Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La preghiera, un farmaco. Un convegno sulla meditazione come medicina dell’anima e del corpo

La preghiera, un farmaco. Un convegno sulla meditazione come medicina dell’anima e del corpo

di Laura Silvia Battaglia - 17/11/2006

 

Lambertenghi Deliliers: «Influisce sulla vita concreta del paziente». Ravasi: «Pregare guarisce l'interiorità». Cacciari: «Emerge oltre i limiti della ragione, oltre la filosofia»

 

La fede può favorire la guarigione? Di fronte al dolore, all'impotenza del limite, la preghiera può rappresentare il giusto farmaco? Queste sono due delle domande che da alcuni anni si pongono medici e ricercatori e sono la ragione che dà impulso al convegno «La preghiera medicina dell'anima e del corpo», in programma domani a Milano.
«Da tempo le riviste mediche internazionali offrono spazi sempre più ampi a studi sull'influenza della preghiera nella guarigione del paziente», spiega Giorgio Lambertenghi Deliliers, medico ematologo, presidente della sezione milanese dell'Amci, Associazione nazionale medici cattolici italiani.
«Lo studio sulle reazioni fisiologiche e psicologiche dei pazienti dovute a varie pratiche spirituali, come joga, meditazione, preghiera - approfondisce Lambertenghi - dimostrerebbero che esiste una connessione tra alcuni sintomi di guarigione o di sostanziale miglioramento del paziente con queste pratiche. Ad esempio, la lettura della Bibbia o la recita del rosario favorirebbero il mantenimento della pressione bassa, fatto molto positivo per pazienti affetti da disturbi cardiaci. Oppure, soggetti operati all'anca troverebbero un certo sollievo nel recarsi a messa, migliorando la loro capacità motoria». Ma esiste una dimostrazione prettamente scientifica di tutto questo, condivisibile da tutta la comunità degli studiosi? Lambertenghi sostiene di no, nel senso che «dire che la preghiera è la medicina del corpo è un'affermazione semplicistica. Noi come medici cattolici siamo certi che l'approfondimento della dimensione spirituale, da parte del paziente ma anche del medico, possa aiutare entrambi ad entrare in contatto, a porsi su un piano di fiducia e di sensibilità reciproca per dialogare sul senso religioso della malattia. Quello di cui siamo assolutamente certi, invece, è che la preghiera sia una farmaco per l'anima».
Da questo punto di vista, per Gianfranco Ravasi, non ci sono dubbi: la preghiera, in tutte le sue declinazioni, è una form a di guarigione dell'anima: «Se operiamo un confronto nella simbologia delle grandi culture e spiritualità, la rappresentazione della preghiera è legata a tre immagini documentate e ricorrenti. La preghiera come amore, come guarigione dal vuoto interiore, dalla solitudine, dal dolore tragico. Jean Pierre Jossua dice che questa preghiera è piantata nel mistero di vivere. In second'ordine, la preghiera come respiro, come segno della vitalità dell'anima perché è in essa che l'anima si apre a tutto ciò che è trascendente: Kierkegaard insegna. Terzo, la preghiera come lotta, secondo la tradizione biblica, come nell'episodio di Giacobbe al guado del fiume Jabbok. Qui la preghiera riacquisterebbe all'anima la sua capacità di contrastare tutto ciò che è negativo. Che poi è il tentativo dell'uomo di entrare nell'infinito e nell'eterno».
Un tentativo che è insito nell'atto della preghiera in quanto pensiero e, per converso, nel pensiero in quanto manifestazione più elevata dell'essere dell'uomo nel mondo. Per questo, pensare "alto" è, in un certo senso, pregare. Così, secondo Massimo Cacciari, «se il pensiero rende migliore l'uomo e in fondo lo guarisce, la preghiera non può essere vista in contrapposizione astratta al pensare: infatti, per molti filosofi pensiero e preghiera coincidono. Così è per Filone, per Plotino, per la patristica, la scolastica, per i mistici. Anche dal punto di vista formale non è possibile introdurre una separazione tra pensiero e preghiera, se non nel nesso teoretico». Prosegue Cacciari: «Quando Kant parlava di "abisso della ragione", denunciava il limite entro il quale la filosofia non ha più risposte. Questo limite è la scoperta che la percezione dell'esistenza delle cose è essa stessa un limite alla conoscenza. È di fronte a questo "bonum" che l'analisi e la dialettica cedono ed emerge qualcos' "altro". Questo "altro" ha la forza della preghiera o almeno è quello che comunemente chiamiamo "preghiera"».
La preghiera, dunque, è di tutto l'uomo, di tutti gli uomini: filosofi e religiosi, sani e malati, credenti e non credenti, agnostici e atei convinti. Ravasi: «Anche la bestemmia, come conferma il libro di Giobbe, è una forma di preghiera. Esprime un'istanza metafisica, tipica della preghiera degli atei, nel limite e nella solitudine: è una forma di superamento del limite imposta dall'impotenza che l'uomo avverte per sé».
Un'impotenza che è tutta umana, e che fa dell'uomo un potenziale arco verso Dio o, come disse Pascal, un potenziale superatore di se stesso. Due testimonianze: Ivan Il'ic, che è ancor più umano nel momento della morte, o Gregory Zinoviev, scrittore della dissidenza russa, che in quell' "oltre" inspiegabile che molti chiamano preghiera trovò queste parole da dire a Dio: «Cerca di esistere almeno un poco per me. Perché vivere da uomini senza testimoni in terra è un inferno».