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Intervista a Costanzo Preve

di Costanzo Preve; Gianni Petrosillo; Gianluca Amodio; Elianna Zirpoli - 27/11/2006

Pubblichiamo sul blog (cliccare a fianco) un intervista a Costanzo Preve, a cura di Gianluca Amodio e Gianni Petrosillo (e con la gentile collaborazione di Elianna Zirpoli). Le motivazioni che ci hanno spinto ad effettuare questa intervista sono molteplici, a cominciare dalla messa al bando del filosofo torinese da parte della cosiddetta sinistra marxista, la quale ha fatto presto a liquidarlo in quanto revisionista (nel migliore dei casi) o persino fascista (nel peggiore dei casi). E’ indubitabile che esiste una crescente divaricazione tra le nostre posizioni e quelle di Preve, ma ciò non è sufficiente ad escludere dal dibattito, politico e filosofico, una persona che tanto ha dato, e tanto continua a dare, al rinnovamento del pensiero marxista, contro l’imbalsamazione messa in atto dalla Scolastica Marxista Imperante, quest’ultima fortemente ancorata a categorie che non spiegano più nulla dell’attuale sistema capitalistico ma che forniscono una sicura carriera accademica.

Il merito di Preve è stato quello di non sottrarsi alle nostre domande, a volte anche un po’ “irriverenti”, almeno per quel che ha riguardato le sue ultime scelte editoriali. A nostro avviso i luoghi del dibattito filosofico e politico non sono mai neutri e scegliere una platea piuttosto che un’altra può avere delle conseguenze nefaste (strumentalizzazioni e operazioni di “riverginizzazione” di personaggi un po’ loschi), o al minimo, può determinare la dispersione di idee giuste (e di forze) le quali, se seminate su un campo più “fertile”, hanno maggiore possibilità di attecchimento (del resto, come dirà lui stesso in questa intervista, il dibattito tra “consanguinei” o tra "viciniori" è certo più proficuo). E’ nostra convinzione che il problema non stia nella decisione di pubblicare o meno un saggio con le Edizioni del Veltro o Settimo Sigillo (delle cui buone intenzioni non dubitiamo affatto) come ha fatto Costanzo Preve, quanto piuttosto quello di scegliere il campo più ricco di humus, al fine rompere certe incrostazioni e liberare il marxismo dai suoi veri detrattori (come al solito i nemici peggiori “marciano nelle nostre stesse scarpe”). E non è un caso che la cosiddetta sinistra comunista fa qui orecchie da mercante mentre gli ex-destri hanno almeno il merito di essersi rivelati più ricettivi. C’è, là fuori, una sinistra “pseudo-purista” che pur lanciando parole d’ordine velleitarie raccoglie innumerevoli consensi (grazie a “violenti” militanti ammaestrati e “ricchi” committenti istituzionali che li foraggiano), e che ha come compito precipuo quello d’impedire la coagulazione, su nuove basi, di forze realmente antisistemiche, finalmente riunite intorno ad un pensiero (di matrice marxista) capace di rinnovarsi. Concediamo, perciò, due attenuanti a Preve: 1) l’ostracismo impostogli dalle tradizionali case editrici di sinistra, le quali gli hanno preferito il più letterario (nonché più “monetizzabile”) “Clan Negri” 2) L’aver creduto, sulla base di un ragionamento tutt’altro che errato, che essendo ormai divenute destra e sinistra due immagini speculari di una stessa logica sistemica, da qualche parte occorreva pur incominciare per infrangere lo "specchio". E’ stata sicuramente la strada più breve che si potesse intraprendere per rompere il silenzio, ma questa scelta non è stata priva di conseguenze per lui.

Inoltre, c’è sempre la rete, per cui quando Preve lo vorrà potrà inviarci le sue riflessioni o i suoi discorsi filosofici (che restano quanto di meglio ci sia oggi in circolazione) e noi saremo lietissimi di pubblicarglieli. Lo prenda come un investimento, visto che la sistematizzazione di tutto quello che scriverà potrà sempre avvenire in futuro, c'è ancora molta gente intelligente in giro.

Detto questo, vi lasciamo a questa lunga intervista (un quasi saggio) ricchissima di spunti di riflessione che, sicuramente, aprirà un interessante dibattito.

 

Pubblichiamo sul blog (cliccare a fianco) un intervista a Costanzo Preve, a cura di Gianluca Amodio e Gianni Petrosillo (e con la gentile collaborazione di Elianna Zirpoli). Le motivazioni che ci hanno spinto ad effettuare questa intervista sono molteplici, a cominciare dalla messa al bando del filosofo torinese da parte della cosiddetta sinistra marxista, la quale ha fatto presto a liquidarlo in quanto revisionista (nel migliore dei casi) o persino fascista (nel peggiore dei casi). E’ indubitabile che esiste una crescente divaricazione tra le nostre posizioni e quelle di Preve, ma ciò non è sufficiente ad escludere dal dibattito, politico e filosofico, una persona che tanto ha dato, e tanto continua a dare, al rinnovamento del pensiero marxista, contro l’imbalsamazione messa in atto dalla Scolastica Marxista Imperante, quest’ultima fortemente ancorata a categorie che non spiegano più nulla dell’attuale sistema capitalistico ma che forniscono una sicura carriera accademica.

Il merito di Preve è stato quello di non sottrarsi alle nostre domande, a volte anche un po’ “irriverenti”, almeno per quel che ha riguardato le sue ultime scelte editoriali. A nostro avviso i luoghi del dibattito filosofico e politico non sono mai neutri e scegliere una platea piuttosto che un’altra può avere delle conseguenze nefaste (strumentalizzazioni e operazioni di “riverginizzazione” di personaggi un po’ loschi), o al minimo, può determinare la dispersione di idee giuste (e di forze) le quali, se seminate su un campo più “fertile”, hanno maggiore possibilità di attecchimento (del resto, come dirà lui stesso in questa intervista, il dibattito tra “consanguinei” o tra "viciniori" è certo più proficuo). E’ nostra convinzione che il problema non stia nella decisione di pubblicare o meno un saggio con le Edizioni del Veltro o Settimo Sigillo (delle cui buone intenzioni non dubitiamo affatto) come ha fatto Costanzo Preve, quanto piuttosto quello di scegliere il campo più ricco di humus, al fine rompere certe incrostazioni e liberare il marxismo dai suoi veri detrattori (come al solito i nemici peggiori “marciano nelle nostre stesse scarpe”). E non è un caso che la cosiddetta sinistra comunista fa qui orecchie da mercante mentre gli ex-destri hanno almeno il merito di essersi rivelati più ricettivi. C’è, là fuori, una sinistra “pseudo-purista” che pur lanciando parole d’ordine velleitarie raccoglie innumerevoli consensi (grazie a “violenti” militanti ammaestrati e “ricchi” committenti istituzionali che li foraggiano), e che ha come compito precipuo quello d’impedire la coagulazione, su nuove basi, di forze realmente antisistemiche, finalmente riunite intorno ad un pensiero (di matrice marxista) capace di rinnovarsi. Concediamo, perciò, due attenuanti a Preve: 1) l’ostracismo impostogli dalle tradizionali case editrici di sinistra, le quali gli hanno preferito il più letterario (nonché più “monetizzabile”) “Clan Negri” 2) L’aver creduto, sulla base di un ragionamento tutt’altro che errato, che essendo ormai divenute destra e sinistra due immagini speculari di una stessa logica sistemica, da qualche parte occorreva pur incominciare per infrangere lo "specchio". E’ stata sicuramente la strada più breve che si potesse intraprendere per rompere il silenzio, ma questa scelta non è stata priva di conseguenze per lui.

Inoltre, c’è sempre la rete, per cui quando Preve lo vorrà potrà inviarci le sue riflessioni o i suoi discorsi filosofici (che restano quanto di meglio ci sia oggi in circolazione) e noi saremo lietissimi di pubblicarglieli. Lo prenda come un investimento, visto che la sistematizzazione di tutto quello che scriverà potrà sempre avvenire in futuro, c'è ancora molta gente intelligente in giro.

Detto questo, vi lasciamo a questa lunga intervista (un quasi saggio) ricchissima di spunti di riflessione che, sicuramente, aprirà un interessante dibattito.

 

Gianni Petrosillo

INTERVISTA a Costanzo Preve (Torino, 0ttobre 2006)

A cura di G. Amodio e G. Petrosillo (un grazie speciale a Elianna Zirpoli)

PROLOGO (di C. Preve)

 

Sono molto grato ai compagni ed agli amici che mi hanno proposto questa intervista e così mi hanno fatto l’inestimabile favore di permettermi di articolare un ulteriore chiarimento pubblico delle mie attuali posizioni filosofiche e politiche. E questo per molte ragioni.

In primo luogo, perché sono uno degli “ultimi giapponesi” non ancora collegato in rete. Scelta che ho fatto anche e soprattutto per concedermi una maggiore concentrazione intellettuale. So di “tagliarmi fuori” da molti possibili stimoli e da molte informazioni, ma so anche (e la mia recente abbondante produzione credo lo dimostri ampiamente) che in questo modo non devo seguire il gossip diffamatorio contingente e la distrazione a corto respiro che questo inevitabilmente comporta. Non ho dubbi sul fatto che il cosiddetto futuro sia della rete. Ma personalmente sono legato ad una dimensione cartacea della lettura. Come direbbe il defunto Enrico Berlinguer, sono anch’io un “rivoluzionario conservatore”.

In secondo luogo, per poter rispondere bene bisogna che la qualità delle domande sia buona. La risposta cosiddetta “intelligente” dipende all’80% almeno dal fatto che la domanda deve essere intelligente. Il fallimento e l’irrilevanza della maggior parte delle interviste giornalistiche ai cosiddetti “pensatori” dipendono dal fatto che l’intervistatore del circo mediatico, espertissimo in adulteri di attrici ed in intrallazzi di politici, possiede in genere solo una mediocre informazione liceale sulle grandi questioni teoriche e filosofiche. Non è questo il caso di questa felice serie di domande.

In terzo luogo, infine, è forse la prima volta da qualche anno che vengo intervistato da intervistatori esplicitamente marxisti, antifascisti, ed anche di “sinistra” (al di là di distinguo e chiarimenti). Ne sono felice. A causa di quelli che definirò più avanti Gossip Strutturale-Funzionale (GSF) e soprattutto Interdizione Sciamanica per Contatto Impuro (ISCI), sono stato messo al bando dal Popolo della Sinistra Politicamente Corretta (PSPC). Ma lascerò da parte queste sigle althusserian-demenziali per chiarire subito alcune cose, su cui ritornerò ulteriormente più avanti, partendo dalla domanda sul cosiddetto “antifascismo”.

Ci vuole però subito un riorientamento gestaltico necessario. Io non sono un signore che scrive per case editrici di “destra”, ma sono un signore che scrive e pubblica a 360° gradi. Per me sono assolutamente equivalenti le case editrici Settimo Sigillo, Manifestolibri, Edizioni del Veltro, Editori Riuniti, eccetera. Mi si condanni per questo, se lo si vuole, ma non si fraintenda la mia posizione. Per me è assolutamente eguale sedermi accanto alla signora Rossana Rossanda o alla signora Alessandra Colla, e così pure sedermi accanto al signor Domenico Losurdo, al signor Adriano Sofri o al signor Claudio Mutti. Parto dal fatto, ovvio per qualunque persona intelligente, che io resto sempre me stesso, e che i corpi degli interlocutori non sono contaminati o contaminanti, tanto più in un’epoca storica in cui le ragioni per l’innesco dei tabù dell’impurità sono finite da tempo, e vengono mantenute solo per ragioni sistemiche.

Che cos’è allora il Gossip Strutturale-Funzionale? Spieghiamoci disaggregando i tre termini:

(1)     Gossip. Il gossip, o pettegolezzo politico-ideologico, è la manifestazione normale della comunicazione contemporanea. Gia nel 1927 in Essere e Tempo Martin Heidegger aveva diagnosticato i quattro fattori principali del problema, e cioè l’Anonimità (das Man), la Chiacchiera (Gerede), la Curiosità (Neugier) e l’Equivoco (Zweideutigkeit). Quattro fattori che si applicano molto bene al “caso Preve” (ma come? Non è più di sinistra? Ma allora è di destra! È diventato fascista! Allora vaffanculoo, ed altri Indymedia al posto del Capitale di Marx).

(2)           Strutturale. La forma comunicativa del gossip, peraltro, è assolutamente strutturale nel circo simulato contemporaneo. Questo Heidegger non poteva capirlo, perché rifiutava il metodo dialettico di Marx, che invece i francofortesi correttamente usavano.  In primo luogo, il gossip è strutturale perché impone strutturalmente l’iscrizione forzata e violenta all’Anagrafe Ideologica (AI), senza la quale non si ha diritto di cittadinanza nella simulazione politico-culturale, appunto sistemica. L’iscrizione forzata all’Anagrafe Ideologica sostituisce così la discussione teorica nel merito dei problemi. Se infatti, e questo è il secondo punto, la riproduzione sistemica avviene attraverso le protesi politologiche della contrapposizione simulata Destra contro Sinistra, la mancata iscrizione all’Anagrafe Ideologica comporta l’esclusione dal dibattito pubblico. Ora, io non ho effettivamente “rinnovato” la carta d’identità della Sinistra, carta che aveva in tasca a partire dal 1963 almeno. Il fatto che poi accidentalmente possa continuare a scrivere cose più o meno intelligenti sul marxismo e la filosofia non conta nulla, perché io ormai non sono più un cittadino, ma un “apolide”. E questo mio caso la racconta lunga, per chi vuole rifletterci sopra oggettivamente, sulla (non-) serietà del dibattito marxista in Italia. Se infatti l’iscrizione all’Anagrafe Ideologica conta più dei contenuti teorici espressi, si ha la prova provata del fatto che l’intellettuale di tipo “togliattiano” non viene giudicato per i suoi contributi, buoni o cattivi che siano, ma per la sua preventiva Acclamazione del Popolo di Sinistra, che è poi sempre e solo l’acclamazione di piccolissimi ceti intellettuali che si sono impadroniti degli “apparati ideologici”, come direbbe Althusser.

(3)Funzionale. Il mantenimento e la riproduzione del gossip strutturale è però anche funzionale alla riproduzione identitaria di appartenenza “militante” dei gruppi politici, sia grossi (bertinottiani, cossuttiani, eccetera) sia piccoli e piccolissimi (gruppi fondamentalisti neobordighisti, neostaliniani, neotrotzkysti, neotogliattiani, neo-operaisti, eccetera). Senza la messa in atto di procedure sciamaniche di impurità e di interdizione di “contatto”, procedure basate sul sospetto organicista che l’impuro potrebbe cambiare “natura”, non si avrebbe, e non sarebbe possibile, la riproduzione dell’identità gruppettara.

 

In definitiva, non mi scandalizzo affatto per essere da alcuni anni oggetto di gossip struttural-funzionale. Certo, considero cialtroni indegni di stima coloro che (e sono numerosi) sapendo perfettamente che continuo ad essere più o meno lo stesso studioso indipendente marxista-comunista di prima (spero che si prenda sul serio questa mia gratuita e tranquilla autodefinizione, emessa il 20.10.2006), hanno scelto un assordante ed opportunistico silenzio. Poveracci! Hanno totalmente paura di essere fatti oggetto anche loro di gossip  di aver paura anche della loro stessa ombra! E poi parlano di “democratizzazione della vita quotidiana” (Lukàcs) e di “camminare eretti” (Bloch)! Non si rendono neppure conto che il loro strisciare equivale a quello dei poveracci che, in epoca staliniana, toglievano il saluto agli scrittori dissidenti finiti sotto il mirino dei burocrati da cui dipendevano per il pane e per il companatico!

Ma terminiamo ora con il tema dell’Interdizione Sciamanica per Contatto Impuro.

 

 

Sono infatti costretto in questo breve prologo a ritornare sull'interdizione sciamanica per contatto impuro che ho dovuto sopportare in questi ul­timi anni. Sia ben chiaro che essa non mi fa né caldo né freddo, nè psicologicamente né umanamente. Per fortuna ho introiettato da piccolo il detto di mia nonna "chi non ti vuole non ti merita". Ma il problema qui non è appunto personale, ma politico e generale. Se infatti i contenuti teorici di chi viene messo al bando dal conformismo del politicamente cor­retto, del gossip strutturale-funzionale e dell'interdizione sciamanica per contatto impuro (Giuliano Ferrara e Adriano Sofri non ti renderebbero impuro, ma Marco Tarchi e Claudio Mutti sì), giusti o sbagliati che siano, non ven­gono più presi in considerazione nel dibattito politico-filosofico, allora si è di fronte ad una gravissima patologia della comunicazione. A mio avviso, l' origine sta nell'interpretazione togliattiana del concetto gram­sciano di "intellettuale organico ", per cui ciò che dici non ha alcun valore in sé, ma lo acquista soltanto se può essere "sussunto" nella linea politica, di­retta o indiretta, o del Moderno Principe (PCI-PDS-DS), o dei Moderni Principino (PRC di Bertinotti o PCDI di Cossutta), o dei piccoli nobili con i lori piccoli feudi gruppettaro-estremistici. Il "caso Preve", quindi, segnala una patologia gravissima che ci portiamo dietro da tempo, e questo del tutto indipendentemente dal giudizio o meno di "opportunità" (su cui torne­rò nella risposta alla terza domanda di Petrosillo) sulle mie scelte edi­toriali.

Questa è infatti la prima intervista che mi viene fatta da qualche anno da compagni marxisti e soggettivamente comunisti. Non posso che esserne gra­to e felice. Negli ultimi anni ho dato alcune interviste, che naturalmente non potevano entrare in circolo nel dibattito "comunista " a causa appunto dell'interdizione sciamanica per contatto impuro. In primo luogo ho dato al­cune importanti interviste alla rivista "Comunitarismo", in particolare a William Frediani ed a Maurizio Neri. Silenzio assoluto. In secondo luogo, ho dato alcune importanti interviste, che usciranno prossimamente in un libro, a Luigi Tedeschi per la rivista “Italicum”. Silenzio assoluto. In terzo luogo, ho scritto alcuni saggi che ritengo soggettivamente "marxisti" Stalin e Mao Tse Tung sulla rivista "Eurasia". Silenzio assoluto. In quarto luogo, per finire, ho concesso due interviste a Alain de Benoist ed a Giusep­pe Giaccio poi pubblicate in volume ( cfr, Dialoghi sul presente, Controcorrente, Napoli 2005). Silenzio assoluto. Non solo nessuna recensione nel me­rito, ma neppure nessuna segnalazione.

Sia ben chiaro. Non sto affatto lamentandomi, anche se i contenuti di tutti questi scritti sono del tutto compatibili, nel merito e nel metodo, con i dibattiti fatti sul "Manifesto " e su "Liberazione". Non ne faccio per nulla una questione personale, perché non sono nato ieri, e so perfettamente che oggi soltanto l'anagrafe ideologica conta, ed il resto non conta praticamente nul­la. La dicotomia sciamanica Puro/Impuro ha sostituito da tempo la vecchia dicotomia Giusto/Sbagliato, e solo coloro che sono dotati di coscienza filosofica dialettica sanno che si tratta solo della versione provinciale italiana (ma ci ritornerò più avanti) della vecchia categoria staliniana di "ne­mico del popolo", categoria responsabile prima dell'asfissia e poi della mor­te del libero dibattito marxista a partire dagli anni trenta.

L’ aspetto personale della questione in breve è questo, e cioè se si deve accettare o no l'Autocensura per Ricatto dell'Ambiente Circostante (ARAC). Si tratta di un vero problema. Personalmente, ho scritto fra il 1989 ed il 1994 otto libri per la casa editrice Vangelista di Milano, diretta da una cop­pia di comunisti tradizionali, che potrei definire brevemente togliattiano-staliniani. Bene, nessuno di questi libri fu, non dico recensito, ma neppure segnalato dal "Manifesto" o dall’ "Unità”. A me non faceva nè caldo nè freddo, ma agli editori sì, ed allora mi chiesero di "darmi da fare" con i miei presunti "amici intellettuali". Ebbene, un noto intellettuale romano collaboratore del "Manifesto" mi fece sapere che i numi tutelari del giornale non avrebbero sopportato la segnalazione di libri pubblicati da una coppia di "stalinisti", ed allora io dovevo sopportarne le conseguenze. In quanto all’ “Unità”, dovevo capire che ormai il marxismo era morto. Capito, morto, mortoo, mortooo !

Insomma, fra il 1989 ed il 1994 ho pagato per (presunto ed inesistente) stalinismo, e dal 2002 pago per (presunto ed inesistente) fascismo. Con questo chiu­do questo prologo, che non ho voluto in alcun modo "lamentoso ", ma solo veridico. E questo esclusivamente per rifiuto dell’ARAC. Rifiuto di cui mi ono­ro, e che distingue, per dirla con Sciascia, gli uomini dai mezzi uomini, dagli omuncoli e dai qua-qua-ra-qua.

E con questo, passiamo alle domande serie

DOMANDE A CURA DI GIANLUCA AMODIO

 

1) In una discussione sul pensiero e le interpretazioni di Marx svoltasi all'incirca un anno fa su Cassandra lei, prof. Preve, ha affermato che la crisi politica del marxismo è causata sostanzialmente da due fenomeni: l'ingente ed incessante sviluppo delle forze produttive avveratosi nelle differenti formazioni sociali capitalistiche, ben lungi dall'essersi trovate e dall'affrontare una fase di perdurante stagnazione, e la storica incapacità della classe - ossia dell'insieme - dei salariati di produrre una transizione verso un modo di produzione sociale non capitalistico.

         La sua valutazione ci sembra corretta e ben fondata; per dirla sinteticamente, coglie radicalmente il problema sia dal lato dell'oggetto che da quello del soggetto.

         Infatti, in relazione al rilievo a lei rivolto da Lillo Testasecca (Cassandra, n.15) circa l'assenza nell'opera di Marx di tesi stagnazioniste, riteniamo che, oltre ad un positivo riscontro testuale marxiano di quanto lei ha sostenuto, sia utile evidenziare che in genere per Marx un qualunque cedimento strutturale capitalistico avrebbe dovuto o dovrebbe pur essere inteso in termini di rallentamento delle forze produttive, non foss'altro che per la classica entrata in contraddizione con i rapporti di produzione vigenti.

         Riguardo, poi, al mancato e disatteso orientamento proletario del corso storico, pensiamo con lei che l'analisi svolta da La Grassa sia uno strumento indispensabile per comprendere come la dinamica capitalistica agisca costitutivamente stratificando e segmentando incessantemente il corpo della forza-lavoro, impedendo oggettivamente una significativa ricomposizione socio-politica delle soggettività lavorative; in altri termini, non si può continuare a disconoscere la mancata formazione del lavoratore collettivo cooperativo (General Intellect) - un elemento che, seppur storicamente inesistente, è altresì indispensabile nella teorizzazione marxiana al fine di un mutamento della produzione sociale data -, e a ben poco servono, e meno ancora serviranno in futuro, le belle   speranze riposte in un proletariato in sé unito, ma puntualmente assente (una consapevolezza, questa, che ancora oggi stenta ad affermarsi, tanto da apparire a molti una sorta di eresia, e non c'è da meravigliarsene, dato che viviamo nel paese dell'operaismo "di sinistra e di destra ", schiacciati tra l'incudine del sindacalismo corporativo connivente con il ceto politico dominante ed il martello del movimentismo che ormai non rivendica più nemmeno una propria "autonomia").

         Concordando, dunque, con i suddetti punti della sua riflessione - da noi ripresi, si spera, in maniera accettabile -, consci che ciò comporta una radicale presa d'atto circa i limiti del pur grande pensiero di Marx, correndo ragionevolmente il rischio di segare il ramo su cui ci si trova seduti - come ha ammonito Lillo Testasecca (Cassandra, n.15) -, le chiediamo quali elementi marxiani ritiene che possano oggi essere utilizzati per comprendere il divenire della società capitalistica ed eventualmente poter essere usati per produrre una rottura politica anticapitalistica?

2) Prof. Preve, una domanda anticipata da una lunga premessa - si spera non tediosa ed inutile - concernente quello che per noi è un punto ineliminabile di discussione, affinché si possa intraprendere consapevolmente un percorso teorico che si affranchi dalle solite ripetizioni, più o meno scolastiche, più o meno filologicamente dotte, del pensiero marxiano. D'altronde, i dubbi e le convinzioni che affacciamo sono intrecciati alla sua riflessione filosofica diretta, ormai da anni, ad una profonda rielaborazione delle più tradizionali categorie marxiane ed intenta ad un radicale ripensamento delle successive interpretazioni marxiste. Le poniamo il quesito, ben sapendo che l'argomento richiederebbe una nostra maggiore articolazione - ammesso  che se ne sia capaci -.

         Dal suo intervento Utopia e libertà risulta chiaramente il rifiuto che lei dimostra - certamente non da oggi - di fronte a tutti i tentativi passati e presenti propensi a ridurre il pensiero di Marx ad una specie di "scienza positiva" (da F. Engels, silenziosamente avallato dallo stesso Marx, passando per il catechistico Diamat, fino alla più recente teorizzazione althusseriana). In ragione di tale negazione, pur sempre attenta a riconoscere i pregi di ogni singola elaborazione, lei evidenzia le nefaste conseguenze occorse o il pericolo incombente in capo ad ogni posizione tesa a depurare la critica marxiana da ogni residuo utopistico, in quanto la via percorsa da tutti coloro che hanno perso di vista << l'orizzonte utopico >>, prima o poi, ha implicato il definitivo abbandono della << prospettiva anticapitalistica >>. In fondo, come lei afferma, auspicare l'utopia - un altro luogo - significa "soltanto" continuare a pensare la necessità di << una tendenza di trascendimento liberatore di un presente ingessato nei suoi rapporti di potere >>.

         Concordiamo con lei, dunque, stando a quanto sopra riportato, che non si possa sottovalutare il significato e men che meno si debba dimenticare la forza posseduta dal termine utopia al fine di un eventuale rivolgimento sociale. Tuttavia, ricordiamo anche la classica distinzione in uso nella manualistica del pensiero politico-filosofico tra socialismo utopistico e quello scientifico, consistente peraltro nella mera riproposizione di quanto stabilito da Marx ed Engels per differenziare il loro materialismo storico dall'insieme delle ipotesi di trasformazione sociale a carattere collettivo, sviluppate in particolare da R. Owen e Ch. Fourier.

         In sintesi, gli estensori del Manifesto ci pare che si ritenessero superiori agli altri perché essi finalmente avevano scoperto le leggi di sviluppo storico delle formazioni sociali a modo di produzione capitalistico, comprendendone appieno le relative contraddizioni, mentre i loro predecessori si erano limitati ad impostare delle anguste soluzioni del tutto impraticabili in quanto "esterne" - ovvero non intimamente connesse - all'imponente sviluppo della società capitalistica.

         In altri termini, Marx ed Engels, invece che proporre l'istituzione controllata di ristrette comunità manifatturiere, presumevano di aver decodificato la logica specifica dell'oggetto specifico, il capitalismo, fondando la loro proposta politica sull'osservazione delle forze produttive sociali, dal cui progredire in direzione di una sempre più vasta socializzazione credevano di trovare riscontro. Marx ed Engels, insomma, riteniamo che pensassero di avere dietro di sé il corso storico - meglio, di essere totalmente interni al suo divenire - e solo su questa base, ovvero la socializzazione delle forze produttive, per essi assolutamente non utopistica, potevano con sicurezza proclamare: "proletari di tutti i paesi unitevi"!

         Oggi, però, sappiamo quanto fosse infondata la loro posizione, difatti da tempo - a meno che si pensi al marxismo in termini prettamente identitari e fideistici - è svanita ogni ragionevole aspettativa circa la formazione di una comunità proletaria; peraltro, le incongruenze teoretiche insite nell'opera di Marx - quella che lei, a nostro avviso giustamente, ritiene essere stata un'oscillazione tra idealismo e positivismo - mostrano tutta la loro ampiezza. Ci sembra inevitabile, dunque, assumere che dall'analisi del modo di produzione capitalistico compiuta con la complessa strumentazione marxiana, per quanto acuta essa risulti - e non pochi sono gli studi di rilievo successivamente prodotti dai marxisti -, non sia assolutamente possibile dedurre la transizione del capitalismo ad altra formazione sociale. Ci sembra, inoltre, doveroso riconoscere che la riflessione marxiana "preveda" un determinato corso storico perché fortemente intrisa di una filosofia della storia di derivazione hegeliana - ed in tale consapevolezza non vi è alcuna valutazione negativa, convinti, anzi, di dover procedere oltre la rozza dicotomia idealismo/materialismo - e lei a tal riguardo può sicuramente renderci edotti (d'altronde, ad esempio, anche un testo di R. Finelli, Un parricidio mancato, sembra muoversi convintamente in questa linea di ricerca).

         In maniera più decisa, la seguiamo perfettamente quando ritiene (Cfr. Utopia e libertà) che il comunismo  è  da intendersi come << un'antropologia sociale contenuta in una filosofia della libertà, che utilizza in seconda istanza metodi razionali in economia (principio del piano) >>. 

         Tutte queste ammissioni - che da molti potranno essere considerate offensive, oltreché frettolose - per noi rappresentano una doverosa liberazione dall'insieme delle incrostazioni schematiche prodottesi nel corso della fine dell'800 e di tutto il '900 (per intenderci, quelle che si sono presunte sempre "scientifiche", Marx incluso); eppure, come ha affermato in più occasioni La Grassa, è pur sempre al pensatore di Treviri che ritorniamo per trovarvi qualcosa che aiuti a muoverci più o meno sensatamente nella società odierna.

         Lei, d'altra parte, estremamente critico verso ogni ipotizzata "autosufficienza del marxismo", tende a rivalutare pienamente il ruolo che la filosofia classica tedesca, precipuamente quella hegeliana, intesa come "filosofia della libertà", potrebbe svolgere nell'emendare quel progetto di "utopia comunista" di matrice marxiana. Potrebbe, dunque, riferirci su quali basi lei imposta la suddetta argomentazione, dato che la riflessione hegeliana ci pare che sia riuscita a tenere assieme i tratti caratteristici della libertà individuale moderna e quelli organici di una società non atomizzata solo a condizione di non negare la compresenza - seppur gerarchicamente ordinata - del sistema dei bisogni e dell' eticità dello Stato, ovvero dello spazio economico "borghese" e di una struttura di potere - a nostro modo di vedere - decisamente anti-utopica (detto volgarmente, una società ad indiscussa base mercantile controllata tramite la regolazione-mediazione del "ceto generale" amministrante lo "stato di polizia") ?

 

RISPOSTA ALLA PRIMA DOMANDA DI GIANLUCA AMODIO

 

Grazie per la domanda. Risponderò in tre punti. In primo luogo, farò alcune ulteriori riflessioni sulle considerazioni che svolgi. In secondo luogo, compendierò in quattro punti i contributi innovativi che a mio avviso e se­condo la mia modesta auto-interpretazione ho portato recentemente alla di­scussione marxista. In terzo luogo, infine, risponderò concisamente alla doman­da che mi poni alla fine del tuo intervento.

1. Partiamo dai due fattori che ricordi, e che è sempre bene ripetere ai sor­di ed a coloro che fingono di esserlo, e che definirò sordi-pigri, perché la loro finta sordità è funzionale alla loro reale pigrizia teorica ed anche politica. Il Pigro che si finge Sordo, ecco un protagonista della nuova Com­media dell'Arte dell'attuale declino della discussione marxista.

Si tratta di due evidenze storiche incontrovertibili, cui lo Struzzismo di chi mette la testa sotto la sabbia non sa rispondere: l’ evidente capacità delle formazioni sociali capitalistiche, vecchie (USA, Europa e Giappone) e nuove (India, Cina, Sud-Est asiatico) di sviluppare le forze produttive (Marx non sarà magari stato “stagnazionista" ma sicuramente sosteneva l'incapacità strategica del MPC di sviluppare le forze produttive, in nome di una retroda­tazione analogica errata con lo schiavismo e con il feudalesimo), sia pure in un contesto di degrado ecologico e di crisi antropologica del legame so­ciale, e l'evidente incapacità rivoluzionaria intermodale della classe operaia salariata e proletaria, unita all'evidente non-formazione del lavoratore col­lettivo cooperativo associato, del General Intellect, eccetera.

A queste due evidenze storiche si può rispondere in molti modi, che qui compendierò in due principali, che definirò dello Struzzismo Tradizionalisti­co e dello Struzzismo Futuristico.

Lo Struzzismo Tradizionalistico, basato in genere sulla rivendicazione della centralità della teoria del Valore-Lavoro come nucleo archimedico e geocen­trico del modello di Modo di Produzione Capitalistico, in primo luogo, e del carattere fondamentalmente "transazionale" (e cioè capace di transizione) del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991), in secondo luo­go, continua a sostenere che la classe operaia, salariata e proletaria, in quan­to classe-oggetto dello sfruttamento capitalistico inteso come estrazione del plusvalore assoluto e relativo, resta il solo vero soggetto strategico per la transizione comunista. Questo Struzzismo Tradizionalistico, marita­to con la Pigrizia Teorica, ha dato luogo a dei veri e propri "muli" incapaci di generare, e cioè gli struzzetti infecondi di tipo bordighista, trotzkista, stalinista, togliattiano, eccetera (cfr. C.Preve, Un Secolo di Marxismo, Editrice, CRT Pistoia 2003). Il codice genetico dello Struzzismo Tradizionalistico, in estrema sintesi, si basa su due presupposti tolemaici. Primo, il fatto che la classe salariata, operaia e proletaria sia l'oggetto (indiscutibile) dello sfruttamento capitalistico e della (indiscutibile) estorsione del plusvalore assoluto e relativo, da cui nasce il plusprodotto capitalistico diviso in modo scandalosamente ineguale (cosa che non contesto affatto, ma su cui anzi concordo pienamente), comporta automaticamente, sia pure con la necessaria mediazione coscienziale e politica del partito di tipo leninista, che essa sia anche il soggetto strategico della rivoluzione comunista globale (e definitiva, con tutte le conseguenze di fine metafisica della storia universale e di messianesimo laicizzato). Secondo, che le crisi stagnazionistiche e/o di sovrapproduzione capitalistiche, lungi dall'essere un benefico e ciclico modo di riaccumulazione e di innovazione capitalistica di prodot­to e di processo, e che in quanto cicliche possono andare potenzialmente avanti all'infinito fino allo spegnimento del pianeta terra nel sistema solare, debbano invece essere interpretate come segnali dell’incapacità strategica della produzione capitalistica di sviluppare le forze produttive. Sono questi i due elementi portanti dello Struzzismo Tradizionalistico. L’ esperienza ormai quarantennale mi ha definitivamente convinto del fatto che gli struzzisti tradizionalisti non intendono in alcun modo mettere razionalmente in discussione i loro presupposti, così come avviene per i Testimoni di Geova per la tradizione cristiana. Confrontarsi con loro è tempo perso, anche se a volte anche perdere tempo può essere divertente (parole crociate, eccetera). Lo struzzista tradizionalista non può letteralmente investire critica­mente le sue premesse, perché se lo facesse svanirebbe immediata­mente nell'aria, come avviene per gli affreschi delle catacombe improvvisa­mente esposti all'aria fresca.

Lo Struzzismo Futuristico (si veda la sua ultima bibbia in A.Negri, Good-bye Mister Socialism FeltrinelIi Milano 2006) non si basa invece per nulla né sulla supposta centralità della teoria del valore-lavoro nella riproduzione capitalistica, che anzi ha rifiutato esplicitamente da decenni, né sulla presunta investitura rivoluzionaria soggettiva della classe operaia, salariata e proletaria, cavallo di battaglia del precedente Struzzismo Tra­dizionalistico. Lo Struzzismo Futuristico, che è in realtà una forma di iper-soggettivismo economicistico, o più propriamente di iper-economicismo dello sviluppo delle forze produttive rispetto al quale quello di Engels e di Kautsky erano solo scherzetti per bambini, ha risolto il problema della individuazione del soggetto rivoluzionario, che il vecchio Lenin aveva razionalmente impostato in termini di alleanze di classe (altro che identifica­zione del leninismo con l’iper-operaismo unito ad una auto-investitura narcisistica di piccolo gruppo autoreferenziale!!!), con la fuga in avanti del­le Moltitudini agenti nel territorio di un Impero preventivamente deterritorializzato, e quindi reso virtuale. L’operaismo è rimasto sempre lo stes­so nell'ultimo mezzo secolo: il modo di produzione capitalistico è agito dal movimento originario del soggetto rivoluzionario, il che fa di questo presunto "marxismo" una forma estremistica del neo-idealismo di Giovanni Gentile, non importa poi se incongruamente definito "materialismo aleatorio". Non ci credete? E allora beccatevi questa recentissima citazione di Negri: "Le clas­si sottomesse vantano ormai un'arma assoluta, il sapere essenziale alla riproduzione del mondo...lo sciame moltitudinario sta sempre insieme... il policentrismo del capitale è ormai a rimorchio (sic! Nota mia) del policentrismo della moltitudine” (cfr. Negri, op.cit.p.144).Come si vede, lo struzzismo futuristico non coincide con lo struzzismo tradizionalistico, ma ha in comune con il precedente la derealizzazione onirica del mondo. Antonio Negri so­gna moltitudini onnipotenti così come Marco Ferrando sogna sollevazioni proletarie pure.

Devo però far notare ancora una piccola cosa. Lo Struzzismo Tradizionalistico non ha accesso alle pubblicazioni delle grandi case editrici, che lo con­siderano insopportabilmente rétro. Ma neppure Gianfranco La Grassa vi ha accesso (cfr.il suo ultimo Il Gioco degli Specchi, Ermes, Potenza 2006). Lo Struz­zismo Futuristico di Negri ( le moltitudini , il comune, e via fantasticando) ha invece accesso diretto a Feltrinelli, Manifestolibri, Rizzoli, eccete­ra). Che significa questo?

Significa, in breve, che i gruppi intellettuali dominanti negli, apparati ideologici, giornalistici ed editoriali della Sinistra Fantastica, gruppi intellettuali formatisi nel ventennio 1975-1995 sulla base della critica postmo­derna alla modernità e della sostituzione brutale e totalitaria della li­nea Nietzsche-Heidegger (via Deleuze-Guattari) alla linea Hegel-Marx, si sono oggi riunificati e "riconosciuti" nello Struzzismo Futuristico di Negri, e rifiutano con il silenziamento e la censura sia lo Struzzismo Tradizionali­stico sia la messa in discussione radicale dello Struzzismo alla La Grassa ed alla Preve (mi si perdoni una innocua autocitazione). Non intendo certo ridurre il dibattito teorico a pura sociologia dei rapporti di forza, di visibilità e di silenziamento fra gruppi intellettuali. Ma le cose stanno anche così.

Finiranno presto? Nessuno lo sa. Almeno, io non lo so. La mia prognosi è però pessimistica. Questi gruppi intellettuali, narcisisti, autoreferenziali e violenti, di mezza età e pertanto con alcuni decenni ancora di prospet­tive di sopravvivenza biologica, incarnano una sorta di "stalinismo postmoderno", e cioè di contenuti postmoderni, imposti con i vecchi metodi di esclusione e di diffamazione di tipo stalinista-togliattiano (vedi le insuperabili pagine culturali del quotidiano "II Manifesto"). Lo Struzzismo Futuristico è in­fatti la loro ideologia spontanea di fuga dalla realtà, così come i circenses di Veltroni incarnano oggi l'estetica massificata di questo periodo di decadenza politica e sociale. La Grassa si aspetti il silenziamento, come Negri si aspetti l'amplificazione dell'innocuo chiacchiericcio di sinistra. Compagni, non c'è più la Classe operaia, salariata e proletaria ma ci sono ancora, e furoreggiano, e vinceranno, le Moltitudini!

A suo tempo Giacomo Leopardi ha irriso ai credenti nelle "magnifiche sorti e progressive". Avevi ragione vecchio Giacomo! Se ora fossi ancora vivo scrive­resti un secondo capitolo delle tue considerazioni sui difetti storici degli italiani. Popolo incapace di tragedie, e capace solo di consumare dram­mi satireschi! Lo Struzzismo Futuristico delle Moltitudini cui ormai il capi­tale sarebbe "a rimorchio", è oggi l'ideologia dominante di un ceto intellettuale "suonato", e tanto più feroce quanto più suonato.

2. Ma concludiamo sul primo punto evocato da Amodio. Voglio infatti fare una breve riflessione sul motto "solo uno sciocco sega il ramo su cui è sedu­to evocato da Lillo Testasecca. Testasecca è uno studioso preparato e generoso, ma è anche un “continuista radicale", ed oggi a mio avviso il continui­smo ci fa solo perdere tempo e contribuisce a rimandare la resa dei conti teorico-politica di cui abbiamo bisogno. Non a caso Testasecca non vuole as­solutamente la Terza Forza ma si muove in quel terreno di confine e piena­mente borderline della Sinistra Critica-Critica (SCC), in cui c’è sempre Cassandra e non c'è mai Antigone. Fuor di metafora, c'è sempre il pro­fetismo rivolto ai re d'Israele ed ai principi degli Achei, e non c'è mai la consapevole violazione delle regole del gioco.

Con questo non intendo dire che io sono invece un discontinuista radicale a priori e per principio. Ispirandomi al principio dialettico della congiuntura storica presente, per me a volte c'è bisogno di Continuismo ed a volte di Discontinuismo. Per esempio, io sono continuista rispetto all'ap­provazione per la rivoluzione russa 1917, e sono un continuista filosofico della linea Spinoza-Hegel-Marx contro i discontinuisti post-moderni. E potrei fave molti altri esempi. Dunque, per favore, niente dispute inutili su di una opposizione astratta Continuismo/Discontinuismo.

Ragioniamo piuttosto sulla metafora del "ramo", che solo uno sciocco seghereb­be se c'è ancora seduto sopra. Ma siamo proprio sicuri che ci siamo ancora seduti sopra, o piuttosto siamo doloranti da tempo con il culo per terra? E poi, per continuare con la metafora del ramo, tenersi stretti ad un ramo che la corrente impetuosa trascina verso una cascata non è altrettanto stupido?

Io non penso che siamo seduti su di un ramo chiamato "marxismo". Io penso invece che siamo bensì seduti, ma seduti su di un grande albero frondoso con profonde radici, che è l'albero della tradizione filosofica razionalistica e dialettica, che c'era prima di Marx e ci sarà dopo Marx, e di cui Marx è an­cora un ramo fiorito mentre nell'essenziale il marxismo è già da tempo un ramo spezzato, e spezzato dalla storia, non da uno sciocco che ha deciso di segarlo. Le metafore non sono mai innocenti.

Ed ora, passiamo al secondo punto.

3. Riassumendo qui sinteticamente i contributi che soggettivamente penso di aver portato fino ad oggi (2006) al dibattito sul marxismo li riassumerei in quattro punti fondamentali: una lettura radicalmente problematica di Marx; un tentativo di mettere le basi storiografiche e metodologiche per una storia marxista del marxismo; un' interpretazione dello statuto filosofico del pensiero di Marx in termini di idealismo e non di materialismo; ed infine, una ridefinizione del materialismo come metodo per la deduzione sociale delle categorie.

Mi permetterai di chiarire questi quattro punti uno dopo l'altro separatamente.

4. In primo luogo (cfr.Marx inattuale, Bollati Boringhieri, Torino 2004), ho cercato di produrre un’interpretazione radicalmente problematica di Marx, sulla scorta di numerosissime letture problematiche di Marx precedenti, ma ritengo ancora, più radicale. Questo non può che rendermi odioso a due par­titi teorici opposti, quello che vuole gettare definitivamente Marx nella spazzatura del pensiero metafisico, forte, utopico-autoritario, totalitario, deterministico-ottocentesco, potenzialmente responsabile di Stalin e di Pol Pot, e via sacramentando, da un lato, e quello invece che teme che una interrogazione troppo problematica di Marx possa dare via ad un fuggi-fuggi generale dissolutivo, possa segare il ramo in cui siamo sedu­ti, ed in questo modo Marx non possa più "servire" come fattore identitario di mobilitazione ideologica, dall'altro. Esempio della prima reazione la stroncatura di Bencivenga sulla "Stampa", ed esempio della seconda reazione la stroncatura di Pasquinelli su "Praxis". Questa curiosa simmetria mi confer­ma che ho probabilmente preso la strada buona.

Che significa radicalmente problematica? Significa che Marx non ha mai coerentizzato il suo sistema teorico, e non certo perché voleva virtuosamen­te lasciarlo "aperto", ed altre sciocchezze derivate dal totem postmoderno della cosiddetta "complessità”, ma perché ad un certo punto è stato travolto proprio dalla rivoluzione scientifica che ha contribuito ad effettuare. II chiacchiericcio apologetico sul fatto che ha fatto benissimo a non "chiudere" il suo sistema (che come è noto fu poi "chiuso"-con le belle conseguenze che conosciamo- dal duo Engels-Kautsky nel ventennio 1875-1895), lasciando­lo virtuosamente aperto, nasconde il vero problema. Ed il vero problema sta a mio avviso in ciò, che la compresenza contraddittoria di teorie incompatibili in Marx (sul valore, sul comunismo, sulla democrazia, sullo statuto della filosofia), per non parlare poi delle previsioni radicalmente errate (sull'incapacità "modale" del capitalismo di sviluppare le forze produttive, sulla capacita “modale" rivoluzionario-comunista della classe operaia, salariata e proletaria di effettuare una stabile strategia globale anticapitalistica, eccetera), fanno sì che sia impossibile un ritorno a Marx.

E’ oggi di moda (ma non penso più per molto) presso nicchie marxologiche universitarie, dilettanti ideologici chiacchieroni, eccetera, pensare che sia pos­sibile e necessario un ritorno a Marx sulla base di una ascesi filologica assoluta (esemplari i lavori di Fineschi), e che questo ritorno possa svol­gersi saltando un secolo di marxismo come grande equivoco e penoso fraintendimento. Ma questo ritorno è impossibile, perché dovrebbe ritornare ad un nodo di contraddizioni irrisolte e non coerentizzate.

Gettare via Marx, allora? Ma neppure per sogno. Smetterla invece con l'idea generosa ma errata (Gramsci, Lukacs, eccetera) della cosiddetta autosufficienza del pensiero di Marx. Inserire Marx all'interno di una tradizione più ampia come momento  di un pensiero della libertà, dell'eguaglianza e dell'emancipazione . Considerarne gli errori, le reticenze e le ingenuità come momenti fisiologici di un progetto ammirevole, e cominciare a considerarlo cro­me Hegel considerava il pensiero precedente a lui, cioè come qualcosa che aveva bisogno di una Aufhebung, e cioè di un superamento-conservazione.

Un'ultima aggiunta. Personalmente, non mi ritengo assolutamente in grado di compiere questa Aufhebung. Posso assicurarvi che mantengo il senso delle proporzioni. Ritengo invece, e lo rivendico con tranquilla fierezza, di avere aperto una prospettiva metodologica corretta. Le stroncature antitetico-polari alla Bencivenga-Pasquinelli mi scivolano addosso come acqua fresca, in quanto so bene che non toccano me come persona empirica, ma esprimono due forme esemplari, apparentemente opposte ed in realtà ridicolmente convergenti, della stessa riduzione. E la riduzione sta in ciò, che Marx deve essere "ridotto" rispettivamente ad esempio di metafisica