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Un blackout neoliberista

di Nicola Cipolla - 09/11/2006

 
Ovvero il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. L’interruzione di energia di domenica conseguenza diretta del forsennato processo di privitazzazione delle imprese elettriche europee promosso dall’Unione Europea

E’ bastato, ancora una volta, un piccolo errore umano (il distacco momentaneo di una linea dell’alta tensione tedesca) o il vento del nord che si è messo a soffiare più vigoroso sui 20.000 Mw dell’eolico tedesco per mandare in tilt l’intero sistema elettrico europeo e perfino la sua appendice marocchina.

Certo ci sono mancanze tecniche, obsolescenza delle reti ed altri fatti materiali ma la causa scatenante e principale di questi reiterati black out è da ricercare nel processo di privatizzazione delle imprese elettriche europee promosso dall’Unione Europea nel quadro di una politica neoliberista ideologicamente coerente da Maastricht all’euro, dalla bolkestein alla ripetuta richiesta di riforme, cioè di tagli, ai diritti dello stato sociale acquisiti nel secolo scorso, all’apertura totale del mercato in tutti i campi basato sul profitto.

Il sistema elettrico prevalente nei paesi europei nel secolo scorso era stato costruito sulla base doppiamente pubblica dei grandi enti nazionali che gestivano le grandi centrali elettriche e le reti dell’alta tensione e delle aziende municipalizzate che essenzialmente si occupavano della distribuzione, in un determinato territorio, dell’energia prodotta o acquistata ai consumatori finali, alle famiglie ed alle imprese. Questo sistema non era privo di difetti, specialmente in Italia, dove la nazionalizzazione dell’energia elettrica era arrivata in ritardo, era stata molto costosa per i consumatori su cui si era riversato il costo delle supervalutazioni degli impianti dei monopoli elettrici preesistenti ed era entrato subito, senza avere mai avuto un Mattei, nell’ambito delle pratiche spartitorie con il potere politico che poi erano culminate in scelte industriali avventate (prima il nucleare e poi il micidiale olio combustibile rifiuto tossico della raffinazione del petrolio) e sfociato nella crisi di Tangentopoli che portò in carcere presidente ed amministratori dell’ENEL.

Il processo di privatizzazione imposto dalla Comunità Europea ha creato una situazione incerta, ambigua e costosa per i consumatori italiani che pagano oggi l’energia elettrica il 30% in più della media europea.

Su scala europea il processo di privatizzazione ha portato non ad una concorrenza ma ad una serie di accaparramenti di quote di produzione e di mercato tendenti all’oligopolio. Gli alti profitti così realizzati dai gruppi privati o privatizzati hanno dato luogo ad un vorticoso gioco di vendite, acquisti, fusioni in cui in pratica gli investimenti infrastrutturali, volte al risparmio energetico e al miglioramento del servizio non potevano che avere un ruolo di Cenerentola. Di fronte al black out anche personalità come Prodi, Bersani, Scaroni, non certamente innocenti rispetto ai processi di privatizzazione a tutti i livelli, hanno subito reagito affermando la necessità di completare il processo attraverso una istituzione a livello europeo che metta ordine nel caos produttivo e distributivo creato dal processo di privatizzazione. Certamente esiste questa esigenza e si è fatto portavoce anche su Repubblica di martedì u. s. il noto economista J. P. Fitoussi che addirittura, a mio avviso con qualche ragione, ha evocato l’esperienza della CECA per promuovere, ad oltre mezzo secolo di distanza, una Comunità dell’Energia e dell’Ambiente. Non voglio entrare nella forma giuridico-istituzionale che questo coordinamento europeo dovrebbe assumere ma è suggestivo l’accoppiamento tra questione energetica e questione ambientale (che rovescia di 180° il paradigma del carbone e dell’acciaio) come problema decisivo per le sorti dell’umanità (è in corso la conferenza di Nairobi e sono state pubblicate in questa occasione, persino da parte del governo inglese, studi sulla gravità della situazione ambientale legata al modello di sviluppo energetico).

La privatizzazione dell’energia elettrica (e un discorso analogo si potrebbe fare per il gas) ha messo in crisi il vecchio sistema di controllo proprio mentre questo era a sua volta investito da nuovi compiti ed esigenze di carattere essenzialmente ambientale che avevano portato da un lato, a livello internazionale, all’approvazione ed all’entrata in vigore del protocollo di Kyoto, e dall’altro, anche per esigenze ambientali allo sviluppo specie in Italia dell’uso del metano nelle centrali a ciclo combinato più economico e meno inquinante sia delle centrali a olio combustibile sia delle centrali a carbone che l’ENEL vorrebbe non solo conservare (il mostro di Cerano che da solo emette il 12% delle quote di anidride carbonica assegnate all’Italia) ma anche estendere a Civitavecchia e a Porto Tolle. Inoltre, ed è questo il punto centrale della lotta politica nel campo energetico nei prossimi anni, si è cominciato a sviluppare in alcuni paesi dell’Europa, a cominciare dalla Germania, dalla Spagna, dalla Danimarca, la produzione elettrica attraverso l’eolico e il fotovoltaico sulla base di leggi opportune che prevedono l’immissione in rete a condizioni preferenziali delle energie alternative così prodotte. Queste leggi hanno avuto un’opposizione aperta ma soprattutto sorda e defaticante da parte delle grandi società elettriche privatizzate proprietarie delle reti per due motivi evidenti: il primo è che ogni tep (tonnellate equivalenti petrolio) di energia prodotta con fonti rinnovabili riduce fatturato e profitti delle centrali tradizionali e sposta risorse verso una miriade di piccoli produttori industriali, agricoli, Comuni e persino condomini e privati cittadini. Il secondo motivo, rivelato proprio dal black out ultimo, è che le reti attuali sono predisposte per trasportare energia da grosse centrali ai consumatori e devono essere profondamente rinnovate per permettere l’immissione in rete delle energie rinnovabili in misura tale non solo da incidere fortemente, come è avvenuto in Germania, sugli equilibri produttivi attuali, ma nell’arco di pochi decenni di sostituire integralmente le energie fossili. Una riorganizzazione del sistema di ridistribuzione dell’energia elettrica di questo tipo in Italia non solo è necessaria, visto l’affollarsi delle domande di impianti eolici e solari regolarmente bloccate dagli interessi costituiti, ma anche perché da noi (pur utilizzando in atto solo un terzo delle potenzialità come dice Giorgio Nebbia) l’energia idroelettrica rappresenta il 18% della produzione totale e per le sue caratteristiche può, se utilizzata con mano ferma e pubblica, integrare le variazioni della produzione delle energie alternative legate alle variazioni climatiche. Ma in Italia con la privatizzazione queste risorse sono state assegnate a vari soggetti e in Sicilia persino si sono chiusi impianti idroelettrici per favorire l’uso dell’olio combustibile delle raffinerie di Priolo, Gela e Milazzo.

Mi pare giusto perciò sospendere il processo di privatizzazione a livello nazionale ed europeo, a condizione però che questa sospensione sia utilizzata non per permettere all’Eni ed all’ENEL di realizzare nuovi utili e nuove avventure all’estero, ma per elaborare un Piano Energetico Nazionale tendente a realizzare risparmio energetico (anche privilegiando la cogenerazione in piccoli impianti a metano oggi fossile e domani a biogas) e soprattutto un impetuoso sviluppo delle energie alternative quale è oggi richiesto da una enorme platea di interessi e di cittadini che vedono nel rinnovamento energetico non solo la salvezza dal disastro ecologico ma anche uno sviluppo delle proprie possibilità di lavoro e di guadagno.

La gestione pubblica delle reti di distribuzione e dei grandi impianti idroelettrici può costituire il nucleo centrale di un nuovo sistema energetico capace, anche per le caratteristiche mediterranee del nostro paese, di inserirsi in un più ampio disegno euromediterraneo di superamento delle energie fossili e delle crisi economiche, politiche e militare ad esso legate. In una recente puntata della trasmissione televisiva, Report, Carlo Rubbia diceva: «La guerra è determinata essenzialmente dalle scelte di pochi che controllano la situazione di molti, questo è il grosso problema degli scambi, dei controlli, dei contrasti, abbiamo visto il gas è un problema politico, il petrolio è un problema politico! Perché? Perché ci sono pochi paesi che hanno il petrolio e tanti paesi che ne hanno bisogno. Nel caso del solare non esiste questa cosa, come dicevo la stessa quantità di sole che lei trova in Spagna la ritrova nel sud dell’Italia, la trova in Grecia, la trova in Turchia e la trova anche nel Mediterraneo, quindi è ovvio ed evidente che non sarà mai un meccanismo di scontro politico».