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Il memoriale di Abu Omar:'Rapito e picchiato da italiani'

di Paolo Biondani, Gianni Santucci - 10/11/2006

 
Undici pagine scritte a mano: così l'ex imam di Milano racconta il sequestro, gli interrogatori e le violenze subite in carcere


Abu Omar fotografato con un telefonino (Corsera)


MILANO - «Testimonianza dell'islamico sequestrato nella via di Milano. Così mi hanno rapito dall'Italia e così mi hanno torturato nelle carceri egiziane».
Con queste due frasi, scritte in alto come un titolo, Abu Omar apre le undici pagine di memoriale in cui racconta personalmente, per la prima volta, le modalità violente del suo sequestro e gli atroci interrogatori subiti in Egitto. E' un documento straordinario, perché mai prima d'ora l'ostaggio era riuscito a far filtrare all'esterno la sua testimonianza di vittima del sequestro e delle torture. Il memoriale è ora depositato tra le fonti di prova a carico dei 35 inquisiti (26 agenti statunitensi della Cia, un carabiniere del Ros e 8 italiani del Sismi) per quella «cattura illegale». La versione di Abu Omar contraddice totalmente la tesi del «finto sequestro di un consenziente», proposta invece in Parlamento dal direttore del Sismi, Nicolò Pollari. Al contrario, Abu Omar conferma di essere stato picchiato a sangue fin dal momento del rapimento e aggiunge un fatto del tutto nuovo: almeno due sequestratori erano «italianissimi».
Il Corriere ha ottenuto da proprie fonti una copia del memoriale, che è stata tradotta da tre diversi interpreti (con risultati coincidenti) dopo aver accertato che la Procura ne aveva ottenuto l'originale. I «saggi di grafia» già depositati dai pm confermano che è la stessa scrittura di Abu Omar. Ecco i passi salienti del memoriale.

«Botte e vestiti strappati»

«Io sottoscritto, Osama Mustafa Hassan Nasr, conosciuto come Abu Omar, islamico sequestrato a Milano il 17 febbraio 2003, tuttora detenuto nel carcere di Tora al Cairo, scrivo la mia testimonianza dall'interno di questa mia tomba: sono dimagrito, la mia malattia si aggravata, sono in condizioni molto critiche. La mia faccia è trasformata a causa della tortura».
«Adesso spiego il sequestro. Camminavo a piedi da casa mia, in via Conte Verde 18/A, lunedì 17 febbraio 2003, andando verso la moschea per la preghiera di mezzogiorno. (...) Avevo in tasca 450 euro (400 per pagare l'affitto), il mio passaporto italiano di rifugiato, il permesso di soggiorno, il cellulare, la tessera sanitaria, l'orologio e le chiavi di casa. Tutte queste cose si trovano ora nella sede dei servizi segreti egiziani, nei "giardini del Copa", davanti al Castello del popolo... Uscendo, ho visto un furgone bianco che mi passava davanti... Davanti a un giardino pubblico, ho visto una Fiat rossa. L'autista veniva verso di me di corsa. Ha tirato fuori una tessera: sono della polizia. Gli ho dato il permesso di soggiorno e il mio passaporto italiano. Lui tira fuori il suo cellulare e fa una chiamata. Mi sembrava un americano: capelli biondi, carnagione chiara, alto circa 1.70».

In realtà è un carabiniere italiano di madre tedesca, Luciano Ludwig Pironi, che ha confessato questo ruolo nel sequestro.
«Poi il furgone bianco si è fermato vicino al marciapiede. Non ho capito niente, ho visto solo che due persone che mi sollevavano di peso: sembravano italianissimi, alti non meno di 1.87 o di più, età circa 30 anni. Il mio sequestro è stato visto anche da una signora egiziana...». E' la testimone oculare, già sentita dai pm.
«Quando mi hanno buttato dentro il furgone, ho cercato di reagire, ma hanno cominciato a darmi pugni in pancia e su tutto il corpo. Mi hanno buttato sul fondo del furgone e coperto la faccia. Dentro era tutto buio. Mi hanno legato piedi e mani... Tremavo per le botte e dalla mia bocca è uscita schiuma bianca... Allora ho sentito i due italiani discutere, uno dei due urlava: mi hanno strappato tutti i vestiti e mi hanno fatto un massaggio cardiaco...».
«Dopo quattro ore circa, sempre con le mani e i piedi legati insieme, mi hanno trasferito in un altro veicolo, non so se nemmeno se fosse un altro furgone o un piccolo aereo...

«Legato sul jet americano»

«Dopo un'altra ora di viaggio, ho capito che ero arrivato in un aeroporto, dal rumore degli aerei. Ho sentito tanti piedi, sette- otto persone, che camminavano verso di me. Mi hanno strappato i vestiti con dei coltelli e rivestito con una velocità incredibile. Mi hanno anche tolto la benda per pochi secondi, per farmi le foto: c'era tanta gente in divisa da teste di cuoio. Mi hanno bendato tutta la testa e la faccia con dello scotch largo, con buchi su naso e bocca per respirare... L'aereo è decollato, c'era un freddo cane... Ero immobilizzato e mi mancava il respiro. Allora mi hanno messo un respiratore... Quando siamo atterrati, perdevo sangue dalle mani».
«Al Cairo un funzionario egiziano mi ha detto: in questa stanza ci sono due pasha, cioè due grandi ufficiali dei servizi segreti. Uno solo ha parlato, in egiziano, dicendo solo: "Vuoi collaborare con noi?". L'altro, che probabilmente era un tenente americano, non parlava, ma poi ho capito che diceva: se Abu Omar è d'accordo, torna con noi in Italia».
«La mia cella era di due metri per uno, senza luce. Era in un palazzo dei servizi. Mi hanno legato le mani e un piede, mi facevano camminare, io cadevo e loro ridevano. Poi hanno continuato con le scosse elettriche, pugni, schiaffi. Hanno portato carta e penna chiedendomi di scrivere tutta la mia vita fuori dall'Egitto, mi hanno fatto vedere foto di egiziani, tunisini, algerini e marocchini residenti in Italia... Ho avuto problemi alle ossa e alla respirazione. L'interrogatorio è durato sette mesi, fino al 14 settembre 2003, ma mi sono sembrati sette anni.

«La cella è una tomba»

«Dopo un altro viaggio, mi hanno portato in un altro palazzo dove un sacco di mani mi hanno picchiato su tutto il corpo. Mi hanno detto: qui dentro non entra neanche la mosca blu. Quando ho chiesto del bagno, mi hanno detto che era la mia cella... C'era una puzza incredibile... Sono rimasto altri sei mesi e mezzo in questo posto, Amn-El-Dawla... La cella era senza aria, scarafaggi e topi camminavano sul mio corpo... Quando entrava il guardiano, dovevo mettermi in ginocchio, altrimenti mi toccava con un bastone elettrico...

«Da mangiare mi davano solo pane andato a male, quello con la sabbia che fa cadere i denti... Non puoi bagnarlo e non puoi rifiutarlo, perché loro devono tenere in vita uno scheletro... «Mi interrogavano nell'ufficio vicino alle celle, così gli altri detenuti sentono le urla e i pianti della tortura... I miei capelli e la mia barba sono diventati tutti bianchi...
«All'inizio i guardiani mi spogliano nudo, minacciano di violentarmi, mi danno scosse con un bastone elettrico: uno mi tiene le parti intime e me le schiaccio se non parlo... Poi mi stendono su una porta di ferro che chiamano "la sposa": qui prendo calci, scosse elettriche con i fili e intanto mi gettano acqua fredda».

«Non mi hanno mai dato il Corano: c'era sempre buio in cella, ma io lo volevo solo per baciarlo e tenerlo stretto fra le braccia.
«Per le botte ho perso completamente l'udito da un orecchio: non sento più niente. Ho subito anche una tortura chiamata il materasso. Nella stanza delle torture mettono sul pavimento un materasso bagnato e attaccato alla corrente elettrica. Poi mi legano mani e piedi dietro la schiena. Una persona si siede sulle mie spalle su una sedia di legno e l'altro attacca la corrente. Ero sempre spaventato e spesso svenivo. Ora non ce la faccio più a continuare a scrivere di queste torture che ho subito...» «Dimenticavo: le prime volte che mi hanno torturato, bestemmiavano contro di me e contro l'Italia, perché mi ha dato asilo politico. Mi dicevano: è l'Italia che ti ha consegnato all'Egitto. E dall'Italia nessuno è venuto a liberarti da queste torture...».