Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / George W. batte Roosevelt

George W. batte Roosevelt

di Guglielmo Ragozzino - 28/11/2006

 
La guerra irachena è da ieri la seconda guerra più lunga che gli Stati uniti abbiano combattuto. L'altro ieri, il nostro titolo sul «1303º giorno di pace» cercava di mettere in evidenza che il presidente George W. Bush aveva dichiarato la fine della guerra un po' in anticipo, già nella primavera del 2003. Poi le cose sono andate diversamente.


Ormai, la durata della guerra irachena ha superato quella della II guerra mondiale, vista dagli Stati uniti. Per essi è cominciata infatti il 7 dicembre del 1941. Anche allora con un attacco non preceduto da una dichiarazione di guerra. La differenza è che questa volta l'attacco non è stato portato contro gli americani, come a Pearl Harbor, ma sono stati essi a bombardare, senza preavviso, Baghdad, distruggendo con bombe giganti e missili il ristorante dove sarebbe dovuto essere, secondo gli spioni, Saddam Hussein.

Da quel fatidico, glorioso inizio, 2.867 militari americani sono caduti combattendo in Iraq, secondo la contabilità che alcuni giornali contrari alla guerra, come per esempio Internazionale, tengono in buona vista. Un numero terribile. Ancor più terribile è il conteggio, molto meno noto, delle persone uccise dalle operazioni militari degli americani e di tutti gli altri che sparano o usano bombe in Iraq: sono un numero compreso tra 47.781 e 53.014. Nel paese, conquistato o liberato che sia, la guerra continua. Le cifre questa volta sono di www.Iraqbodycount.org, e la stessa incertezza tra un massimo e un minimo descrive un altro aspetto di una guerra tanto asimmetrica: di qui i ragazzi che tornano a casa composti e coperti da una bandiera; di là donne, bambini, uomini, divenuti bersagli o anche «effetti collaterali» in una guerra che riguarda altri e uccisi dai colpi sparati dagli eserciti regolari, dai paramilitari e dagli insorti che si disputano il campo. Una delle tante che si combattono negli anni dell'Impero.

La guerra che non finisce mostra che la convinzione degli Stati uniti di potere fare il bello e il cattivo tempo nel mondo è già superata. Insieme è tramontato anche l'impero, ammesso che ci sia mai stato. L'impero era la convinzione che molti avevano di un mondo dominato da un potere supremo, culturale e politico oltre che militare, cui tutti gli altri dovevano sottomettersi. La guerra era anche lo strumento per convincere i riottosi; la tortura il mezzo per spingere qualche dissenziente a più miti consigli e per insegnare a tutti, anche con l'esempio di Abu Ghraib, la democrazia. Ma, pur senza l'aquila imperiale, la guerra resta.

Spesso si è detto che l'attacco all'Iraq era causato da una estrema guerra per il petrolio, per controllare la fonte mediorientale. Molti documenti originati alla Casa bianca, culmine del potere, e diffusi dal ministro del Tesoro di Bush, Paul O'Neil (nel libro di Ron Suskind, «I segreti della Casa bianca») lo provano. Inoltre Saddam era padrone del petrolio e contava di commerciarlo in euro. Bisognava fermarlo, fargli guerra, sconfiggerlo. Ma non è necessario che ci sia petrolio da disputare, per fare la guerra. Altri motivi si possono sempre trovare. La guerra, contro chiunque, è un valore in sé: formidabile mezzo per arricchire i più ricchi, è capace di mettere in riga le classi subalterne. Figuriamoci poi la guerra che esporta la democrazia e l'american way of life.