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Rumsfeld: il falco è caduto

di Fabrizio Casari - 09/11/2006

 

La prima vittima del terremoto politico annunciato che si è rovesciato sull’Amministrazione Bush, è Donald Rumsfeld, il potente quanto contestato Segretario alla Difesa. Non si era mai vista tanta rapidità. Nancy Pelosi, la nuova Speaker del Congresso aveva appena detto, nel corso della sua prima conferenza stampa che “dopo il voto occorre un cambio di direzione da parte del presidente. E un cambio di leadership al Pentagono é qualcosa che non hanno chiesto solo i democratici, che viene anche dalle stesse gerarchie militari”. Il presidente Bush ha obbedito. Una telefonata, solo il tempo di una telefonata e Donald Rumsfeld è diventato l’ex Segretario alla Difesa. Un fulgido esempio di licenziamento-lampo per il teorico della guerra-lampo, unitamente ad una certificazione d’impotenza emessa via telefono da parte dell’uomo più potente della terra verso il suo braccio militare. Rumsfeld, che con Paul Wolfowitz e Dick Cheney formava il terzetto di neocon che, dagli anni ’90, ha costruito la ragnatela ideologica che ha avvolto gli Stati Uniti nelle tenebre, è dunque la vittima designata del riassetto dell’Amministrazione Bush, che dovrà misurarsi con la maggioranza democratica al Congresso e al Senato.

Ciò che a Rumsfeld è stato fatale è la fallimentare quanto sanguinolenta aggressione militare all’Irak ed all’Afghanistan, dal cui pantano Washington non riesce ad uscire. Già da un anno le stesse alte sfere del Pentagono chiedevano la testa del Ministro. Dapprima con un documento firmato da generali in servizio e in pensione che denunciavano l’incompetenza, l’imperizia e l’inadeguatezza di Rumsfeld. Poi, solo pochi giorni addietro, la rivista militare Army Times scriveva: “Rumsfeld ha perso la fiducia dei comandanti militari, delle truppe, del Congresso e del pubblico in generale. La sua strategia ha fallito e la sua abilità di comandare è compromessa. E, sebbene la colpa dei nostri fallimenti è in lui, sono le nostre truppe che ne devono pagare le conseguenze”. Un editoriale durissimo, che poneva il segretario alla Difesa con un piede già fuori della Casa Bianca, concludendo che “a prescindere dal partito che vincerà le elezioni il prossimo 7 novembre, il momento è arrivato. Presidente, affronti la cocente realtà: Donald Rumsfeld ha fallito, deve andare via”.

Prima ancora che alla nuova speacker del Congresso, quindi, Bush doveva rispondere alle sollecitazioni dei vertici militari, non potendosi permettere il lusso d’ignorarli, a maggior ragione con due guerre in corso. Bush ha aspettato fino all’ultimo, sperando che il responso del Mid Term potesse concedergli ancora due anni di vita politica indipendente. In un Congresso e un Senato che fossero rimasti sotto il controllo repubblicano, Bush avrebbe forse trovato una soluzione diversa; ma la pesante sconfitta elettorale di ieri lo ha posto come bersaglio del fuoco concentrico da parte dell’establishment politico e militare. Rumsfeld quindi, da super falco si è trasformato in agnello sacrificale del presidente texano, che lo ha immediatamente sostituito con Robert Gates, fino a poche ore fa a capo della Central Intelligence Agency, la CIA. L’agenzia, peraltro, non si era risparmiata in critiche e scambi di colpi proibiti con lo stesso Rumsfeld ed i suoi fedelissimi nel Pentagono. I rovesci militari, che il vertice del Pentagono attribuiva sia ad un numero insufficiente di militari sul campo, sia ad un lavoro d’intelligence non all’altezza, erano materia di scontri che non sempre rimanevano nascosti nei corridoi della Casa Bianca.

Robert Michael Gates, classe 1943, era già stato direttore della Cia dal 1991 al 1993. Ha passato 26 anni nell'intelligence dei quali nove nel National Security Council, sotto quattro presidenti di ambedue gli schieramenti. E’ un fedelissimo di John Dimitri Negroponte, zar dello spionaggio statunitense. Con lui é rimasto coinvolto nell'Irangate, lo scambio tra denaro, droga e armi tra Iran e Usa per finanziare l'aggressione al Nicaragua sandinista negli anni '80. Bush si aggrappa alle sue capacità per tentare di raddrizzare il rapporto con il Pentagono e le sorti della guerre in Irak e Afghanistan. Gates non è certo un partigiano del ritiro immediato, ma ha indubbiamente esperienza di mediazione; comunque, da buon sipone, minor atttazione del vanesio Rumsfeld verso le luci della ribalta. Non commetterà l’errore del suo predecessore nel disprezzare i vertici militari, semmai il rischio è che ne sia solo un docile strumento.

L’uscita di scena di Rumsfeld è la diretta conseguenza dell’isolamento politico dell’Amministrazione Bush che il voto del Mid Term ha certificato con nettezza. I due anni che restano al petroliere texano per tentare di recuperare consenso, più che una opportunità sembrano ora profilarsi come una lunga agonia. E’ il crepuscolo di una Amministrazione che non avrebbe mai dovuto insediarsi sul ponte di comando dell’unica potenza mondiale. Ma la sua crisi, irreversibile, non riporterà comunque in vita le centinaia di migliaia di vittime sacrificate, insieme al diritto internazionale, sull’altare di una dionisiaca volontà di potenza.