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Nel buio che precede l'alba (recensione letteraria)

di Claudio Ughetto - 09/11/2006

Joseph Boyden, Nel buio che precede l'alba, Sonzogno Editore, Milano 2006, pag. 413

Joseph Boyden è in parte canadese e in parte Ojibwe e insegna scrittura creativa all'università di New Orleans. Il fascino di questo suo esordio narrativo sta nella coniugazione di due tematiche che prese a sé risulterebbero abusate ma che insieme diventano un mix di suggestioni inedite: le cronache della Grande Guerra e le tradizioni dei pellerossa.

La traduzione italiana del titolo è, come spesso accade, inspiegabile. “Nel buio che precede l'alba” dev'essere sembrato più vendibile dell'originale “Three day roads”, a costo di farci scambiare un romanzo dalla prosa densa ma sicuramente oggettiva, capace di portarci sui campi di battaglia delle Fiandre e di farceli sentire quasi tangibili, per un polpettone sentimentalista. Invece siamo di fronte a una storia dura, mai consolatoria, a tratti difficile da reggere, niente affatto tenera con quei valori che gli sponsor dell'Occidente cristiano sono tornati a glorificare.

Ben in là nel romanzo è proprio il Cree Xavier, detto X per la sua mira infallibile, a interrogarsi sull'ossessione degli uomini bianchi, i wemistikoshiw, per il numero tre. A noi europei è naturale pensare all'importanza che questo numero, e i suoi multipli, ha avuto nel medioevo, e lo associamo a Dante: non a caso, anche nella Commedia, il viaggio dalle tenebre alla luce dura tre giorni. Più importante è ribadire che Boyden tratta le tradizioni Cree, riti e credenze comprese, con passione, senza però mai scadere nelle consolazioni new-age. 

Xavier in guerra ha perso una gamba, e torna alla sua terra con un senso di colpa che neppure la morfina riesce a placare. Forse può riuscirci Niska, la zia veggente che non si è lasciata chiudere nella riserva e non sta con gli indiani della città, “pieni di cibo e di alcool. Lei lo ha sottratto dall'orfanotrofio prima che le suore lo plagiassero trasformandolo in un reietto alla deriva della cultura dominatrice. Il loro viaggio verso casa, in canoa sul fiume, dura appunto tre giorni. Mentre Xavier è tormentato dalle immagini del fronte, dov'è stato con l'amico d'infanzia Elijah, in una guerra che segnerà il destino dell'Europa ma che poco sembra riguardare gli ultimi superstiti del popolo Cree, Niska gli racconta come ha ben presto scoperto in sé un destino di veggente e di custode di una comunità da cui poco alla volta ha dovuto appartarsi, pur continuando ad amarla e proteggerla. Come suo padre, poi ucciso dai bianchi, anche lei ha dovuto uccidere i windigo, esseri umani trasformati in bestie demoniache per aver mangiato carne umana.

Nelle Fiandre della Grande Guerra sono l'odio e la tecnologia a trasformare gli uomini in windigo. Le tenebre regnano nella trincee, tra le esplosioni della granate che i soldati imparano a distinguere a seconda della pericolosità (per sopravvivere, se fanno in tempo...), i colpi di cannone, gli assalti contro le mitragliatrici e gli imprevedibili tiri dei cecchini.

E cecchini diventano ben presto Xavier ed Elijah, che hanno imparato a tirare di precisione per cacciare, inseguire le prede per poi appostarsi e colpirle al momento giusto. In questa guerra non loro, una guerra in cui i wemistikoshiw mettono le più sofisticate tecnologie al servizio della morte, in cui diventa quasi normale camminare tra mucchi di cadaveri gonfi e persino nascondersi in mezzo, i due daranno un senso diverso all'atto di uccidere. Xavier ha imparato da Niska che in guerra uccidere è inevitabile, ma si deve farlo per sopravvivere, se è necessario, non per il puro gusto di distruggere e ricavarne meriti;  Xavier, invece, nella guerra trova la sua identità: uccidere diventa l'unico scopo della sua esistenza, ne fa un talento da coltivare.

Attraverso Xavier, l'autore non ci nasconde quanto questi invidi l'amico perché, essendo stato più a lungo in collegio, ha imparato l'inglese, ha un carattere più socievole e un temperamento seducente e usa queste qualità per prendersi l'intero merito delle loro missioni. Benché Xavier sia un tiratore migliore, e spesso sia proprio lui a individuare gli obiettivi, all'inizio è quasi sempre Elijah a sparare. Tuttavia lo Xavier agonizzante sulla canoa, pieno di morfina,  ci descrive anche il progressivo distacco di Elijah dalla realtà e dei valori con cui i due sono cresciuti, base della stessa cultura Cree, ma anche dall'umano in sé, fino a degenerare nella famelica insaziabilità di una macchina da guerra che si nutre d'accumulo: vite su vite, morti su morti nella terra di nessuno.  E quando Elijah impara dai soldati francesi a collezionare gli scalpi dei nemici uccisi, a collezionarli per dimostrare i suoi successi di assassino; quando i due uccidono per sbaglio una donna e un bambino ed Elijah non prova nessun rimorso, Xavier saprà cosa fare.

Tre giorni di viaggio, sul fiume, per tornare a se stesso. Allo Xavier rievocato da Niska, un ragazzino che ha imparato sia a inseguire l'alce nella foresta innevata, affrontando la paura, sia a riconoscere la bellezza della danza del gallo cedrone che ogni anno viene imitata dalla sua gente per salutare l'arrivo dell'estate. Una complementarietà di forme “pagane” omaggianti la vita, in una natura tanto splendida quanto crudele, ma mai mortifera com'è invece la terra di nessuno, che i wemistikoshiw sono ormai completamente incapaci di riconoscere.

                                                                                           Claudio Ughetto