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Marciapiede

di Tommaso Chimenti - 22/11/2006

     

Il marciapiede non era ancora stato rimesso in sesto e camminarci dava quel senso di nausea proprio del Luna Park quando da adolescente con il naso all’insù guardavo, tra un brufolo e l’altro, il pus che girava attorno.
Il mio appartamento era un segmento in mezzo a tante case basse vicino al centro ed in prospettiva, dal lato monti verso la città, sembrava un mercato delle spezie orientale in verticale, dove facciate colorate facevano a cazzotti con grigie e modeste abitazioni, persiane in legno scalcinato ed in acciaio, comunque niente a che vedere con i canali danesi o le case olandesi, la fiesta non transitava certo dalla mia strada.
Più che altro era un dormitorio confortevole, da famiglia benestanti con anziani, bambini, qualche cane latrante ma fortunato, le biciclette allucchettate fuori al lampione metallico, “tanto non c’è microcriminalità”, qualche pianoforte che faceva tanto “Lezioni di piano”.
La signora del piano di sotto lasciava sempre i suoi sacchetti della spazzatura fuori dall’uscio attendendo il mio passaggio: vicino disponibile, abile ed arruolato, gentile quanto bastava, tra una bestemmia ed un vaffa, infilavo le mani per cercare la fessura del nodo: turaccioli, bucce di banana nera dolciastra, il residuo di caffè, il grasso del pollo, bottiglie in pet aggrovigliate su se stesse, con quella sensazione di umido e bagnaticcio che irrimediabilmente prendeva lo stomaco sfiorando con le dita la plastica.
Da fuori la palazzina dove abitavo era fatiscente e ridicola per il prezzo d’acquisto con tutti i confort del caso: niente apri portone, cassetta della posta da rabbrividire al primo raudo di carnevale, campanello da prenderci un bel 220 volt, la porta d’ingresso con una testa di leone in ferro battuto, più abbattuto che altro che non aveva mai ringhiato a nessuno, seriamente compromesso dal circo che all’interno si muoveva.
I cinquantacinque metri quadrati della mia nuova tana da ragno erano disposti su due piani con un lucernario che faceva intravedere le nuvole, che abbagliava di sole, con due escrementi di piccioni in bella vista come dipinto naif o fregio post moderno verista.
Nessuna porta a dividere gli interni, molti tappeti, giallo alle pareti, travi a vista.
Soggiorno, salotto, camera da letto, cucina giallo margherita, bagno a scacchi, soppalco dove troneggiava la panca dei pesi, bilanciere e quaranta chili, ed una televisione da trentadue pollici tanto per distorcersi lo sguardo.
L’angolo computer aveva vita propria, non ascoltava le altre anime della casa.
Dal soppalco una ringhiera faceva molto “Spezzeremo le reni al nemico”, ci siamo capiti.
Gli elefanti che camminavano stanchi sull’arazzo in camera mi sembrava che di giorno in giorno ciondolassero sempre più, un passo avanti all’altro con la proboscide in alto senza mai poter bere, con la consapevolezza che non sarebbero mai arrivati, che non si sarebbero mai riposati in uno stagno a rinfrescarsi, a sgranchirsi le pachidermiche zampe ingrinzite, a scrollarsi di dosso gli acari della polvere.
Era una corsa persa, contro il tempo del decesso, loro immortali che mi nutrivano con la loro danza senza posa immobile, nel loro cammino senza ostacoli verso la finestra, verso la strada.
Avevano comunque un obiettivo il ché non era così poco, o almeno poteva essere un punto di partenza.
Intanto il legno cozzava con le piastrelle che lottavano con le mattonelle in bianco e nero che facevano attrito con il parquet.
Un patchwork alla Missoni.
Tre finestre completavano il look del pied a terre ideale per qualsiasi scapolone di provincia che pensa di avere tra le mani il segreto del suo successo solo quando va a pisciare, che ritiene di avere il destino ben stretto tra le dita soltanto davanti alla tavoletta alzata.
Lo scrollai senza successo, avrei dovuto alzarlo quel maledetto pezzo di plastica ormai chiazzato d’urina gialla come il casco che avevo sotto la sella del mio scooter anch’esso giallo.
“Maricon”, frocio, mi aveva detto una spagnola un giorno dopo che avevo risposto “yellow” con un bel sorriso da persona intelligente alla classica domanda banale da sconosciuti sul colore preferito.
Troppo diretta signorina, avrei voluto dirle ma rimasi lì in Santo Spirito a fumare l’aria, ad annusare il nero intorno, a mandare a fanculo i toreri, le ramblas ed il Real Madrid.
Lo rimisi dentro ad imitare una scimitarra, mi piaceva pensarmi Sandokan, e richiusi l’arma a doppio taglio nella tuta blu da karateka che usavo, estate ed inverno, per dormire.
Mi faceva sentire atletico, a vita bassa mi vedevo sul tatami roteare le gambe stile capoeira, capriole e fendenti, polpastrelli delle dita dei piedi appuntiti alla ricerca del miglior appoggio contro Chuck Norris al Colosseo tra gatti malandati e peli sullo stomaco.
Avrei voluto radermi, dai pettorali alla pancia, dal pube alla cosce, polpacci e braccia ma mi ero appena soffermato alle ascelle che adesso brillavano di luce propria evidenziando l’assenza villosa che sottolineava la presenza nel vicino territorio dei barbari.
Era una guerra tra bande rivali, orde tribali che si contendevano il predominio della Kamkatcha in un Risiko introverso sul tappetino nero del mio pullover naturale di pura lana un tempo vergine.
Mi guardai la faccia, le zampe di gallina, le fossette, le gengive, una passata di sapone di Marsiglia avrebbe rimesso le cose al loro posto, avrebbe allattato la mia voglia di purezza e nudità, acqua e soap come i fotoromanzi plastificati dove lui bacia lei per il tempo infinito che ti ci vuole per girare la pagina lucida.
Ancora scalzo vado in cucina, stacco un pezzo di uovo di Pasqua, al latte, che fa il paio con lo spumante dolce, controllo il frigo, mi fa impressione, lo richiudo sentendo un grido d’aiuto.
Ho finito anche l’acqua cazzo e non ho l’apriscatole per scoperchiare queste lattine di legumi, un mix dalla flautolenza pericolosa di ceci e fagioli, da miscelare con aceto, curry e paprika con carne in scatola ed una spruzzata d’olio piccante.
Ora capito i miei mal di stomaco, insomma non era solo stress il subbuglio gastroenterologo che affondava le sue radici dal piloro al colon, ondeggiando flessuoso fino a raggiungere cavità proibite.
Quella mattina era freddo anche se il termostato segnava imperturbabile i suoi 19 gradi.
Era impazzito, completamente.
Ero lì da due mesi e non avevo ancora imparato ad usarlo, ma non ne avevo neanche intenzione.
Rimanevo barricato al ricordo di quello manuale che avevo appiccicato al muro nella casa precedente, una rondella e via che se segnava 15 erano quindici gradi e se 20 si schiantava dal caldo.
La vita dovrebbe essere così, come un termostato, guardarla, ruotare, crescere la potenza, sapere dove si sta andando, togliersi la maglia, mettersi il cappotto, infreddolirsi per poi riscaldarsi, senza temere colpi di vento, senza tribolare all’arrivo dell’inverno.
Tanto basta un giro della ruota e torna la primavera e l’estate, il sole è dietro l’angolo.
La cioccolata mi si scioglieva in bocca anche se da molto mangiavo per nutrirmi senza il gusto del cibo ma soltanto per il piacere di riempirmi.
La cesta della frutta era svagatamente deserta e mi strizzava l’occhio colpevole mostrandomi le sue mancanze, i suoi punti deboli, lo sguarnimento nel quale era precipitata, la penuria lassiva del suo stato attuale.
Non trovavo spiegazioni né giustificazioni.
Ormai gli oggetti mi parlavano accusandomi senza mezzi termini ed anche le tre piante che avevo sparse, che non annaffiavo mai perché “si dovevano arrangiare e trovare dentro di loro le forze per venirne a capo”, non parteggiavano per il sottoscritto.
Avrei dovuto dare una svolta alla giornata.
Mi cambiai le mutande.
Presi quelle a righine bianche che mi fasciavano il culo e evidenziavano il pacco, controllai i gemelli di famiglia, c’erano ancora, rimisi tutto a posto, calzini elasticizzati grigi, odiavo quelli che perdevano aderenza ad ogni passo che mi costringevano a tappe forzate come ala sulla fascia laterale che cerca il cross trovando invece i tacchetti del dirimpettaio avversario.
La maglietta scura che avevo ieri sotto la giacca poteva andare, la scelta poi non era così colossale, jeans, scarpe, la maglia rossa, che qualcuno diceva che “m’incorniciava il sorriso”, la giacca.
Scesi le scale facendo attenzione ai miei passi, senza destare attenzione, le due vicine di casa del primo piano, la Gina a sinistra, novantatre anni, e la “sarda” a destra, poco meno la giovinetta, erano allo spioncino voyer ad ogni movimento.
L’andatura doveva essere decisa e felpata, un gatto delle nevi intento nel ratto delle Sabine, un collant che calza le caviglie di una signora, discreto e veloce, senza rumori, senza silenzi.
Mi stavo allenando giorno dopo giorno ed ero arrivato ad un buon livello di schivamento e rientro del colpo, evitavo le domande, gli sguardi, sorridevo e via liscio, quasi un ebete con il casco in mano, un imbecille che ha fretta, un cretino che ha il sugo sul fuoco.
Sugo, ah, erano settimane che non mi facevo al pasta, settimane che non mi preparavo un intingolo al pomodoro dove far decollare e poi cadere maccheroni o sedani, pipe rigate o bucatini ancora duri.
La pasta al dente si digerisce meglio.
Non l’avevo mai digerito questo assiomico diktat.
Ormai ero in ballo, correre a quel punto non avrebbe avuto un granché senso.
Scendo i gradini come se fossero stati quelli della scalinata di Sanremo, controllo il passo, raffermo il respiro, centellino i battiti, accelero la falcata, spalanco il cavallo, addento il portone, m’infilo in strada.
Fuori è grigio, uguale visione che dall’interno.
Il mercato del sabato mi aspettava: lampredotto o porchetta avrebbero per mezz’ora liquefatto i pensieri.