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Gli italiani, la destra e la sinistra

di Marco Tarchi - 30/11/2006

 

 

Gli schieramenti politici non nascono a comando.
Per questo, destra e sinistra, eredi di ideologie, sono contenitori vuoti, incapaci di rappresentare le esigenze
flessibili e reversibili dei cittadini.

Un sistema politico anomalo?
C’era una volta, almeno sino ai tardi anni Ottanta del XX secolo, il "caso italiano". I politologi si accanivano a decifrarlo. I giornalisti ne traevano spunto per infuocate requisitorie. La gente comune disposta ad occuparsi almeno ogni tanto delle vicende pubbliche ne constatava l’esistenza con un misto di sgomento e di ironia. Tutti comunque abbondavano nell’uso della parola anomalia per descrivere quello che accadeva politicamente nella penisola, anche se il significato che annettevano all’espressione variava, e non di poco, a seconda di chi la adoperava. C’era chi giudicava anomalo che in Italia, pedina cruciale dell’Alleanza atlantica e del confronto tra Est e Ovest, prosperasse il più cospicuo partito comunista dell’emisfero occidentale e chi invece che fosse ininterrottamente rimasta al potere dal 1945 in poi, come cardine di ogni governo, la Democrazia cristiana, sebbene nei lunghi decenni del suo regno la struttura sociale e il peso del fattore religioso nella cultura civica nazionale si fossero drasticamente modificati.

Molti sottolineavano che l’Italia era l’unico, fra i paesi sviluppati dell’Occidente, in cui i governi duravano in carica, in media, meno di un anno (nei primi cinquant’anni di Repubblica ne abbiamo avuti, in effetti, cinquantatre). Altri, in compenso, non si capacitavano del fatto che, in un paese in cui ogni tanto si vociferava di colpi di Stato abortiti all’ultimo momento, si sospettavano deviazioni dai compiti d’ufficio di settori dell’apparato pubblico (servizi segreti in testa) impegnati a organizzare o favorire trame eversive e il terrorismo era esploso con una virulenza ignota a tutti gli altri paesi europei, le istituzioni democratiche avessero continuato ad operare senza soluzioni di continuità o particolari scossoni per oltre un quarantennio. Tanto più che, come era noto agli esperti, i sondaggi di opinione effettuati con cadenza semestrale dall’istituto demoscopico della Comunità (poi Unione) Europea, l’Eurobarometro, avevano rilevato sin dall’inizio dell’indagine, nel 1972, un tasso di insoddisfazione degli italiani verso il funzionamento del loro sistema politico di proporzioni abissali, quasi mai inferiore ai due terzi della popolazione e a volte esteso a tal punto da interessarne i tre quarti.

Come fosse possibile un simile miracolo di equilibrismo lo spiegava un’altra anomalia: il sistema consociativo che legava le maggioranze di governo e la più rilevante forza di opposizione – a parole in aperto dissenso su quasi ogni aspetto dei rispettivi programmi – in una gestione contrattata e concorde di gran parte delle decisioni, deliberate in sede di commissione parlamentare con il voto convergente di Dc e Pci. Il quadro delle caratteristiche che rendevano l’Italia un unicum sulla scena politica europea non si fermava comunque a questo sommario elenco. C’erano da aggiungere la rissosità delle coalizioni di governo, ricattate dalle correnti interne a ciascuno dei partiti che le componevano; l’elevata frammentazione dell’arco parlamentare, zeppo di partiti di dimensioni medie e piccole; la formula partitocratica di occupazione e spartizione di cariche e competenze retribuite ad ogni livello, dalle Unità sanitarie locali alla Corte costituzionale alle presidenze dei consigli di amministrazione delle banche; la pervadenza dell’intervento statale in economia; l’impasto di corruzione e clientelismo che faceva da cemento alla gestione quotidiana del potere. Eccetera, eccetera, eccetera.

Che il complicato meccanismo di funzionamento di quella che oltreoceano veniva definita per la sua singolarità Democracy Italian Style potesse restare in vita in eterno era ovviamente nei sogni del ceto dirigente del paese, ma molti osservatori avevano cominciato a dubitarne già da quando due delle formule escogitate per raggiungere lo scopo – i governi di unità nazionale che consentivano di tenere a bada il Pci e l’arco costituzionale che teneva fuori gioco il Msi – si erano esaurite. A partire dai primi anni Ottanta, riprendendo una precedente intuizione di Giorgio Galli, si diffuse l’idea che i mali della politica italiana – sempre più evidenti nella cattiva amministrazione di servizi e conti pubblici e nella correlativa crescita di umori antipartitici in vasti settori della società – fossero in primo luogo da ascrivere al suo ingessamento in quel bipartitismo imperfetto che il consociativismo aveva corretto ma solo di straforo, attraverso una trattativa privata fra i due partiti maggiori, senza che ai cittadini fosse concessa la possibilità di scegliere fra due programmi, linee e stili di azione davvero in concorrenza. Nacque così l’ipotesi – rapidamente fatta propria dal circuito massmediale e di conseguenza martellata nella testa dell’uomo della strada – che per sottrarre l’Italia alle sue patologie, per farle dismettere i panni di caso clinico citato a (cattivo) esempio dai manuali di scienze sociali, fosse necessario creare le condizioni di un’alternanza di governo. Crebbe, di conseguenza, l’invidia per i felici sistemi bipartitici, dove gli unti dal crisma del consenso popolare potevano realizzare in pace le politiche in cui credevano perlomeno per un’intera legislatura, senza che questo o quell’alleato minore fosse in grado di ricattarli. E spuntarono progetti volti ad aggregare le tante formazioni che facevano da ostacolo a questo sogno di anglicizzazione della politica: patti federativi ed apparentamenti elettorali, specialmente fra sigle centriste. Tutti miseramente falliti per difetto di consenso: dalle riunificazioni socialiste al lib-lab, sino alle diverse e transitorie incarnazioni unitarie della costellazione liberaldemocratica. Constatata l’impasse, si pensò di ricorrere a metodi più drastici e tagliare il nodo di Gordio del cattivo rendimento del sistema italiano con il ricorso all’ingegneria istituzionale e/o costituzionale. Dal Gruppo di Milano animato da Gianfranco Miglio alle prime due Commissioni bicamerali per le riforme, passando attraverso i progetti di legge e i quesiti referendari per l’adozione di sistemi elettorali maggioritari, è lungo l’elenco dei tentativi promossi da individui o gruppi che promettevano di produrre, grazie ai rimedi da loro escogitati, due beni preziosi, spesso confusi l’uno con l’altro sebbene stessero a significare cose diverse: stabilità e governabilità.

Risale a quella fase la conversione di molti opinion makers alla causa del bipolarismo, surrogato nostrano dell’inarrivabile Eden anglosassone, che avrebbe educato i politici ad un inedito senso di responsabilità, spuntato le unghie ai capicorrente dei partiti maggiori e ai leaders di quelli minori e fatto piazza pulita delle logiche spartitorie di sottogoverno, consentendo ai cittadini di giudicare in blocco, alla scadenza naturale di ogni legislatura, i governanti uscenti, confermandoli oppure "mandandoli a casa". Secondo la retorica del cambiamento che inevitabilmente accompagnava il sostegno a questa visione delle cose, sulla via della svolta virtuosa si parava un unico ma potente ostacolo: la vischiosità del sistema, cioè l’indisponibilità dei soggetti che all’interno di esso godevano di rendite di posizione ad assecondare l’agognata metamorfosi. Se si fosse riusciti ad avere ragione degli irriducibili beneficiari dell’instabilità, si affermava da più parti, l’Italia avrebbe potuto allinearsi a quelli che venivano presentati, con qualche forzatura, come i parametri della vita politica europea: una competizione fra due blocchi egemonizzati dalle forze moderate e orientati alla conquista degli elettori di centro: le "mezze ali" di cui Giovanni Sartori aveva parlato nei suoi celebri studi sul "pluralismo polarizzato" che faceva da sfondo al caso italiano. Il sottinteso del modello era un’emarginazione delle componenti di destra e di sinistra del quadro parlamentare, costrette ad aggregarsi in posizione subordinata a democristiani e socialisti, dei quali nessuno si azzardava a prevedere non diciamo la sparizione, ma neppure un ridimensionamento.

Per uno dei tanti paradossi che la storia si diverte a somministrare a chi cerca di incapsularne il senso entro coordinate predefinibili, l’evento che ha d’improvviso sgombrato la strada ai progetti di trasformazione della politica italiana – Tangentopoli – ne ha nel contempo corretto, e di parecchio, la direttrice di marcia. L’ondata di delegittimazione scaturita dalle inchieste su un gran numero di episodi di corruzione legati alla gestione della cosa pubblica si è abbattuta soprattutto sui partiti centristi, scardinandone organizzazione e quadri dirigenti e creando un consistente vuoto nello spazio della competizione politica. Il colpo subìto dai pilastri dell’apparato clientelare sul quale da quasi mezzo secolo si sorreggeva l’impalcatura partitocratica ha sottratto ai tradizionali vincoli di sudditanza milioni di elettori finalmente liberi di sfogare il disagio a lungo covato, e a beneficiare della nuova situazione sono stati, in un primo tempo, soltanto quegli attori politici che, per diverse ragioni, apparivano estranei o meno coinvolti nel meccanismo delle tangenti, dei fondi neri, degli appalti pilotati. Il problema sta nel fatto che si trattava, contrariamente alle speranze dei profeti della "democrazia maggioritaria" e del "modello Westminster", di soggetti dai connotati tutt’altro che moderati. A sopravvivere alla decimazione erano infatti gli eredi della tradizione comunista (Pds e Prc) e fascista (Msi), nonché gli interpreti di una cultura populista in rapida crescita (la Lega Nord): tutti soggetti politici abituati, sia pure con toni e intenti diversi, a svolgere il ruolo di oppositori e a fare ampio uso di accenti antisistemici e adesso spinti a calarsi, nella maggior parte dei casi senza adeguati tempi di adattamento, nei panni dei potenziali governanti. Questo imprevisto mutamento di scenario ha costretto opinionisti e strateghi della politica a giocare con carte nuove un gioco le cui regole erano ormai state definite, e ad adattare a protagonisti inattesi i meccanismi sotto i cui auspici si era intenzionati a celebrare la nascita della "Seconda Repubblica".

L’origine di quel "bipolarismo zoppo" di cui i media non si stancano di sottolineare le debolezze e di auspicare una rigenerazione, riportando in auge una nuova versione dell’anomalia italiana, sta tutta qui. Consiste cioè nel fatto che una serie di ipotesi ingegneristiche destinate a normalizzare il sistema politico articolandolo su coalizioni a vocazione centrista sono servite invece a tenere a battesimo l’accesso al governo di formazioni bollate a lungo come estremiste, e che l’introduzione di leggi elettorali che avrebbero dovuto accrescere il peso specifico di due partiti maggiori (ancora nel 1993 le simulazioni ideate dall’ufficio elettorale del Ministero dell’Interno assicuravano, qualunque variante della formula maggioritaria venisse applicata, una quota di seggi superiore al 50% alla Democrazia cristiana e lasciavano al Pds il monopolio dell’opposizione) si è scontrata con la dispersione del ceto politico e degli elettori in una molteplicità di contenitori. Per far fronte all’emergenza e alla situazione determinata dalla disgregazione del blocco di centro – inabissatosi nelle tornate elettorali amministrative della primavera e dell’autunno 1993 – i manovratori della pubblica opinione hanno perciò dovuto riesumare le categorie di destra e sinistra e farne i referenti del possibile sbocco della transizione italiana.

L’operazione si scontrava con una serie di elementi di fatto, e non stupisce che abbia prodotto risultati incerti e discutibili. Da un lato cozzava contro alcune delle caratteristiche del processo di instaurazione e di consolidamento dell’Italia repubblicana. Dall’altro riportava in auge codici simbolici che il passare del tempo aveva logorato e reso inservibili ad affrontare molti dei problemi che oggi caratterizzano le società secolarizzate e tecnologicamente avanzate. Esaminando in rapida sintesi e separatamente questi due aspetti della questione, non è difficile rendersi conto di come la proposta di articolare il dibattito politico attorno alla bipolarità destra/sinistra – ribadita di continuo dai commentatori giornalistici e nobilitata dalle argomentazioni di intellettuali del calibro di Norberto Bobbio – ben difficilmente possa aiutare la politica italiana ad uscire dalla palude nella quale si è invischiata.

Cultura politica e ingegneria elettorale
Qualunque giudizio si possa dare sui risultati che hanno prodotto nel lungo termine – e il nostro non è certamente tenero – non si può negare che il forte potere esercitato dai partiti nei confronti della società civile e la formula che va sotto il nome di consociativismo hanno svolto, nel processo di consolidamento della democrazia in Italia, alcune importanti funzioni. Sin dai primi anni del dopoguerra, l’espansione della presenza politica – e cioè dei maggiori partiti, Dc, Pci e Psi in primo luogo – in molti campi di attività sociale ha posto un limite alle possibilità di intervento diretto dei gruppi d’interesse sul processo decisionale, costringendoli a cercare rappresentanza indiretta nelle arene istituzionali, prima fra tutte il parlamento, e incanalando i conflitti sociali sui binari della concertazione già molto prima che questa espressione diventasse di uso gergale fra gli addetti ai lavori. Che ciò non abbia inibito favoritismi e prevaricazioni, di cui di volta in volta sono state protagoniste le confederazioni sindacali o alcuni grandi gruppi economici e finanziari, è fuor di dubbio; ma se non altro, questo controllo partitico dell’accesso delle domande alle sedi decisionali ha addomesticato lo scontro tra gli opposti blocchi di interessi e raffreddato le loro tentazioni di radicalizzazione, riaffiorate solo in alcuni momenti (con la gestione Costa della Confin-dustria, con l’autunno caldo del 1969 e in poche altre occasioni).

Quanto alla gestione consociativa dei rapporti tra i partiti di governo e le opposizioni numericamente più rilevanti – quelle di sinistra, prima divise e in parte inglobate con la cooptazione dei socialisti al governo, poi blandite con le suggestioni del compromesso storico e le pratiche di sottogoverno a mezzadria – essa ha progressivamente sdrammatizzato i toni di una contrapposizione ideologica che era apparsa molto accesa ai tempi della guerra fredda e i cui potenziali effetti esplosivi, come ci insegnano i casi ancora nebulosi nei loro contorni dell’operazione Stay behind o della cosiddetta "Gladio rossa", continuavano a covare sotto la cenere. Usando più la carota del bastone verso i rivali comunisti e accreditandosi come "partito di centro che guarda a sinistra", ma nel contempo legandosi strettamente alla Nato e agli Stati Uniti, fin dai tempi di De Gasperi la Democrazia cristiana ha attratto il Pci nell’orbita del sistema e lo ha reso corresponsabile del funzionamento delle istituzioni "borghesi" disinnescando, fin quasi a renderlo contraddittorio, il sentimento di devozione al modello totalitario sovietico che animava molti dei suoi quadri dirigenti e quasi tutti i suoi seguaci di base.

In un paese che aveva restaurato la democrazia mediante un colossale esercizio di trasformismo, in virtù del quale la grande massa dei sostenitori del regime fascista si era rapidamente assegnata identità politiche e/o ideologiche compatibili con la nuova situazione, questa strategia di pacificazione a sinistra inaugurava una logica di compromessi che avrebbe avuto molti e diversi effetti. In cambio di un tacito avallo della politica di occupazione del potere che andava via via intensificando grazie al sistema delle partecipazioni statali nell’industria e nel circuito bancario, nonché alla collateralità con potenti associazioni professionali quali la Coldiretti, la Dc consentiva a frazioni di opinione di limitate dimensioni, di cui poteva contrattare l’alleanza oppure sollecitare il sostegno caso per caso in una prospettiva di do ut des, di garantirsi una autonoma rappresentanza politica grazie a un criterio proporzionale che veniva applicato a livello non solo di legge elettorale ma anche delle norme non scritte che regolavano la suddivisione di incarichi e prebende. Conseguenza di questa prassi è stato lo sviluppo, nell’arco di quasi mezzo secolo, di una cultura politica fortemente frammentata, al cui interno, accanto ad aree subculturali maggiori – la "rossa" e la "bianca", ciascuna coi suoi centri di gravitazione territoriale – ne sopravvivano molte altre più piccole, organizzativamente ramificate attraverso i partiti di riferimento e le loro rappresentanze in una miriade di enti locali.

Su questo arcipelago di identità politiche, il ciclone Tangentopoli si è abbattuto con esiti che poco si adattano ai desideri dei sostenitori di un "bipartitismo perfetto". Se ne ha ridotte alcune ai minimi termini, altre le ha infatti ulteriormente frazionate, liberandone le varie anime, prima compresse dalle esigenze degli apparati di partito, in una diaspora che ha partorito una congerie di sigle, simboli, dirigenti. La decimazione delle vecchie élites ha inoltre prodotto, accanto all’ascesa di parecchie figure di secondo e terzo piano dei partiti scompaginati in cerca di ricollocazione, la tentazione di ingresso in politica di un certo numero di outsiders, i cosiddetti esponenti della società civile esaltati dalla retorica di chi vedeva delinearsi l’alba di una seconda Repubblica: personaggi preoccupati per la piega presa dagli eventi o semplicemente desiderosi di sperimentare una nuova esperienza. Dall’effetto combinato del perpetuarsi delle vecchie culture politiche e dell’affacciarsi di soggetti privi di una precisa collocazione ma smaniosi di incarnare quel desiderio di novità che sentivano circolare nell’aria – i Berlusconi, i Dini, i Di Pietro e tanti altri – ha preso corpo lo sgretolamento del quadro politico che oggi abbiamo di fronte, contraddistinto dalla nascita di raggruppamenti a volte effimeri e di regola poco consistenti e male organizzati, dalle periodiche trasmigrazioni di singoli esponenti dall’uno all’altro di essi, dall’allentarsi della disciplina di partito anche nelle formazioni che avevano una lunga storia dietro le spalle, dall’estensione oltre ogni limite logico del carattere fiduciario del mandato di rappresentanza elettorale, a volte interpretato da deputati, senatori e consiglieri eletti nei vari enti locali come una tacita autorizzazione a scegliere la collocazione di partito o schieramento giudicata di volta in volta più conveniente.

Per porre un freno a questa disordinata decomposizione si è auspicata, sin dal momento in cui è entrato in auge il riformismo referendario di Mario Segni, una conversione della dinamica politica italiana ad un più rigoroso modello bipolare. Giudicando impossibile raggiungere tale risultato in presenza di un sistema elettorale proporzionale e di una prassi che costringeva i governi a subire uno stretto condizionamento da parte dei gruppi parlamentari dei partiti che li sostenevano, si sono enfatizzate le qualità dei sistemi uninominali maggioritari – che, si diceva, avrebbero ridotto il numero dei partiti rappresentati alle Camere – e delle forme di governo che lasciano le mani più libere all’esecutivo: il presidenzialismo (o semipresidenzialismo) secondo alcuni, il premierato a detta di altri; profetizzando, nel contempo, il passaggio dalle identità di partito alle "identità di coalizione", meno ideologiche ma egualmente in grado di creare fedeltà e motivazione al voto. Poiché, nella situazione creatasi dalla crisi dei vecchi assetti politici, non era realistico immaginare che le basi del bipolarismo potessero poggiare sul centro – il fallimento del Patto per l’Italia fra Ppi e Segni nelle elezioni del marzo 1994 ne è stato del resto un’eloquente riprova – si è puntato su una ridistribuzione dell’elettorato e dei suoi rappresentanti attorno a due etichette di richiamo: la destra e la sinistra.

Fin dall’inizio, questa operazione improvvisata scontava una fragilità costitutiva. A parte il fatto, certamente non secondario, che la maggioranza delle culture politiche ancora vive nel paese non si immedesimava in queste due aree, non si può negare che una di esse appariva nettamente sproporzionata, in termini di presa sull’opinione pubblica, rispetto all’altra. Poiché il giudizio sul ventennio fascista pronunciato dai suoi avversari ne accreditava, a torto o a ragione, una matrice di destra, e agli ambienti conservatori, nazionalisti e monarchici era stata imputata dal 1945 in poi la responsabilità di aver favorito l’ascesa al potere di Mussolini e di aver praticato forme di aperta connivenza con il regime autoritario, la Repubblica era nata e si era rafforzata attorno ad un pregiudizio sfavorevole alla destra. Chi accettava di far propria questa etichetta – ed erano sempre stati pochi gli attori politici disposti a correre il rischio – veniva immediatamente circondato da un alone di sospetto, al punto che anche le formazioni che pure raccoglievano il consenso degli elettori conservatori o reazionari, Democrazia cristiana e Partito liberale in primo luogo, si guardavano bene dall’accettare di essere classificati in quella "parte maledetta", nella quale, non senza contrasti e titubanze, alla fine si rassegnarono a collocarsi solo monarchici e missini. Di tutt’altro genere era invece la sorte riservata alla sinistra. Su di essa aveva pesato sì una conventio ad excludendum in materia di partecipazione diretta ai governi nazionali, ma il suo diritto a gestire ampie porzioni di governo locale e a contrattare – direttamente o per interposto sindacato – molte importanti politiche sociali non era mai stato in dubbio. La partecipazione del Pci e del Psi al Comitato di Liberazione nazionale aveva fatto sin dal 1945 da contraltare alle critiche che riscuotevano i loro modelli politico-sociali di riferimento, e l’evoluzione moderata del partito di Nenni aveva accentuato questa accettabilità. Per di più, la forte presenza comunista negli ambienti intellettuali – che in taluni settori era dominante – valeva al Pci una fama di coscienza critica della società italiana e un’influenza tutt’altro che trascurabile nei circuiti educativi e della comunicazione. Dirsi di sinistra suscitava in taluni ambienti un’avversione tacita o dichiarata, ma ben di rado, almeno da quando il clima della guerra fredda si era attenuato, riprovazione morale; dirsi di destra esponeva invece in molti casi al sospetto e alla stigmatizzazione, tanto da rendere quasi inaccessibile, a chi non praticasse accorte forme di nicodemismo, l’ingresso in taluni contesti professionali (università, editoria, giornalismo "indipendente", cinema, teatro, ecc.). Nella società politica, questa situazione di fatto era stata riconosciuta e dignificata nei primi anni Settanta dal varo della formula dell’arco costituzionale, che, per arginare l’ascesa elettorale del Msi, assegnava ai partiti che avevano sottoscritto il patto di fondazione della Repubblica – comunisti ovviamente inclusi – un primato morale nei confronti degli avversari ed escludeva questi ultimi da ogni combinazione di governo o sottogoverno.

Stando così le cose, proporre un riassetto della politica italiana attorno a due coalizioni collegate rispettivamente alle etichette di destra e di sinistra non poteva avere senso. In primo luogo perché la sproporzione numerica delle forze in campo sarebbe stata palese (negli ultimi anni della "Prima Repubblica", i voti raccolti da liste che si collocavano a destra superavano di poco il 5%, quelle delle formazioni che si schieravano a sinistra avevano una consistenza 7-8 volte superiore). In secondo luogo perché l’accettazione di queste connotazioni avrebbe comportato un immediato svantaggio di immagine a una delle due parti in competizione. Quindi, mentre i cantori della nuova era celebravano sugli schermi televisivi o negli editoriali dei quotidiani le virtù di un "limpido" confronto bipolare e scoprivano la "normalità", nel panorama europeo, di quella dialettica tra destra e sinistra che per decenni si erano esercitati a ritenere inadatta al Bel Paese, le forze chiamate a scontrarsi sul terreno elettorale si sforzavano di annacquare i connotati e raccogliere dietro di sé aggregazioni quantomai eterogenee. Lo ha fatto soprattutto la presunta destra, che doveva apparire sbilanciata verso il centro per attrarre gli ex elettori del pentapartito ma al tempo stesso non voleva mostrare eccessive contiguità con le formazioni screditate dalle inchieste della magistratura, e quindi è stata costretta sin dal momento della discesa in campo di Berlusconi (l’imprenditore che si diceva costretto a dover "bere l’amaro calice" dell’ingresso nella vita pubblica) a dare di sé un’immagine tendenzialmente apolitica, di cui i suoi candidati al governo delle grandi città – da Albertini a Guazzaloca, passando per una congerie di loro meno fortunati replicanti – rappresentano l’apoteosi. Ma lo ha fatto, per converso, anche la sinistra, specialmente dopo la sconfitta incassata nelle consultazioni politiche del marzo 1994, alla cui prova si era presentata sotto la troppo esplicita dizione "progressisti".

La frammentazione culturale ha dunque avuto ragione delle aspettative degli specialisti di ingegneria elettorale, attutendo, e in qualche caso invertendo, gli effetti che costoro speravano di trarre dall’adozione di un sistema per tre quarti uninominale e maggioritario. Dovendo a tutti i costi coagulare il supporto di una molteplicità di alleati centristi – definiti sprezzantemente "cespugli" dagli apologeti del bipolarismo ma vezzeggiati dai partiti maggiori – per poter coltivare speranze di successo, i motori delle due coalizioni, Democratici di sinistra da un lato, Forza Italia e Alleanza nazionale dall’altro, ne hanno assecondato di malavoglia le ambizioni con adeguate offerte di candidature e addirittura di risorse economiche (come nel caso dell’accordo fra Berlusconi e Pannella nel 1996), senza per questo potersi cautelare contro il loro potere di ricatto, come la fondazione dell’Udr, dell’Udeur e dei Democratici hanno dimostrato. Essendosi ormai la logica di coalizione instradata su questo versante, ogni proposta di risanare il bipolarismo ritoccando i meccanismi del sistema maggioritario suona falsa. Sia che si assegni il 100% dei seggi parlamentari con il criterio uninominale a turno unico, sia che si ricorra al doppio turno, è ormai impensabile che questo o quel partito corra il rischio di presentarsi alle urne in perfetta solitudine, esponendosi alla ripicca degli alleati traditi, che per punirlo si consorzierebbero in un aggregato centrista o, più probabilmente, mercanteggerebbero il sostegno agli avversari in cambio di un certo numero di candidature in collegi "sicuri". Certo, con sbarramenti, ballottaggi o premi di maggioranza può essere assegnata alla coalizione prevalente una dote di seggi tale da garantirle, in teoria, la permanenza al governo per un’intera legislatura; ma, dato il carattere policromo delle liste che si presenteranno alle elezioni anche in occasione delle prossime tornate, il grado di stabilità delle maggioranze resterà sempre in discussione, e a scapitarne sarà senza ombra di dubbio la governabilità. Anche qualora a puntellarla intervenissero soluzioni semipresidenzialiste o di cancellierato, che tutt’al più potrebbero innescare estenuanti tensioni fra i partners di coalizione e i capi di governo (lo scontro che oppone il "decisionista" D’Alema ai suoi riottosi sostenitori è un campanello d’allarme). Le stesse norme pensate per impedire trasmigrazioni di rappresentanti da uno schieramento all’altro (i provvedimenti volgarmente definiti "anti-ribaltone") ben poco potrebbero contro un’intrinseca debolezza delle coalizioni, condannate a convivere con equilibri precari in un’epoca in cui i partiti non danno più prova di solidità organizzativa e il concetto di disciplina di gruppo è passato di moda.

Destra e sinistra: due contenitori vuoti
Sin qui però, si potrebbe obiettare, si è parlato di bipolarismo, e di destra e sinistra, unicamente in una prospettiva di piccolo cabotaggio governativo e parlamentare, di alchimie partitiche, di tattiche. Il rinnovamento della dialettica sistemica, diranno i sostenitori della "semplificazione del quadro politico" attorno a un’alternativa secca tra due opzioni in contrasto, potrebbe richiedere un periodo di incubazione, e prodursi proprio sul terreno della cultura politica. Le vecchie identità potrebbero disseccarsi con l’andar del tempo ed essere progressivamente sostituite da altre, destinate ad incarnarsi nelle formazioni che ambiscono a dar vita a una Seconda Repubblica e quindi a ridisegnare i contorni e i criteri di funzionamento del sistema politico. In altre parole: gli italiani, disillusi non solo dalle ideologie che hanno segnato il profilo del dopoguerra ma anche dai loro surrogati, potrebbero aggregarsi intorno a nuovi referenti, chiaramente identificati e tra loro contrapposti.

È possibile, ma, ad onta dei molti auspici formulati in tal senso dai guru della comunicazione politica, fortemente improbabile che ciò avvenga.

Le ideologie, gli schieramenti e le famiglie di partito non nascono infatti a comando o obbedendo a umori temporaneamente diffusi in questo o quello strato dell’opinione pubblica. A forgiarli sono sempre conflitti sociali e culturali fondamentali. Per dirla con l’espressione coniata da uno dei più acuti scienziati politici del Novecento, Stein Rokkan, essi nascono da cleavages, cioè da profonde linee di frattura, sociali ma anche culturali, che in particolari momenti storici hanno attraversato e lacerato le diverse collettività nazionali, suscitando fronti antagonistici in disaccordo sulle soluzioni da adottare per ricucire gli strappi che le avevano provocate. Tutti i partiti che si sono presentati in forma non effimera sulla scena europea sono il prodotto di uno di questi conflitti fondamentali: lo scontro tra potere centrale e culture periferiche, tra Stato e Chiesa, tra interessi urbani e rurali, tra datori di lavoro e lavoratori indipendenti. A quest’ultimo, in particolare, è legata la suddivisione politica tra "destra" e "sinistra", che ha conosciuto successive e diverse incarnazioni ma si è comunque perpetuata da un secolo a questa parte. Nata dal conflitto di classe, questa distinzione è stata messa periodicamente in crisi da varie sfide: dai sommovimenti determinati dalla prima guerra mondiale, che generarono i partiti fascisti e i loro antagonisti diretti (in Italia, l’azionismo), dal riemergere di antiche fratture che erano parse temporaneamente richiudersi, come il conflitto centro/periferie che ha ridato fiato a movimenti localisti come la Lega, dall’affiorare di nuove linee di tensione, come quelle che riguardano il rapporto tra uomo e ambiente (da cui sono nati i partiti Verdi) e l’assorbimento dell’immigrazione di massa (che ha dato origine ai partiti nazionalpopulisti e sta creando lo spazio per la crescita di nuove formazioni di sinistra radicale, sostenitrici di un cosmopolitismo multietnico). Ma soprattutto essa è stata indebolita dall’evoluzione dei contesti sociali che l’avevano generata; tanto è vero che i partiti che se ne erano alimentati – comunisti, socialisti, conservatori – o sono entrati in profonde crisi oppure si sono dovuti sottoporre a un processo di ridefinizione della propria identità ideologica e programmatica che li ha condotti molto lontano dalle connotazioni originarie. Destra e sinistra appaiono dunque oggi categorie sempre più precarie e vicine all’estinzione, e i tentativi di rigenerarle stanno producendo ibridi poco coerenti e poco attraenti per il pubblico.

Questo destino suscita, naturalmente, frustrazioni, nostalgie e resistenze, di cui hanno offerto prova di recente, da un lato, il tentativo di definire un’ideologia della "terza via" che dovrebbe fare da collante di una Internazionale progressista e, dall’altro, le reazioni vivacemente polemiche che questa proposta, ispirata soprattutto dalle tesi del sociologo britannico Anthony Giddens e incarnata politicamente dal New Labour di Tony Blair, ha suscitato negli ambienti neocomunisti e della New Left. Un altro esempio di reazione consolatoria all’attenuazione della capacità di identificazione della diade sinistra/destra è stato fornito da Bobbio con il fortunato volumetto Destra e sinistra, sagacemente immesso sul mercato da Donzelli alla vigilia delle elezioni del 1994, tradotto in varie lingue e acquistato da un gran numero di irriducibili sostenitori della sinistra di vari paesi in cerca di una terapia contro la perdita di identità: un saggio la cui debolezza argomentativa è stata da più parti messa in evidenza (per la nostra posizione in merito, ci sia consentito rinviare al saggio Destra e Sinistra: due essenze introvabili, pubblicato sul numero 1/1994 della rivista Democrazia e diritto, pp. 381-396. Le opinioni espresse in quella sede rimangono, ci pare, di piena attualità). Malgrado questi comprensibili sussulti, l’impossibilità di individuare contenuti che definiscano univocamente i concetti di "destra" e di "sinistra" si accentua. E ciò per più di una ragione.

L’attenuazione e modificazione del tradizionale conflitto di classe, a cui abbiamo fatto cenno, ne è soltanto una. E del resto, per rimediarvi, alcuni intellettuali che si richiamano alla sinistra, e che sanno quanto la plausibilità della coppia concettuale abbia giovato in passato alla loro parte, hanno proposto di rifondarla attorno a nuove opposizioni: egualitarismo contro inegualitarismo, morale universalistica dei diritti dell’uomo contro relativismo culturale, integrazione contro esclusione, e via dicendo. Ognuna di queste suggestioni innovative si scontra tuttavia contro un ineludibile dato di fatto: la crescente complessità delle società contemporanee, producendo di continuo nuovi ruoli sociali e accrescendo il tempo liberato dal lavoro a disposizione di chiunque, sta determinando a livello individuale una moltiplicazione delle identità collettive contemporaneamente incarnate che rende tutti meno sensibili a richiami ideologici univoci.

Chi un tempo si sentiva soprattutto, se non esclusivamente, operaio, impiegato, cattolico, nazionalista, ecc., oggi si trova ad incarnare nell’arco di una sola giornata ruoli sociali diversi e talvolta contraddittori: è operaio o impiegato ma anche consumatore; è cattolico ma anche abitante di una periferia urbana afflitta da particolari disagi; è nazionalista ma anche risparmiatore o investitore in borsa; e così via. E, a seconda del contesto in cui si trova in un determinato momento, i suoi atti e/o atteggiamenti sono sollecitati dall’una o dall’altra componente della sua complessa psicologia di membro di una collettività. Il che può portarlo a sentirsi – e ad essere – contemporaneamente "progressista", ad esempio, in materia di politiche che investono il suo senso di giustizia sociale e "conservatore" in altre che riguardano la sfera delle sue convinzioni morali o delle sue responsabilità familiari. Alle visioni del mondo monocordi e compatte di un tempo, che orientavano atteggiamenti ed atti dei seguaci in ogni ambito, si vanno dunque sostituendo convinzioni flessibili e reversibili, che si adattano ad ogni situazione in modi diversi.

Il processo che Giovanni Sartori aveva acutamente rilevato già più di tre lustri orsono si va dunque approfondendo e precisando. Scriveva il politologo fiorentino nel 1982 in Teoria dei partiti e caso italiano (SugarCo): "Ammesso che la dimensione destra-sinistra sia importante, che l’elettore davvero se ne giovi, che cosa significa? A rigore, nulla: destra e sinistra sono immagini spaziali. E il loro bello è che sono sprovviste di "ancoraggio semantico", che sono contenitori vuoti, aperti a tutti i travasi, a tutti i contenuti". Era già un’ammissione importante, che riduceva i due concetti a convenzioni e faceva piazza pulita delle pretese di chi voleva gabellarle per essenze o quantomeno per "tipi ideali" indispensabili ad orientarsi politicamente; ma all’epoca si potevano ancora nutrire dubbi sulla loro dissoluzione. Anzi, scriveva Sartori, "Per l’insieme dei paesi europei è ormai ben stabilito che la dimensione destra-sinistra è significativa e importante. Un pregio della variabile destra-sinistra risiede anche nella sua "capacità di viaggiare" e correlativa comparabilità. È chiaro che in ogni paese le autocollocazioni spaziali di tipo destra-sinistra sono relative, e cioè relative al proprio spazio. Il che non toglie che destra-sinistra è ancora, tra tutte, la variabile più "traducibile", e in questo senso meglio comparabile tra paese e paese. […] In ogni singolo tempo, momento o periodo storico, le nostre "immagini spaziali" non sono vuote ma piene: sono associate, cioè, a tutta una serie di contenuti. In questo senso e riferimento, allora, destra e sinistra "significano" e cioè stanno per pacchetti di issues, per una serie di prese di posizione su una serie di questioni controverse. Ridetto in breve, destra e sinistra sono, di volta in volta, sintesi di atteggiamenti".

Oggi non è più possibile neppure assegnare a queste due categorie un’utilità così circoscritta, perché la complessità dei problemi che la nostra epoca ci pone dinanzi è tale da rendere sempre più difficile la produzione di quelle sintesi che Sartori richiamava nei primi anni Ottanta, ed è frequente la constatazione del fatto che, pur assegnando alle etichette "destra" e "sinistra" un valore meramente convenzionale e che serve a distinguere caso per caso posizioni in contrasto – per cui si può giudicare, ad esempio, "di destra" la diffidenza verso la società multietnica e "di sinistra" la sua accettazione senza riserve; "di sinistra" la fiducia nell’intervento pubblico in economia e "di destra" il favore per il libero mercato affidato alla concorrenza dei soli privati; "di destra" l’avversione per l’omosessualità e "di sinistra" la sua accettazione come criterio di comportamento normale; "di destra" la preferenza per il modello di civiltà americano e "di sinistra" il suo rifiuto, e così di seguito – la maggior parte degli individui non adottano sempre posizioni "di destra" oppure "di sinistra" di fronte alle scelte in cui si imbattono, ma tendono, come accennavamo sopra, a collocarsi diversamente lungo il continuum sinistra/destra a seconda del problema che in quel dato momento si pongono. Per cui oggi è tutt’altro che scontato che l’elettore di un partito di sinistra veda con favore l’immigrazione extracomunitaria o la dissoluzione del ruolo tradizionale della famiglia nella società o che uno di destra preferisca uno sviluppo industriale senza freni, in stile neoliberista, ai vincoli di tutela ambientale alla produzione suggeriti dagli ecologisti; e si potrebbero citare infiniti casi di questo tipo di discordanze.

Il fatto che destra e sinistra non valgano più, nei fatti, come criteri efficaci di orientamento dei comportamenti di gran parte dell’opinione pubblica non significa, naturalmente, che ad esse sia precluso ogni ruolo nella politica del futuro, in Italia o altrove. La loro reiterazione ad uso polemico sembra, anzi, particolarmente di moda in una fase storica come quella attuale, in cui le identità pregresse stanno cancellandosi e quelle nuove stentano a manifestarsi. Resta però vero che, come ha fatto notare Gianni Agnelli ma molti prima di lui hanno osservato, un governo di sinistra può oggi realizzare politiche di destra più efficacemente di quanto potrebbero fare i suoi avversari, perché può più facilmente tenere a freno le reazioni dei sindacati. O che, da destra, lo stesso governo può essere rimproverato per aver dimostrato un’eccessiva indulgenza verso criteri di "legge e ordine": di fronte all’insorgere del problema della cosiddetta microcriminalità, si è vista di recente Forza Italia, formazione per molti versi nettamente conservatrice, innalzare la bandiera tipicamente progressista della difesa dello Stato di diritto e delle libertà individuali contro le misure "straordinarie" invocate dal governo D’Alema. In altre parole: può senz’altro accadere che, quanto più si induriscono i toni della conflittualità attorno a questo o a quel tema, gli attori politici in competizione decidano di ammantarsi di un alone "ideologico" che possa renderli meglio riconoscibili dai simpatizzanti; ma lo fanno, per l’appunto, perché i loro programmi sono sempre meno diversi e la loro omologazione su molti argomenti sempre più pronunciata. Per distinguersi agli occhi degli elettori, che constatano con sgomento questo appiattimento, ricorrere a un gioco di etichette contrapposte può essere non solo utile ma addirittura necessario. Ma il ricorso a questo espediente non migliora la qualità della politica, né ne rende più trasparenti i contenuti.

Per questo, in un momento in cui il richiamo alla destra e alla sinistra da parte delle coalizioni che si contendono il governo del paese si fa in Italia sempre più acuto, e addirittura stridulo quando evoca i fantasmi di stagioni ormai trascorse della storia in nome dell’anticomunismo o dell’antifascismo, è necessario, a chi osserva la politica con l’occhio disincantato dell’analisi scientifica, denunciare i limiti di questo revival. Nella riproposizione del contrasto tra sinistra e destra risuonano gli echi di conflitti che hanno fatto il loro tempo, e si disperde la percezione di quelli che vanno annunciandosi come i fronti di scontro del futuro. Non ha senso né può trovare alcuna giustificazione plausibile, quindi, il ricorrente rimprovero che alcuni opinion makers – sia "di destra" che "di sinistra" – rivolgono agli italiani, accusandoli di immaturità e di nostalgia per i vecchi scenari della politica consociativa ogniqualvolta rifiutano di avallare la retorica del nuovismo bipolare, come è avvenuto, ad esempio, con l’astensionismo di massa che ha mandato in fumo le speranze dei promotori del referendum antiproporzionalista del 18 aprile 1999. Vantare le lodi del bipartitismo all’inglese in un paese che ha tradizioni di cultura politica che nulla hanno a che spartire con quelle della Gran Bretagna – e farlo, per giunta, in un momento in cui oltreManica si comincia a dubitare dei benefici effetti del sistema maggioritario uninominale e si insiste sulla necessità di offrire strumenti di rappresentanza ai settori di opinione che non si riconoscono nell’alternanza fra laburisti e conservatori, per non alienarli dallo spirito e dalla prassi della democrazia – significa proporre una terapia del tutto inefficace per curare i mali di cui soffre la politica italiana.

Che in fasi di transizione e di incertezza le classi politiche al potere, o che sperano di andarvi nel breve periodo, preferiscano capitalizzare su rancori, timori, speranze e delusioni che affondano le loro radici nel passato, è comprensibile; ma non è su questa linea di retroguardia che potranno fondarsi le loro pretese di governare i processi che ci stanno conducendo nell’epoca della globalizzazione e delle sue contraddizioni. In altre parole, sinché destra e sinistra continueranno a fungere da fittizie bussole della politica nazionale, l’anomalia che è alla base del "caso italiano" non potrà sciogliersi, e la disaffezione degli italiani verso la gestione della cosa pubblica non farà altro che crescere. Almeno sino a quando l’irrompere di linee inedite di antagonismo e di convergenza, trasversali rispetto alla logica dei vecchi schieramenti e animate da concrete preoccupazioni sociali e culturali, legate ai processi che stanno investendo l’Italia e l’intera Europa, non faranno da lievito di nuove passioni e di un più forte desiderio di cittadinanza, restituendo senso e desiderabilità all’impegno politico.