo elettorale (50,99%). Nel ringraziare i propri elettori (in gran parte tra i contadini e le fasce sociali più povere), il candidato del partito Legge e Giustizia (PiS) ribadisce il proprio impegno per la nascita di una “Quarta Repubblica” con la lotta alla corruzione degli ex comunisti, la salvaguardia dello Stato sociale, un maggiore interventismo dello Stato in economia. In politica estera, oltre al consolidamento della relazione/subalternità agli USA, il neopresidente annuncia il rafforzamento degli interessi polacchi nell’Unione Europea (che ha spinto buona parte della stampa internazionale a catalogare il candidato del PiS come “euroscettico”). In campagna elettorale Kaczynski ha promesso pure una riforma costituzionale che assegni maggiori poteri al capo dello Stato (il presidente nomina il primo ministro, dirige difesa e politica estera, ma ha poca influenza su quella sociale ed economica), l’introduzione della pena di morte abolita nel 1997 «se solo il Paese si liberasse dai vincoli contratti con l’UE», l’inserimento di Dio nella Costituzione e l’opposizione alle iniziative di «propaganda dell’omosessualità» come le parate del gay pride (già vietate come sindaco di Varsavia). Preoccupazione esprimono gli operatori dei mercati finanziari. Una delle maggiori differenze con Donald Tusk di Piattaforma Civica (PO), anch’esso proveniente da Solidarnosc, consiste infatti nella politica fiscale (Tusk aveva promesso di imporre una sola aliquota del 15% sui profitti) e nel freno alle liberalizzazioni. Su Bruxelles, Kaczynski è stato tiepido, segnando una sostanziale differenza con l’Alleanza della sinistra democratica (SLD, gli ex comunisti), vincitrice nelle elezioni del 2001 e grande sostenitrice del processo di integrazione europea.

Polonia. 24 ottobre. I prossimi mesi diranno se Kaczynski manterrà le promesse elettorali in merito soprattutto alla politica economica e sociale. La Polonia è infatti attesa da ulteriori ed impopolari riforme neoliberiste per aderire