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Comunità e decrescita. Critica della ragione mercantile di Alain de Benoist (recensione)

di Giuseppe Giaccio - 23/11/2006

Alain de Benoist, Comunità e decrescita. Critica della ragione mercantile, Arianna, Casalecchio 2006, pagg. 219, euro 12,95.

 

L’ultimo grido in materia di critica del modello occidentale viene dalla Francia ed ha un nome che comincia ad essere familiare e a circolare anche in Italia: décroissance, decrescita. Crediamo non sia casuale che questa novità venga proprio dall’Hexagone, come i francesi chiamano la loro terra. George Mosse, riferendosi a un diverso contesto (i suoi studi sul nazionalsocialismo), fa un’affermazione di portata generale che può valere pure nel caso che ora ci interessa: niente accade se manca una tradizione. Se questo tema ha attecchito oltralpe, è perché lì esiste una consolidata consuetudine intellettuale che spingeva in questa direzione, anche quando il neologismo non era ancora stato coniato. Serge Latouche, forse il più noto esponente di questa tendenza, lo ha indirettamente confermato quando, in un articolo pubblicato nel numero 23 del bimestrale La Décroissance, ha inserito Bernard Charbonneau tra i padri della decrescita. Orbene, fare il nome di Charbonneau significa andare abbastanza indietro nel tempo, agli anni Trenta del secolo scorso. Già allora, osserva Latouche, insieme con l’amico Jacques Ellul, Charbonneau “denuncia i pericoli del delirio tecnico-scientifico e ne smonta il funzionamento, impegnandosi a smascherare l’impostura economica e in particolare l’assurdità dello sviluppo e della crescita”. Ma si possono fare anche altri nomi: quello di François Partant e dei suoi studi sulla fine dello sviluppo risalenti agli anni Ottanta, che attendono ancora una traduzione italiana, così come ancora non tradotti sono alcuni importanti saggi di Ellul sulla tecnica. L’occasione che è all’origine dell’articolo di Latouche prima citato è la recente riedizione in Francia del brillante pamphlet di Charbonneau L’uomauto (di cui esiste anche un’edizione italiana edita da Settimo Sigillo), nel quale l’automobile viene assunta come simbolo della civiltà occidentale votata allo spreco e al perseguimento di una crescita illimitata e insensata. A questa metafora ricorre anche Alain de Benoist in Comunità e decrescita. L’auto, la cui storia viene dall’autore accuratamente ripercorsa, rinvia anzitutto all’individualismo, con i passeggeri chiusi nelle sue lamiere, separati dagli altri, soli benché imbottigliati nel traffico. Esaltata come strumento di libertà, si rivela una prigione. L’auto è un costante, e per molti fatale, invito a superare i limiti, a vivere l’ebbrezza della velocità, ad andare sempre più avanti e sempre più di corsa, schiacciando l’acceleratore a tavoletta. De Benoist non si limita, tuttavia, al gioco delle assonanze e delle analogie, ma, fuor di metafora, delinea, esibendo la capacità di sintesi e la chiarezza espositiva che gli sono consuete, l’intero svolgersi della parabola dello sviluppo, a partire dalla figura del borghese che ne è la fonte, con la sua morale utilitaristica, per poi occuparsi dello straripamento della sfera economica, che ha a poco a poco invaso tutti i campi della vita, imponendo il mercato quale metro di valutazione universale, e della finanziarizzazione dell’economia che è la causa di bolle speculative, di fortune basate sul nulla, su quella che qualcuno ha chiamato “economia casino”. Il nocciolo duro del libro è però costituito dal lungo capitolo “Obiettivo decrescita!”, dove l’autore passa in rassegna i punti di forza e di debolezza della décroissance, corrente che si prefigge di offrire un contributo teorico per uscire dallo sviluppo e dalla crescita, vedendo in questo sganciamento la sola possibilità di guarigione dalle patologie di cui, in varie forme, soffrono sia l’Occidente sviluppato che il mondo cosiddetto sottosviluppato Parlando di punti di forza, abbiamo usato il plurale, ma, a ben vedere, sarebbe forse meglio usare il singolare, giacché essi si riducono, in sostanza, a uno solo: un pressante invito ad “agire sulle cause piuttosto che sugli effetti”, cioè a pensare in modo radicale i problemi posti dall’occidentalizzazione del mondo – problemi che non possono essere risolti mettendo delle toppe qua e là, con qualche aggiustamento di facciata (lo sviluppo durevole o sostenibile), ma soltanto venendo fuori, in primo luogo mentalmente (“decolonizzando” l’immaginario), dallo sviluppo. Latouche illustra questa necessità con il paragone, a lui evidentemente caro dal momento che lo propone in molti suoi scritti, del treno: chi sale su un treno sbagliato, per arrivare a destinazione non può limitarsi a decelerare, ma deve fermarlo, scendere e prenderne un altro. Detto così, sembra facile, ma dietro questa operazione si celano una serie di nodi irrisolti da parte della composita galassia della sinistra antagonista e altermondialista efficacemente evidenziati da de Benoist e la cui radice è, in definitiva, di tipo antropologico, risiedendo in una scorretta idea dell’uomo. Alla sinistra manca una “antropologia realistica”, in base alla quale l’uomo è costituzionalmente un essere capace di agire e aperto al mondo, non determinato in modo rigido dai suoi istinti. Questo lo rende imprevedibile, pericoloso e “arrischiato”, capace di grandi cose nel bene come nel male, di continue ascese e cadute. Quando si tratta dell’uomo, niente può essere dato per scontato. Egli non segue traiettorie prestabilite, ma può in ogni momento deviare, scartare, ricominciare daccapo. L’uomo, tuttavia, non si pone in una posizione di totale alterità rispetto al reale. De Benoist rifiuta espressamente – ed in questo consiste il suo “paganesimo” di impronta heideggeriana – l’idea di “una rottura ontologica tra l’umanità e il resto dei viventi”, pur “riconoscendo le differenze e la relativa autonomia dei componenti della natura. Si tratta di opporre in qualche modo a tutte le forme di dualismo un monismo pluralista, differenziato, fondato sulla dialettica dell’uno e del molteplice e richiamando un’etica del dialogo e della complementarietà. […] La ‘natura’ non è la stessa cosa dell’uomo, né qualcosa che si oppone all’uomo. Essa è, si potrebbe dire, l’Altro dall’uomo, quell’Altro che partecipa della definizione dell’uomo senza riassumerlo interamente”. Nella prospettiva dualistica, secondo de Benoist di matrice biblica e di cui fa parte, attraverso un processo di secolarizzazione, anche il discorso della sinistra, l’uomo è il padrone del mondo e può quindi farne ciò che vuole, arrivando, al limite, anche a distruggerlo, la distruzione di un bene essendo la manifestazione massima di signoria su di esso. Questo lato catastrofistico e apocalittico è diffuso a tutte le latitudini del panorama culturale e ideologico, anche se forse lo si incontra più facilmente sul versante destro, e ad esso corrisponde simmetricamente un aspetto ottimistico, tipico della sinistra, cioè l’idea che gli interventi dell’uomo sul mondo e persino su se stesso sono teleologicamente orientati verso il meglio, non potranno che produrre un mondo migliore, più progredito e civile. Entrambi questi atteggiamenti – ed è questa la seconda critica che de Benoist rivolge a Latouche e all’altermondialismo – sfociano su un terreno morale, nel primo caso (quello della destra, o meglio di certa destra) producendo una sdegnosa chiusura nei confronti del mondo che si nobilita spacciandosi per aristocraticismo, nel secondo caso (quello della sinistra), che è anche quello esaminato da de Benoist nel testo di cui ci stiamo occupando, abbandonandosi ad innocue quanto generiche affermazioni di principi (l’altruismo da opporre all’egoismo), o tratteggiando vaghi scenari di lotta planetaria (la moltitudine contro l’Impero), o addirittura continuando a sognare, con tutti i problemi ecologici con cui ci troviamo a dover fare i conti, un abbattimento del capitalismo come conseguenza dello sviluppo sempre più spinto delle forze produttive. Destra e sinistra, privilegiando la precettistica morale, sfuggono, quindi, al duro e scomodo confronto con la politica, che è, invece, il terreno privilegiato dell’antropologia e della filosofia realistiche, consapevoli della complessità del vivente, propugnate da de Benoist e la cui sfida può essere sintetizzata in questi termini: “Non renderemo tutti gli uomini altruisti, ma si può tentare di farla finita con un’ideologia dominante che fa ineluttabilmente dei comportamenti egoistici (individuali o collettivi) i comportamenti più naturali che ci siano, perché si fonda su un’antropologia nella quale l’uomo, portato per natura a ricercare sempre il suo miglior interesse, è definito come un essere interamente governato dall’assiomatica dell’interesse […] La questione posta, allora, non è più quella dell’ecologia, ma quella del politico e di ciò che resta in termini di capacità d’azione di fronte all’onnipotenza dei mercati finanziari, delle multinazionali e del potere del denaro”. È una questione che dovrebbe essere considerata centrale da tutti gli “irregolari” dello scenario culturale e politico. Essa comporta “la presa di coscienza dell’emergere di un panorama ideologico completamente nuovo, che rende obsolete le vecchie scissioni e ha, come conseguenza, inevitabili convergenze”.

Gli interlocutori cui de Benoist, con queste parole, prioritariamente anche se non esclusivamente, si rivolge hanno finora, nel complesso, fatto orecchie da mercante, mostrando così tutti i loro limiti e le loro idiosincrasie. Tranne singole, lodevoli eccezioni, è stato il settarismo a prevalere. Un settarismo che da noi si è manifestato con un articolo di Andrea Ricci, “Crescita e decrescita”, uscito sul quotidiano di Rifondazione comunista Liberazione il 26 luglio 2005, e in Francia con un editoriale di Paul Ariès – “Ce que la décroissance n’est pas” – pubblicato sul bimestrale La Décroissance (numero 30 del febbraio 2006), cui Éléments ha opposto una replica a firma François Bousquet (“La croissance n’a rien à craindre de ‘La Décroissance’!”, in Éléments, n. 120, pag. 11). Nel caso dei francesi, in verità, riesce anche molto difficile prenderli sul serio. Non che Ricci non faccia del suo meglio (o peggio) per contendere ad Ariès la palma della faziosità, con il consueto approccio consistente nell’accomunare temi e personaggi molto eterogenei a scopo demonizzante (approccio spiegabile, nell’ipotesi più benevola, con l’ignoranza, in quella più malevola con la malafede), ma, in tutta franchezza, non si sa se mettersi a ridere o a piangere quando vediamo, su La Décroissance, Alain de Benoist e la Nouvelle droite inseriti in un incredibile pastiche di “falsi amici” della decrescita comprendente, tra gli altri, i seguaci del movimento raeliano, quelli del rinnovamento carismatico, della “ecologia libidinale” (sic!), adepti della “pedofilia” e dello “stupro”, e di una folcloristica “Chiesa dell’Eutanasia”, il cui slogan è Save the Planet, kill yourself (Salvate il pianeta, ammazzatevi). Decenni di studi, di impegno culturale, libri, riviste, per essere associati a questa roba? La tentazione, di fronte a tanta ottusità, di mollare tutto per disperazione è forte, ma va respinta per una serie di buoni motivi. Anzitutto, per non fare un favore a quanti vorrebbero farci fuori (intellettualmente parlando, beninteso), perché in tal modo lasceremmo ancor di più campo libero al fanatismo ideologico. In secondo luogo, perché il lavoro intellettuale, sebbene, per varie circostanze sfavorevoli, possa non produrre significative ricadute, è un valore in sé dal momento che, se condotto con rigore e onestà, consente di acquisire una lucidità e una consapevolezza delle poste in gioco altrimenti irraggiungibili. In terzo luogo, perché non è affatto detto che queste ricadute continueranno a non prodursi. Negli interventi di Ricci e Ariès è possibile scorgere proprio il timore che ciò avvenga. Scrive, ad esempio, Ariès che l’interesse mostrato da de Benoist per il tema della decrescita ha provocato a sinistra una certa agitazione (remous). Alcuni “ritengono che l’essenziale sia che si parli della decrescita. Essi, inoltre, ci assicurano che Alain de Benoist sarebbe finalmente diventato frequentabile”. Di qui le messe in guardia dei solerti Ricci e Ariès contro il pericolo che lo scontento per come va il mondo si indirizzi verso quelle “convergenze” auspicate da de Benoist e dai suoi amici, che vanno perciò demonizzati con la solita e disonesta pratica della reductio ad hitlerum. Il timore espresso dai due militanti non è, in prospettiva, infondato. Su parecchi temi posti dai teorici della “decrescita conviviale”, c’è molta più vicinanza e simpatia tra de Benoist e Latouche che non fra quest’ultimo e gli economisti di formazione rigidamente marxista come Ricci, il quale attacca duramente Latouche, accusandolo di essere portatore di un patrimonio culturale ambiguo, pericolosamente contiguo ad autori sulfurei come Heidegger, Jünger e addirittura Julius Evola. Dal canto suo, Latouche non è meno severo quando si scaglia, da posizioni di radicale relativismo culturale, contro l’altermondialismo, i suoi forum mondiali e le ONG (cfr. “Sono possibili altri mondi, non un’altra mondializzazione”, in Mauss/2, pagg. 23-39. Per uno spaccato delle divergenze che separano queste differenti anime della sinistra, si vedano gli interventi contenuti nel mensile Carta Etc. anno 1, numero 4, novembre 2005).

Malgrado questi problemi di convivenza, sino ad oggi la parte più inquieta e movimentista della sinistra ha cercato di risolvere la questione del rapporto con il “politico” e la politica prendendo come punto di riferimento e sbocco del suo agire le formazioni e le correnti della sinistra estrema inserite nel Palazzo (in Italia, è il caso di Rifondazione comunista e dei verdi) quali cinghia di trasmissione istituzionale delle esigenze più radicali espresse nel sociale dal “popolo di sinistra”. È questo lo schema rintracciabile, ad esempio, nel testo di Carla Ravaioli Un mondo diverso è necessario (Editori Riuniti) o negli articoli di Serge Latouche “Ma la decrescita è di destra o di sinistra?” (in Liberazione, 9 ottobre 2005) e Pierluigi Sullo “Il presidente Bertinotti”, (su “Carta” del 3 maggio 2006). Questo schema è, tuttavia, estremamente debole e i primi a saperlo sono proprio i suoi teorizzatori che, con Carla Ravaioli, scrivono che “nulla del genere è per ora all’orizzonte”. Si potrebbe aggiungere qualcosa di più, ossia che, alla luce dell’esperienza, esso è stato clamorosamente bocciato. La sinistra movimentista, da quando è entrata nelle stanze dei bottoni (e dei “bottini”), si è prodotta in una serie di prestazioni decisamente avvilenti: una delle bandiere del movimento, la questione del “no” all’alta velocità in Val di Susa, è stata alquanto ammainata: non se ne sente più parlare molto, e quando ciò accade, i toni sono decisamente più sfumati rispetto a qualche tempo addietro; il sì alla presenza di truppe italiane in Libano e in Afghanistan (con il caso, fra il melodrammatico e il comico, delle dimissioni, poi rientrate, del deputato di Rifondazione comunista Paolo Cacciari, fratello del più noto Massimo) colloca oggettivamente questa parte della sinistra, una volta diradata la nube della retorica pacifista, nel ruolo di sostenitrice della politica estera statunitense e dei progetti di dominio regionale di Israele. Pensare che la sinistra vicina (a parole) ai movimenti possa davvero, in queste condizioni, svolgere una funzione significativa, è qualcosa che ha a che fare più con l’atto di fede che con l’analisi realistica delle cose. Le pagine di Comunità e decrescita hanno, dal nostro punto di vista, anche l’indubbio merito di porre la cosiddetta nuova sinistra davanti al nodo di queste sue contraddizioni. Solo il tempo ci dirà se essa le scioglierà continuando a rifugiarsi tra le braccia della madre matrigna (la sinistra istituzionale), o se troverà il coraggio di percorrere strade non ancora battute.