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Manifesto ecologico per una Europa diversa

di Denis de Rougemont - 30/11/2006

 

L’Europa è ancora ossessionata dagli spettri ideologici di questi ultimi secoli, di cui i fantasmi econo-maniaci (l’ossessione dell’economia) sono diventati la realtà, mentre la realtà vivente è diventata fantastica.

Se consideriamo quello che accade e quello che ci si può aspettare, ci accorgiamo che la nostra società è lungi dal divenire più sicura, più sana, più pacifica come un tempo si sperava; vi è anzi una perdita di senso, di qualità e di soddisfazione. In numerosi casi. I successi del progresso si rivelano più disastrosi dei suoi insuccessi.

Sono sempre più numerosi gli europei convinti che la via attuale ci stia conducendo verso una sempre maggiore disoccupazione, una crescente inflazione, più dilemmi energetici, l’esaurimento delle risorse non rinnovabili e la distruzione dell’ambiente, verso un aumento della radioattività e del deterioramento genetico; che essa ci stia conducendo alla degradazione dello spazio libero, della calma e della serenità, all’estinzione di specie vegetali e animali, alla corsa agli armamenti e a gravi tensioni Nord-Sud. Tutti questi fenomeni sono i sintomi di una crisi di civiltà.

E’ assai diffusa l’opinione che questi mali siano accidentali, e che, per liberarsene, sarebbe sufficiente una più ampia applicazione della scienza, di una tecnologia più efficace, di disposizioni legali più cogenti. Si tratta di una profonda illusione; così come è aberrante la credenza che sia sempre possibile, o addirittura desiderabile, una crescita sotto forma di accrescimento della produzione industriale. Dopo due secoli di espansione dell’industria, la nostra società si trova oggi ad un bivio. E se ci si dovesse intestardire a proseguire sulla stessa via, la desertificazione spirituale diventerebbe irreversibile e le distruzioni fisiche raggiungerebbero proporzioni inimmaginabili.

Non si tratta però di una fatalità. Siamo ancora in tempo a prendere un’altra direzione. Bisogna tuttavia, perché ciò avvenga, che la realtà della crisi sia riconosciuta dall’insieme di coloro che prendono decisioni in materia di economia e politica; il che significa che dovrebbero fare la loro comparsa nuovi politici e nel contempo nuovi imprenditori, capaci di rimanere a stretto contatto con le popolazioni. Per ottenere un simile risultato, occorre che l’opinione pubblica prenda più seriamente coscienza delle realtà e che il cittadini abbia fiducia in se stesso.

Ecco alcuni cambiamenti che dovrebbero essere prioritari:

 

  1. Al di là della tecnocrazia

Alla base delle diverse manifestazioni della nostra crisi c’è la mania di espansione, di dominio e di sfruttamento. Essa mette l’uomo contro l’uomo, l’uomo contro la natura, lo Stato contro l’individuo, l’imprenditore contro il lavoratore. Essa allontana le persone dalle radici, dalla famiglia, dai concittadini. Essa porta al materialismo, al potere centralizzato, alla burocrazia, al gigantismo. Tutto ciò è stimolato dalle concezioni della mentalità industriale che penetrano i mezzi d’informazione, le politiche governative e persino il funzionamento dei partiti politici.

Il comune denominatore di tutto questo è la tecnocrazia, ovvero la sottomissione dell’uomo e dell’intero sistema di vita alle esigenze degli strumenti amministrativi e tecnici, diventati anch’essi sistemi in se, indipendenti dai bisogni dell’uomo. Insomma, è un’usurpazione di potere e il dominio sulla società di coloro che dovrebbero essere invece al suo servizio.

Ad Est come ad Ovest si soffoca sotto la pressione di questo sistema tecnocratico ed espansionistico, la cui crisi dipende dalla sua stessa natura e non può dunque essere superata da coloro che l’hanno causata. Il potere centralizzato ed alcuni interessi privati, coagulati in istituzioni, fanno da ostacolo all’innovazione sociale, spirituale o politica, ad un livello tale che gli eletti, invece di agire da rappresentanti del popolo, si trovano costretti a fare più o meno causa comune con la tecnocrazia. Le forze che controllano la società della crescita industriale eliminano, come un filtro, qualunque politico che abbia in animo di opporvisi.

Da alcuni anni a questa parte possiamo nondimeno constatare che una parte sempre più grande della popolazione, quale che sia la sua età, la sua condizione, il suo livello di informazione, cerca di modificare questa situazione, ed insieme ad essa il proprio stile di vita. Di persone di questo genere se ne contano già a milioni in Europa, ma esse si scontrano con un potere tecnocratico onnipresente e senza volto che cerca di paralizzarne le iniziative, le speranze, l’impegno. Esse cominciano tuttavia ad unirsi al di là delle frontiere degli Stati, delle classi e dei gruppi di interesse. Una nuova mentalità inizia a propagarsi.

 

  1. Una comunità di comunità

La parola “democrazia” sta a significare che il potere politico appartiene al popolo. La centralizzazione del potere ne è dunque la negazione. Salvo eccezioni, il potere non dovrebbe essere delegato a qualche anonima istanza centrale dello Stato: dovrebbe essere esercitato all’interno di collettività sociali ed economiche a misura d’uomo. Le strutture dominanti degli Stati proibiscono inoltre qualsiasi integrazione reale da parte loro in un insieme più vasto. Per convincersene, basta vedere l’impasse in cui l’Europa sta logorandosi, a paragone delle speranze di unificazione che si nutrivano vent’anni orsono.

L’Europa unita, esattamente come ciascuno dei paesi che la formeranno, deve diventare una comunità di comunità organiche che, a tutti i livelli e in tutti i campi dell’attività umana, si sostituiranno alle attuali gerarchie di poteri. Lungi dal fidarsi della potenza dei “grandi”, ciascuna comunità dovrà tanto più contare su se stessa in quanto le superpotenze hanno dimostrato di eccellere soprattutto nella distruzione.

Gli Stati nazionali non sono evidentemente in grado di risolvere molti problemi fondamentali, sia sul piano globale sia a livello locale. Per questo motivo dobbiamo operare alla costituzione di una federazione di regioni autonome, ciascuna delle quali si organizzi in una democrazia della partecipazione e della previsione.

 

  1. Innovare la democrazia della partecipazione e della previsione

In ogni struttura complessa, occorre la partecipazione armonica di tutte le componenti perché il suo funzionamento sia elastico e soddisfacente per l’insieme. In una struttura societaria, la partecipazione dei cittadini deve essere tanto più avanzata quanto più si rifiuta una società uniforme (o in uniforme). Ciò implica l’emancipazione delle popolazioni, non sono in quanto a diritti ma anche in quanto a responsabilità. Per uscire dall’attuale dilemma – immobilismo o totalitarismo – è necessario rivedere l’attuale sistema dei partiti o quantomeno prendere in considerazione approcci politici che ad esso siano complementari. Sarebbe meglio incoraggiare le associazioni di militanti non conformisti, piuttosto che reprimerle. Bisogna far accettare ai cittadini l’idea che possono influire efficacemente sul corso degli eventi, che il futuro è una cosa di cui si possono anticipatamente ipotizzare i vari corsi possibili. In una democrazia padrona del proprio destino, essi devono poter intervenire sin dalla concezione dei progetti e non soltanto nel momento in cui essi vengono decisi o quando si passa ad eseguirli. Oggi essi si vedono esclusi persino da quest’ultima fase.

L’autonomia delle comunità di base (self-reliance) è la risposta logica all’aggressione del potere centrale. Non è possibile porre un ostacolo alla disintegrazione del nostro ambiente, alle megatecniche concentrazionarie, all’alterazione urbana o rurale, ai programmi autostradali, se il potere di decisione non spetta a comunità locali federate nelle quali i cittadini possano esprimere i loro bisogni e determinare essi stessi, con calma, il proprio modo di vita. Ciò implica il diritto per chiunque di avere accesso in anticipo ad un’informazione completa su ogni aspetto interessante la vita comunitaria. Grazie all’innovazione sociale, individui o gruppi potranno controllare la tecnologia invece di essere dei collaborazionisti, vittime della macchina tecnocratica.

 

  1. L’energia a servizio dell’uomo

La macchina tecnocratica esige la crescita energetica anche quando marcia a vuoto. Ma il quesito fondamentale in materia di energie, oltre al problema delle risorse e a quello del capitale, è semplicemente quello che segue: la società è stata e sarà, si o no, più felice e più stabile a forza di consumare più energia?

Abbiamo ogni motivo di pensare che non è stato e non sarà così. Le prospettive tecnocratiche fanno prevedere un legame sempre più stretto fra, da una parte, le strutture centralizzate di approvvigionamento energetico (a predominanza nucleare) e, dall’altra, il potere militare e il controllo poliziesco. Gestire le crisi di un simile genere di sistema diventa una finalità in se, il che sembra giustificare il rafforzamento delle strutture di dominio, anche in società che si dicono democratiche.

Il grande sconfitto è il cittadino, che vede svanire i margini di autonomia e la libertà di autodeterminazione; non gli resta più altra soluzione se non evadere oppure optare, per reazione ad una sensazione di esclusione o per angoscia, per vie estremiste. Più energia si consumerà e più profonde saranno non solo la distruzione dell’ambiente, ma anche le crisi sociali, politiche e militari.

Si impone un cambiamento radicale: sostituire le strutture e gli obiettivi tecnocratici con obiettivi e strutture ecologici capaci di mettere un termine alla corsa all’energia, di soddisfare meglio i veri bisogni e di fare un decisivo passo avanti verso un’autentica democrazia.

 

  1. Il diritto a un’attività che abbia un significato

Perché una società sia sana, il lavoro deve essere portatore di senso per tutti. Sin dall’infanzia, l’individuo deve essere posto direttamente a confronto con le sfide materiali o sociali della totalità dell’opera alla quale partecipa, e non ad una frazione insignificante della realtà.

Nelle nostre società moderne, e in particolare nella nostra economia mercantile, buone relazioni interpersonali nel lavoro e una sana armonia con la natura sono state a poco a poco rimpiazzate da relazioni di sfruttamento alienate a senso unico. Le decisioni relative al lavoro, al modo di compierlo, al suo oggetto o alla sua remunerazione vengono costantemente assunte al di fuori della grandissima maggioranza degli interessati. Costoro si trovano ad essere determinati da poteri anonimi, come lavoratori, come consumatori o semplicemente come abitanti di settori in cui l’ambiente è toccato da decisioni prese a loro insaputa.

Per giustificare simili alienazioni, sono sufficienti le costrizioni che il sistema espansionista e sfruttatore secerne. In una società sana, le fonti di lavoro, le risorse, i redditi sarebbero ripartiti a seconda della loro utilità sociale ed ecologica, e non sulla base dei rapporti di forza egoistici e ciechi, o secondo il potere di ricatto che i vari gruppi od organizzazioni possono esercitare.

Quando il lavoro non ha più senso, si diventa incapaci di utilizzare il tempo libero in modo creativo. Di conseguenza ne viene accentuata la dipendenza nei confronti del consumo e di soddisfazioni insignificanti, e ciò provoca uno sperpero delle risorse umane, così come di quelle ambientali.

Non è attraverso artifici che si crea un lavoro che abbia un significato: è in funzione della domanda. La maggior parte degli impieghi offerti dalle élites dominanti sono fittizi, parassitari o assurdamente distruttivi, condannati a produrre scorie, a combinare inquinamento e anti-inquinamento o a fabbricare armamenti. Sino a quando ciascuno non potrà dedicarsi ad un’attività creativa, conforme ai suoi gusti e alle sue doti, il diritto al lavoro resterà uno slogan demagogico. Ma allora bisognerebbe che lavoro e mezzi di sussistenza non dipendessero più strettamente l’uno dagli altri come oggi. Bisognerebbe poter “decommercializzare” la soddisfazione dei bisogni basilari e affidare forse ad un servizio pubblico, definito e gestito a livello locale, il compito di occuparsene. Per assicurare posti di lavoro provvisti di un significato occorrono, anche in questo caso, strutture di produzione e di decisione altamente decentralizzate. Nessuna agenda statale, centralizzata, nessuna grande impresa commerciale, nessuna organizzazione sindacale fortemente centralizzata è in grado di raggiungere un tale obiettivo.

 

  1. Una società “de-specializzata”, una società non più di “clienti” ma di cittadini responsabili

La tecnocrazia ha sviluppato all’estremo la specializzazione, che ha dato vita a una potente casta di professionisti: gli “esperti”. Oggigiorno il cittadino non può più assolutamente pensare, decidere, creare checchessia da solo; non sa più organizzare la propria vita o quella del suo nucleo familiare, occuparsi dei figli o dei parenti anziani, curare i suoi malati: si vede sempre più frequentemente costretto a fare appello ad “esperti”. In questo modo siamo diventati una società di impotenti, sotto l’egida di professionisti a loro volta sottomessi alla macchina tecnocratica. Bisogna che questi specialisti ridiventino dei “generalisti” e, prima d’ogni altra cosa, si reinseriscano nella base, reimparandovi la comunicazione su scala umana. Nello stesso momento in cui il processo di statalizzazione e l’industrializzazione si sforzano di impedirlo. Smantellare questi feudi istituzionali e restituire a questi “clienti” la possibilità di diventare cittadini autonomi dovrebbe diventare una questione di salute pubblica e di organizzazione politica.

 

  1. L’educazione per una società ecologica e comunitaria

I tentativi di riforma dell’educazione non potranno approdare ad alcun risultato sino a quando gli insegnanti e i loro padroni politici non avranno ricevuto la formazione opportuna. Perché questo obiettivo richiede una formazione per pensare ed agire in maniera ecologica, all’interno di istituzioni di dimensione e struttura appropriate, ove il cittadino riesca in un clima di convivialità, a prendere in mano il proprio destino (self-reliance). Nelle attuali istituzioni educative si resta ipnotizzati dalla religione (meglio sarebbe dire la superstizione) del Progresso tecnico. Sebbene alcuni cambiamenti vi si stiano manifestando, essi risultano precari, perché sono soggetti alla costante minaccia di vecchi poteri. L’atteggiamento vigente è sempre quello di condizionare la mentalità a strette specializzazioni da un lato e al consumo di massa dall’altro. Viceversa, una società ecologica formai suoi cittadini alla cooperazione, all’autodeterminazione, allo spirito di creatività. In altri termini, gli obiettivi dell’educazione non sono l’adattarsi agli interessi mercantili o il venire a patti con uno sviluppo pretesamene ineluttabile della tecnica, bensì lo sviluppare dello spirito, il badare allo sboccio dei talenti all’interno di una cultura della cooperazione in cui rimangono aperte più opzioni. Una formazione permanente e transdisciplinare di questo tipo conferirebbe alle conoscenze e ai talenti l’elasticità indispensabile perché individui o comunità possano adattarsi liberamente alle trasformazioni della società. L’assolvimento solidale, in ciascuna comunità, dei bisogni materiali fondamentali favorirebbe grandemente la creazione di un sistema formativo elastico e non burocratico.

 

  1. Una società compatibile con la salute

La nostra speranza di vita decresce; non solo per quanto concerne la nostra fiducia nel futuro, ma anche nel senso brutale delle statistiche. Da quando è sotto controllo il problema della mortalità infantile, la mortalità maschile non decresce più, ed anzi aumenta di nuovo; la mortalità femminile tende a fare altrettanto da quando si sono stabilizzati i rischi del parto e dell’aborto. Il deterioramento della salute è essenzialmente dovuto alla sregolatezza degli equilibri ecologici: l’inquinamento dell’acqua, dell’aria o degli alimenti, l’eccessiva utilizzazione di farmaci e la cura dei sintomi delle malattie, che neutralizzano le reazioni naturali del corpo contro il male, le condizioni artificiali di vita e di lavoro, lo stress morale e l’alienazione delle relazioni interpersonali, le tossicomanie e le nevrosi…

La nostra società attuale non può pagarsela salute.

In primo luogo, l’inflazione esorbitante del costo delle cure mediche e dei processi assicurativi sta diventando intollerabile. E non vi si potrà porre fine sino a quando la società pubblica andrà deteriorandosi, ogni responsabilità individuale verrà scoraggiata e il potenziale economico della miseria fisica e psichica sarà sfruttato con la stessa insensatezza e allo stesso titolo con cui viene sfruttata qualunque risorsa naturale.

In secondo luogo, non si possono separare le une dalle altre le potenze che distruggono sia l’uomo che il suo ambiente e quelle che propagano il sistema industriale, dal momento che si tratta delle stesse.

In terzo luogo, una società sana minaccerebbe le strutture consolidate di dominio, politiche o economiche, non lasciandosi così facilmente manipolare o assoggettare al ricatto in funzione dei modelli di comportamento diffusi dalla tecnocrazia.

La sanità è perciò un problema altamente politico. L’indispensabile cambiamento risiede, così come per l’impiego, l’energia e l’educazione, nell’assunzione nelle proprie mani della propria vita (self-reliance) all’interno di collettività autonome e federate, nella “de-commercializzazione” dei bisogni fondamentali e nella partecipazione efficace dei cittadini sia alla preparazione, sia all’assunzione, sia alla messa in opera delle decisioni di ordine pubblico.

Solamente in una società ecologica può offrirsi una buona salute; solamente una società sana potrà, del tutto naturalmente, comportarsi in maniera ecologica.

 

  1. “In dubio pro vita”: un Diritto protettivo e promotore del vivente

La condizione di una società si riflette nel suo Diritto. Nelle nostre società occidentali dominate dalla ricerca del profitto, del potere, dell’efficacia produttivistica più che preoccupate della sorte dell’uomo, il Diritto ha radicalmente cambiato carattere.

Ha smesso di essere la messa in opera di valori consapevolmente accettati in una società con lo scopo di farne delle norme comuni; il Diritto è diventato un semplice strumento a disposizione dei poteri.

Ha smesso di essere un sistema di comunicazione tra gruppi e individui con compensazione a vantaggio del più debole; il Diritto è diventato un’istituzionalizzazione del potere.

Ha smesso di essere una creazione continua proveniente dalla base per diventare uno strumento statale di direzione politica.

Fra le conseguenze di questa trasformazione compaiono un diritto di proprietà abusivo, la moltiplicazione di disposizioni giuridiche che è accompagnata da un’ancora maggiore valanga di omissioni, l’irresponsabilità generalizzata; insomma, la perversione dello spirito stesso della giustizia. Il principio di Diritto romano che concede il beneficio del dubbio all’accusato (in dubio pro reo) fu adottato a suo tempo per proteggere gli individui dagli abusi di potere della giustizia astratta dello Stato. Ai nostri giorni, in nome di quello stesso principio i deboli non sono più protetti contro le potenti strutture come i complessi nucleari o chimici e la loro violenza megatecnologica, o contro i prodotti farmaceutici pericolosi. Quando il beneficio del dubbio favorisce minacce mortali e gli accusati hanno potere su coloro che decidono, l’azione illegale diventa legittima. Questo cattivo sviluppo conduce al caos sociale. Bisogna mettervi fine.

Che il beneficio del dubbio vada a favore del vivente deve essere un principio fondamentale del Diritto: in dubio pro vita deve prevalere su in dubio pro reo. Un ordine societario che non tiene conto delle leggi ecologiche e leggi giuridiche che trascurano le esigenze di ordine necessarie ad un sistema vivibile sono vane caricature del Diritto e dell’ordine. Nessun comportamento razionale in materia legale si può basare sull’idea che tutto finirà in un modo o nell’altro per arrangiarsi. Al contrario: la ragion d’essere del Diritto è nell’anticipare il peggio. Il Diritto deve confrontarsi con la realtà.

 

  1. Verso un nuovo panorama politico

I partiti politici tradizionali sono ancora polarizzati attorno a reminiscenze del XIX secolo: gli sfruttati contro gli sfruttatori, il potere costituito contro coloro che vorrebbero averlo… Certo, lo sfruttamento è tuttora onnipresente e stanno facendo la loro comparsa da noi dei “nuovi poveri”: le vittime dell’inquinamento, del rumore e della solitudine nei deserti urbani; coloro che faticanoper svolgere mansioni che non hanno nessun senso ai loro occhi, per fabbricare prodotti che non servono a niente, a imbrattare carte di nessuna utilità; coloro le cui relazioni umane sono distrutte dalla violenza del gigantismo e del produttivismo mercantile; le vittime delle malattie che fanno parte del costo sociale dell’espansione industriale, come il cancro, che è decuplicato nell’arco di un secolo. Ma i partiti politici non vogliono riconoscerlo. Lo scenario politico fa pensare a un lago gelato: i venti del cambiamento non vi provocano alcuna onda. I partiti politici sono, in genere, diventati sistemi chiusi e gerarchizzati che costituiscono uno scopo in sé; essi monopolizzano la scena politica in contrasto con lo spirito delle costituzioni democratiche e con la dinamica di una cultura altamente diversificata.

Un sistema politico rigido non è assolutamente in grado di padroneggiare efficacemente la nostra crisi di civiltà; non è nemmeno in grado di garantire la sopravvivenza delle popolazioni, né quella della natura vivente che è alla base di tutto. Abbiamo bisogno di rappresentanti capaci di rompere il ghiaccio, di prestare ascolto al vento del cambiamento, di capire che una politica, per essere valida, deve essere fondata non più su ideologie socialiste, liberali o conservatrici ma solo su principii ecologici.

 

  1. Solidarietà fra l’Europa e il Terzo Mondo

Alla luce dell’ecologia, l’antagonismo di interessi che si presume inevitabile tra paesi industrializzati e Terzo Mondo assume un aspetto del tutto diverso. La pace mondiale è di certo gravemente minacciata; carestie catastrofiche e rivolte disperate saranno inevitabili sino a quando il “Nord” insisterà nel suo espansionismo industriale e il “Sud” si intestardirà a prendere a modello questo sviluppo irresponsabile. Dopo essere stato traumatizzato dallo sfruttamento colonialista, ecco ora il Terzo Mondo assoggettato alle strategie neocolonialiste e la maggioranza delle sue classi dirigenti impegnate n una corsa folle nella quale tutti hanno tutto da perdere. Una delle condizioni per porvi fine è che l’Europa abbracci l’idea di un’associazione stretta e senza spirito di dominio fra i popoli e fra l’umanità e la natura. Ciò potrebbe essere determinante per modificare le aspirazioni e i comportamenti del Terzo Mondo. Coloro che, ad Est come ad Ovest, a Nord come a Sud, hanno compreso che questa è la nuova realtà non possono che essere alleati nella lotta per la dignità, la self-reliance, i diritti dell’uomo, nonché nella lotta per un’evoluzione armonica di tutte le forme di vita sul nostro pianeta. Questo non significa assolutamente che ciascuno debba attendere che gli altri diventino ragionevoli. Beninteso, finché l’espansione economica e lo sfruttamento della natura saranno i fini primari dell’umanità, nessun paese, nessuna regione potrà perseguire il proprio destino; l’interdipendenza globale non potrà far altro che accentuarsi. Il sistema politico-economico internazionale diventerà sempre più instabile. È la risultante di una sovrapposizione intenzionalmente rigida dei sistemi locali e regionali. Di contro, un’Europa che si dirigesse risolutamente verso una democrazia ecologica subirebbe una dipendenza sempre meno forte nei confronti del resto del mondo, sul quale essa potrebbe anzi esercitare una benefica influenza. Gli scambi di beni materiali diminuirebbero a vantaggio degli scambi di informazioni e di conoscenze ormai liberate dagli interessi dei poteri economici. Una Europa a mentalità ecologica può osare promuovere un ordine internazionale più giusto. Anzi, ne ha l’obbligo.

 

  1. Sicurezza e pace

La sicurezza è diventata la preoccupazione principale della nostra società, nei suoi tre aspetti: individuale, sociale, aggressione esterna. L’approccio tecnico e strumentale che, seguendo la tendenza dei paesi del Nord, si interessa esclusivamente ai sintomi, è ben lungi dal rsolvere questi problemi di società (o di qualunque altro genere); anzi, li ha doverosamente amplificati.

La sicurezza individuale è perciò gravemente compromessa dalla disgregazione della famiglia e dalla perdita di coesione dei gruppi sociali, da un sistematico opportunismo, dalla degradazione sul piano dell’etica: insomma, dagli effetti di una società “econo-maniaca” (ossessionata dall’economia).

La sicurezza sociale è oggi ricercata attraverso istituzioni anonime e burocratiche. Ogni senso di responsabilità, ogni spirito comunitario si trova ad essere neutralizzato; il che accentua nel contempo l’effetto di dipendenza, i compiti della sfera pubblica e le minacce alla vivibilità del sistema nel suo insieme. Come potrebbe reggere un contratto unilaterale generazionale che lega i futuri schiavi del passato agli irresponsabili del presente? Se quindi non vengono create per tempo nuove strutture ecologiche e stabili, il fallimento della prevenzione può sfociare nel caos sociale.

Quanto al terzo aspetto della questione, è assurdo pretendere di assicurare la sicurezza contro le aggressioni esterne con mezzi di distruzione di massa, e dunque di terrore e di rivincita, invece che in virtù dell’esistenza di reali comunità umane, fortemente motivate dalla difesa del proprio territorio. Nell’era della minaccia internazionale dell’armamento nucleare, le forze armate non sono in grado di assicurare la sicurezza di un paese. Nella nostra epoca, i complessi militari e di armamento condividono la stessa sorte delle altre istituzioni che sono alla ricerca di una totale sicurezza (a parte il fatto che qui giocano l’attrattiva del profitto e quella del potere). Essi producono, in fin dei conti, l’opposto di ciò di cui vanno in cerca, ovvero l’insicurezza, un certo numero di costrizioni, l’asservimento dell’intelligenza umana ai circoli viziosi della minaccia reciproca. Nel migliore dei casi, ciò conduce alla disintegrazione delle stesse istituzioni, in funzione di scopi e mezzi erronei; nel peggiore, provoca l’annientamento dell’uomo e della natura.

Alla lunga, nessun equilibrio del terrore resiste. La paura genera paura e può in qualsiasi momento, sotto apparenze razionali, provocare un attacco irrazionale. La corsa agli armamenti conduce l’umanità a una situazione tale che in nome della semplice sopravvivenza dell’umanità l’azione politica deve astenersi da ogni violenza.

Per effetto di un incidente storico, di fatto la Comunità Europea è stata fondata come un’istanza “civile”; essa offre pertanto in questa situazione un’opportunità unica: quella di condurre i popoli che la compongono al di là delle ristrettezze degli Stati nazionali e della violenza istituzionalizzata, e di offrire la prova della possibilità di risolvere senza far uso della violenza i problemi interni od esterni.

Le conseguenze sociopolitiche della corsa agli armamenti sono altrettanto nefaste quando la distruzione dell’ambiente provocate dalla loro fabbricazione o dai loro esperimenti. Un’Europa ecologica comincerebbe dunque a smantellare il proprio sistema di armamenti. Per assicurare l’integrità del suo territorio, l’Europa dovrà diventare una vera potenza di difesa civile, fondata su comunità regionali federate; essa deve rendere credibili i mezzi per la conservazione della sua integrità suggeriti dalla ricerca moderna in materia di conflitti e di pace, e di rimediare in tal modo all’ansietà così profondamente ancorata nel cuore di cittadini formati dai concetti degli Stati nazionali: l’angoscia di trovarsi privi di difesa.

La difesa civile parte dal principio che una dominazione può reggere solo nella misura in cui la comunità in causa è disposta a collaborare con coloro che cercano di esercitare o mantenere tale dominazione. In una società fondata sulla democrazia di base ed economicamente decentralizzata, non è detto che l’occupazione del territorio da parte di stranieri o con un colpo di Stato militare “nazionale” significhi la sua sottomissione. Per assicurare una difesa civile, occorre prima di tutto che i cittadini si identifichino nelle loro comunità e inoltre si addestrino ai metodi militari di combattimento. L’esperienza che stiamo acquisendo per opporci all’aggressione megatecnica può essere istruttiva tanto quanto gli esempi storici del movimento operaio, dei colpi di Stato neutralizzati da scioperi generali, della resistenza durante la Seconda guerra mondiale, del movimento di liberazione di Ghandi, della resistenza della Cecoslovacchia nel 1968 ad onta dell’indifferenza internazionale e dell’assenza di strutture democratiche.

Soltanto una società ecologica è in grado di restituire un significato ai termini pace e difesa. Il nodo della questione risiede in un’organizzazione difensiva risoluta, fra comunità federate transnazionalmente, contro qualunque aggressore, interno o esterno, militare o economico che sia. Ma il cambiamento deve andare ancora oltre. Gli obiettivi e i mezzi per la liberazione delle società, per lo sviluppo della persona e per la difesa delle libertà devono essere della medesima natura: il rispetto della vita.

Se optiamo per la vita e non per la morte, se accettiamo la realtà vivente e non ossessioni fantomatiche, non ci basta sbarazzarci delle più evidenti catene esterne. Dobbiamo anche rigettare i nostri asservimenti interni, antiecologici, fra i quali la fame di godimento, l’irresponsabilità e l’arroganza nei riguardi di tutto quello che non è “noi”: gli “altri”, i “sottosviluppati”, la natura, le generazioni future; insomma, il “resto del mondo”. E non ci dobbiamo lasciar intrappolare dalle pseudoalternative che ci offrono le caste dominanti, al potere o apparentemente all’opposizione, con il loro universo piatto e frammentario. La realtà è globale, ha molteplici dimensioni, è dotata di una struttura profonda di interrelazioni e significato. L’immagine che oggi abbiamo di questa realtà riflette soprattutto la nostra malattia, ma una volta cadute le nostre catene interne ed esterne lascia trasparire la possibilità di un prodigioso sviluppo. La necessaria alternativa posta al di là della rivoluzione o del riformismo può essere opera dello stesso popolo. Il movimento ecologico dimostra che questa è più che una speranza. Abbiamo la prova che un autentico cambiamento è possibile. È tempo di darsi da fare sul serio.  


Testo redatto nel 1978 e pubblicato nel 1980 sulla rivista "Das andere Europa" - Testo tratto da Denis de Rougemont, Ecrits sur l'Europe, ELA/La Différence, Paris.

Traduzione italiana di Marco Tarchi, pubblicata sul numero 27 della rivista Trasgressioni