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Il gioco degli specchi (una presentazione)

di Gianfranco La Grassa - 30/11/2006

 

 

1. E’ innanzitutto necessario chiarire che questo libro non è stato pensato per una presentazione al pubblico. Normalmente, i libri vengono presentati da chi pensa di catechizzare un certo numero di persone, da chi vuol fare proseliti. Oppure, si tratta di atteggiarsi a profeti di qualcosa di assai indefinito circa i destini dell’Uomo nei prossimi cent’anni e nei secoli venturi. Tanto per fare un esempio, chi è pessimista, ci dirà magari che l’Uomo va verso la rovina a causa della Tecnica che tutti ci domina; l’Uomo è stato insomma un apprendista stregone, ha evocato forze che ci distruggeranno. Gli ottimisti ci racconteranno che invece possiamo salvarci ma rispettandoci reciprocamente, cooperando insieme a progetti comuni, e di comune accordo, per realizzare i quali si deve cercare di essere in armonia fra di noi e con la Natura. Ecc. Ecc.

Personalmente, non ho alcuna intenzione né di catechizzare né di fare proseliti per una mia setta né ho voglia di atteggiarmi a profeta, che sia di sventure o invece di un luminoso avvenire. Non sono interessato a discutere dei destini dell’Uomo. Il mio orizzonte temporale va dal presente fino, al massimo, ai prossimi 2-3 decenni; insomma, mi interessa l’epoca attuale, mi interessa fare alcune ipotesi sulle tendenze insite nelle dinamiche della società che definiamo capitalistica, e che oggi ha nuovamente una dimensione globale, onde capire quali potrebbero essere le sue direzioni di sviluppo, i suoi orientamenti. E poiché non si possono capire queste tendenze se non in base alle lenti teoriche che inforchiamo per interpretare la realtà sociale, il mio lavoro principale è stato da sempre quello di molare adeguatamente tali lenti. Compio poi un lavoro accessorio, di cui questo libro è frutto, per provare il realismo della teoria che vado formulando e via via riaggiustando in base alle indicazioni che mi pervengono dal mondo esterno. Per cui, questo libro è fondamentalmente diretto a coloro (certamente non molti nella presente congiuntura) che sono interessati al lavoro da fare nella direzione da esso indicata in base ad una ben determinata elaborazione teorica. Il libro è stato pensato per questa finalità; esso dovrebbe circolare, per quanto è possibile farlo circolare, essere letto da un certo numero di persone. Alcuni poi lo rifiuteranno, altri convergeranno, pur se solo in parte, con le sue tesi; questi ultimi dovrebbero prendere contatti con me e iniziare una proficua collaborazione e discussione. Le presentazioni ad un pubblico, che in gran parte non ha letto il libro e al quale non posso dare un’idea di esso in poco tempo, sono tendenzialmente negative, come minimo inutili.

 Io parto dal marxismo, dalla sua analisi strutturale, non da concezioni che affidano il posto principale all’azione di date correnti culturali o, ancor peggio, di qualche singolo personaggio. Da questo “porto” ho però preso, soprattutto negli ultimi dieci anni, il “mare aperto” poiché ritengo che non si possa essere oggi puramente marxisti; è indispensabile apportare non semplici correzioni a tale teoria, ma trasformazioni più che radicali, in certi casi dei veri rovesciamenti dei suoi assi portanti. Però, lo ripeto, non ho rinnegato il marxismo, non ho abbracciato altre impostazioni teoriche – il liberismo, il keynesismo, la dottrina sociale cattolica, ecc. – che non mi hanno mai convinto; ho soltanto ritenuto necessario non una semplice rifondazione del marxismo, ma una sua trasformazione, a partire da esso. Così pure, io non ho mai rinnegato nulla del comunismo cui mi sono avvicinato nel 1953; e che non è un comunismo qualsiasi, bensì quello fondato appunto sul marxismo; non quello ad es. di stampo cristiano, non quello che predica una generica “buona volontà” degli uomini, il pacifismo ad oltranza, la non violenza comunque e sempre; e nemmeno quello che della violenza non fa a meno ma è di stampo anarchico. Io non rinnego il comunismo marxista, ma lo considero un processo sostanzialmente finito, ormai collocato in una sua precisa dimensione temporale. E da lì parto, come nel caso del marxismo, per avventurarmi in mare aperto; non ho alcuna intenzione di rifondare il comunismo, ma solo di mantenere la memoria storica della sua esperienza e nel contempo di cominciare a pensare ad altro, a possibili nuovi orientamenti politici (fondati su nuove ipotesi teoriche relative al capitalismo); e sempre collocandomi in una dimensione temporale non secolare o ultrasecolare, ma di pochi anni o decenni (a farla larga).

In definitiva, non rinnego né marxismo né comunismo (marxista); ritengo però che non si debbano rifondare bensì rivoluzionare radicalmente. E’ necessario entrare in una fase di crisi e di transizione a nuovi ismi che ricomprenderanno il marxismo (come teoria) e il comunismo (come prassi orientata da quella teoria) quali “casi particolari” all’interno di una teoria e di una prassi più ampie. Un po’ come la teoria della relatività che non ha rinnegato e cancellato la fisica newtoniana, ma l’ha ricompresa in  sé come suo caso particolare; non ha cancellato la geometria euclidea, l’ha inquadrata nella visione più ampia delle geometrie non euclidee, più adatte a rappresentare gli spazi cosmici visti con le lenti della teoria di Einstein.

Io mi valuto come un pensatore della crisi del marxismo e del comunismo e mi applico appunto alla loro trasformazione (che non sarà certo attuata da me), non alla loro rifondazione. Il mio lavoro principale – perché a questo sono maggiormente interessato, perché a questo attribuisco la primaria importanza – è quello teorico, è la trasformazione del marxismo. Però compio incursioni in un campo più vicino alla politica per provare via via il realismo di certe ipotesi, la loro capacità di formulare alcune previsioni di non troppo lungo raggio. E, di tempo in tempo, compio riaggiustamenti della teoria in base alle previsioni errate o solo parzialmente esatte che ho fatto in passato. Ora il libro che dovrei presentare è precisamente una delle incursioni in campo politico; è infatti un libro che formula ipotesi sulla fase politica e geopolitica attuale e cerca di prevedere alcune sue dinamiche future. Dietro il libro sta l’apparato teorico che sto provando; tale apparato però non si vede o se ne intravede soltanto qualche barlume. Nel libro è quindi svolta quella che si potrebbe definire una analisi di fase o d’epoca storica con qualche previsione per le dinamiche future della società capitalistica; a livello mondiale e a livello europeo e, in particolare, italiano. Ci sono poi, soprattutto con riferimento all’Italia (ma non solo), alcuni esempi che cercano di rafforzare le ipotesi fatte intorno alla fase. Naturalmente, per quanto riguarda questi esempi, che in sostanza ho “raccontato”, mi sono dovuto arrestare ad una certa data altrimenti non davo alle stampe il libro.

In quest’ultimo ad es. si trova una breve cronistoria del risiko bancario (pro e contro Fazio), dei crac Cirio e Parmalat e dell’intervento della finanza italiana e americana (in particolare delle società di rating) in essi; indico qual è l’establishment italiano principale e come si muove, cosa rappresenta nella struttura del potere in Italia. Si considera la vicenda dell’Airbus europeo e la sua competizione con la Boeing americana. Si segnala il problema relativo all’accordo tra Eni e Gazprom che è stato adesso firmato ma che ha una lunga storia alle spalle. Ho potuto scrivere, in appendice, qualcosa sulla fusione tra Intesa e San Paolo e sul suo significato. Però non ho potuto trattare del prosieguo di questi fatti, della faccenda Telecom (piano Rovati) ecc. D’altra parte, questi sono avvenimenti che si debbono seguire giorno dopo giorno, in una sorta di diario. Non mi dilungherò dunque qui sulle vicende particolari, interessantissime, che a mio avviso suffragano per l’essenziale, almeno in questa congiuntura, le mie analisi di fase o d’epoca storica. Illustrerò brevemente le ipotesi fatte in base a queste analisi (lo ricordo: non mai secolari, sempre agganciate al periodo storico che verrà vissuto da alcune generazioni nei prossimi vent’anni o poco più).

 

2. Prima di tutto la situazione internazionale. Sarà necessario che una futura forza anticapitalistica ristudi bene tutta la storia dall’ottocento ai giorni nostri; la storia dello sviluppo del modo di produzione pienamente capitalistico in Inghilterra, la conseguita preminenza mondiale di quest’ultimo paese proprio in base al fatto di essere stato il primo paese industrial-capitalistico, il suo declino iniziato negli ultimi decenni dell’800, la lotta per la successione all’Inghilterra che, alla fine, vide il confronto sempre più serrato e cruento tra USA, Germania e Giappone, anche attraverso la fase storica detta dell’imperialismo (che è un’epoca policentrica, cioè con potenze in conflitto per la supremazia), l’emergere degli Stati Uniti nel 1945, dopo due guerre mondiali e altri conflitti vari, come paese dominante centrale nel campo capitalistico e, successivamente, in tutto il mondo a seguito del crollo del socialismo e della dissoluzione della seconda superpotenza, l’URSS.

Nei primi anni ’90 si pensò alla formazione di un mondo tripolare: USA, Germania, Giappone. Idea che tramontò nel giro di pochissimi anni. Comunque, gli USA misero a punto una strategia globale assai aggressiva per la supremazia mondiale; in ciò approfittando del fatto di essere in vantaggio enorme per quanto riguarda la potenza dell’apparato bellico e per lo studio e la messa a punto di nuove armi sempre più terrificanti. Tale paese è anche in netto vantaggio per quanto concerne la ricerca scientifica e tecnica nei settori oggi di punta dell’informatica ed elettronica, delle telecomunicazioni, dell’aerospaziale, delle biotecnologie, ecc. Infine, esso è anche molto avanzato per quanto concerne gli apparati detti di sicurezza e di intelligence, per le capacità di corruzione di interi governi, di forze politiche in vari paesi, ecc.; pur se è comunque indubbio che gli USA hanno finora largamente puntato sulla supremazia bellica.

Si iniziò con l’aggressione alla Jugoslavia, sotto la presidenza democratica (Clinton), con al seguito l’Europa e in particolare l’Italia del Governo D’Alema. Con quell’azione fu dato un colpo decisivo alla penetrazione del capitalismo tedesco verso est, verso i paesi ex socialisti. Sia chiaro, ancor oggi la maggior parte dei capitali esteri investiti in quei paesi proviene dalla Germania; in Polonia, ad es., tali investimenti sono per il 70% tedeschi, e ciononostante la Polonia ha una politica nettamente filoamericana. Quindi, l’azione statunitense nei Balcani, con la scusa del presunto genocidio dei kosovari, è servita allo scopo e ha dato un alt alla Germania impedendole di instaurare in quella zona una propria effettiva sfera di influenza, che non può essere realizzata, come credono gli economicisti, tramite la pura penetrazione economico-finanziaria.

Molto più incisiva e aggressiva fu l’azione successiva condotta dall’amministrazione repubblicana. Tralasciamo, per ragioni di tempo, la preparazione della lotta al terrorismo con la scusa dell’assai sospetto attentato dell’11 settembre 2001. Ci interessa solo che gli USA misero a punto ben due aggressioni: prima all’Afghanistan senza praticamente opposizione da parte di nessun altro paese avanzato, poi all’Irak (e in questa occasione ci furono opposizioni, direi però molto deboli almeno per la parte che appare alla luce del Sole). Queste due azioni volevano stabilire una lunga fascia di robusta egemonia USA dal Medio Oriente (dove l’azione americana è fortemente sinergica con quella di Israele) fino ai confini della Cina. Tale area è certamente ricca di fonti di energia; e tuttavia si è deciso di stabilire in essa la propria predominante influenza soprattutto quale mezzo di contenimento delle nuove potenze emergenti maggiormente avverse alla politica di supremazia svolta dagli Stati Uniti: si tratta della Cina e della Russia (che si andava rimettendo dagli sconvolgimenti del periodo eltsiniano). Veniva così rinsaldata l’egemonia USA sul Pakistan, paese dove la stragrande maggioranza della popolazione, dell’esercito, dei servizi segreti, ecc. è filoislamica ma che ha dovuto accettare il regime filoamericano di Musharraff per quieto vivere (e in attesa di tempi migliori).

Il consolidamento in questa zona era inoltre destinato a consentire una politica più aggressiva nei confronti degli Stati “canaglia” (Iran e Siria), posti nel mirino e minacciati di essere l’obiettivo di successive azioni militari. Si riteneva di rafforzare così le posizioni di USA e di Israele in tutto il Medio Oriente. Nel contempo, si penetrava nelle repubbliche centroasiatiche russe (dove gli americani hanno perfino installato delle basi di notevole ampiezza), si organizzavano le rivoluzioni arancione in Georgia e Ucraina, ecc. Per fare tutto questo, gli USA hanno fra l’altro deciso di mitigare il controllo del Sud America, dove si sono andati sviluppando movimenti di maggior autonomia rispetto al potente vicino. Sia chiaro che non sono stati semplicemente i popoli sudamericani a conquistare una maggiore indipendenza, favorita invece principalmente dall’atteggiamento più duttile dei gruppi dominanti USA concentrati sulla strategia – ritenuta decisiva ai fini di una completa supremazia globale – tesa ad almeno ritardare di parecchio la spinta ascendente delle potenze ad est (Russia e Cina).

Complessivamente possiamo dire che questa strategia è entrata in crisi, e sembra proprio irreversibilmente. La caduta di popolarità di Bush, le ultime elezioni americane di mezzo termine non segnalano, come ci viene raccontato da alcuni manipolatori di sinistra, che gli USA stanno ridiventando una grande nazione democratica; che dopo il buio della presidenza repubblicana avremo la luce di quella democratica. Gli USA, sotto qualsiasi amministrazione, non rinunceranno mai spontaneamente alla loro preminenza mondiale, che hanno conquistato al prezzo della vittoria in due grandi scontri mondiali e nella guerra fredda con l’URSS. Semplicemente, esiste una crisi della strategia fortemente aggressiva degli ultimi anni. In Irak, il paese dominante centrale è nel pantano; non so se veramente conseguirà la vittoria una supposta resistenza irachena o si smembrerà il paese a seguito di una guerra civile o altro ancora. Certamente, gli Stati Uniti non sono in grado di mettere ordine nel paese. La situazione, malgrado se ne sappia poco, è ancora più grave in Afghanistan; è da prevedere il ritiro delle forze di occupazione, dirette dai militari statunitensi, nel giro di pochi anni. A quel punto, non resisteranno a lungo i vertici pakistani oggi allineati agli USA. Dato anche il contenzioso che oppone il Pakistan all’India, è facile immaginare lo spostamento del primo paese verso Cina e Russia. Uno scenario possibile fra vent’anni (solo possibile, poiché i vari rapporti di forza sono suscettibili di molti mutamenti in un periodo così lungo) è quello di un asse tra Russia, Cina e Pakistan contro quello costituito da USA, India e Giappone.

La situazione odierna degli USA in Irak e Afghanistan ha indebolito pure Israele nel Medio Oriente; tale paese non è riuscito a portare a termine un sostanziale accordo con i palestinesi moderati isolando Hamas e altre frange radicali; né è riuscito a risolvere il problema degli Hezbollah in Libano, dove ha subito di fatto una mezza sconfitta. Questo rende ormai problematica la risoluzione per via militare del conflitto degli USA (con Israele al fianco) contro Iran e Siria. La rivoluzione arancione (Georgia e Ucraina) è in piena ritirata, la Bielorussia ha dato uno schiaffone ai tentativi di esportarvela; nelle repubbliche centroasiatiche russe – a causa, fra l’altro, delle difficoltà crescenti in Afghanistan e quindi in Pakistan – l’influenza americana è decisamente rifluita. Senza poi considerare le mosse della Cina; si pensava di poterla contenere e mettere in difficoltà stabilendo quella fascia meridionale di controllo, già considerata, che si spingeva fino ai suoi confini. Essa ha abilmente aggirato l’ostacolo e si è espansa incredibilmente in Africa (in decine di paesi) con un commercio moltiplicatosi di molte volte in pochi anni, e con forti investimenti in quell’area (direi nel più pretto stile imperialistico). Addirittura, la potenza asiatica fa puntate di una certa rilevanza in Sud America.

E’ del tutto ovvio, perciò, che occorre una revisione delle strategie di predominanza da parte del paese ancor oggi centrale sul piano mondiale. La revisione è già iniziata con Bush e certo si accelererà se si verificasse un cambio di presidenza. Tenuto fermo il principio che gli USA non rinunceranno al tentativo di far perdurare la loro preminenza mondiale il più a lungo possibile, è probabile che si verifichi un netto mutamento di indirizzo strategico per quanto concerne la politica internazionale. Gli USA dovrebbero rinunciare a voler tenere sotto controllo l’intero globo, perché malgrado tutto non hanno la forza necessaria a conseguire tale scopo; soprattutto in un quadro generale in cui si sta notando l’accelerazione della crescita delle nuove potenze asiatiche e della Russia. Per l’attuale superpotenza, sarebbe forse più utile e realistico fissare i confini di un’area ampia, ma ben più ristretta del mondo intero, entro cui consolidare in modo deciso il suo predominio. All’esterno, ci si dovrebbe abituare a convivere con le sfere di influenza di altri paesi, cercando di mantenere sempre una superiorità in campo militare e nello sviluppo della ricerca scientifico-tecnica e dei settori di punta della nuova “rivoluzione industriale”. Si dovrà semmai cercare di sfruttare i conflitti, di lungo periodo, esistenti tra Pakistan e India, tra questa e la Cina, tra Giappone e Cina; e anche tra quest’ultima e la Russia.

Negli Stati Uniti, e presso gli alleati più intelligenti (pur subordinati) quali gli inglesi, qualcuno si rende conto che i continui tentativi di disgregare gli avversari – con attacchi diretti (Irak, Afghanistan, ecc.) o indirettamente tramite tentativi di “sovversione” dall’interno – non ha fatto altro che aumentare il disordine globale, con crescita dei pericoli di non riuscire più a controllare alcunché. Il sedicente “terrorismo” – i più avveduti se ne accorgono – è in realtà il nuovo mezzo della conflittualità intercapitalistica (e, in prospettiva, interimperialistica) in un mondo in pieno subbuglio e in crescente scompaginamento (proprio a causa dell’azione statunitense); nel mentre, al momento, le potenze emergenti non possono certo pensare di opporsi militarmente alla preminenza americana. Allora, una strategia che restringa la propria sfera di influenza in modo da controllarla adeguatamente, lasciando che si consolidino altre potenze, in grado di controllare le loro aree di influenza, semplificherebbe, a detta di certi strateghi americani, i compiti e attenuerebbe i pericoli conseguenti alla più completa ingovernabilità, in cui si amplificano tutte le contraddizioni religiose, interetniche, quasi perfino “tribali”, ecc. Tra potenze ci si intende meglio con i tradizionali metodi della diplomazia, dell’intelligence, della corruzione di Governi e forze politiche, e via dicendo. Si tratta, è chiaro di un discorso puramente teorico, poiché se si consente lo sviluppo delle nuove potenze (ad esempio quelle orientali), si entra nell’epoca che definisco policentrica, in cui inizieranno altri tipi di conflitto magari più tradizionali, simili a quelli dell’epoca dell’imperialismo, ma non per questo meno inquietanti e sconvolgenti degli attuali legati al “disordine globale”.  

Ovviamente, quanto appena detto appartiene al regno delle intenzioni; nessuno può negare la possibilità che si verifichino tensioni e scontri tali da mettere in moto altri processi, fra cui quelli di una lotta dei dominati contro i dominanti in qualcuna delle varie potenze in conflitto in una eventuale nuova era policentrica (quella più propriamente imperialistica, di acutizzato scontro tra paesi, e gruppi di paesi, per la supremazia mondiale). Ricordiamoci però che, in una prospettiva come quella delineata di ridefinizione della strategia (pur sempre di supremazia) attuata dagli USA, il Sud America rientrerà sicuramente nella più ristretta area in cui il paese dominante vorrà esercitare pienamente la sua influenza; a quel punto, si appurerà veramente la consistenza e forza dei movimenti, spesso populisti, che sono andati emergendo negli ultimi anni in quell’area.

 

3. Ho volutamente lasciato finora in ombra il discorso sull’Europa – e, al suo interno, sull’Italia – che è l’area in cui si trova chi sta scrivendo e i suoi possibili interlocutori. E qui si aprono le “note più dolenti”. Malgrado gli aneliti della politica gaullista (più efficace in tempi passati), malgrado la formazione, per qualche tempo, di un asse franco-tedesco, oggi in notevole dissesto e disgregazione, l’Europa, pur dopo il crollo del socialismo reale, non ha compiuto alcun passo per uscire dall’alleanza atlantica (che era stata pensata in pura funzione anti-campo socialista). Anche Francia e Germania (salvo forse che nella più lungimirante strategia di De Gaulle, non proseguita dai suoi successori se non nella forma) non hanno mai voluto null’altro che essere riconosciute dai predominanti centrali, gli Stati Uniti, quali paesi egemoni nell’area europea, senza però mai tendere ad un vero affrancamento di quest’area dalla supremazia americana.

Gli USA, però, si sono sempre fidati soprattutto dell’Inghilterra, a questa hanno assegnato una posizione privilegiata in Europa; e forse oggi attribuiscono nuovamente una qualche importanza all’Italia (per alcuni anni misconosciuta dopo il crollo del campo socialista, di fronte al quale il nostro paese aveva rappresentato, per 40 anni, un baluardo ad est), che si protende nel Mediterraneo e potrebbe svolgere, quale serva del paese dominante, una notevole funzione nei confronti dei Balcani e del Medio Oriente, dell’Iran, ecc. In ogni caso, la Germania della Merkel e la imminente Francia di Sarkozy o della Royal ridimensioneranno, esse stesse, le velleità autonomistiche, già così deboli e sgangherate. La tendenza di fondo sembra essere quella di restare prigionieri dell’alleanza atlantica, cioè della preminenza americana, cercando solo spazi subordinati nell’ambito di quest’ultima. In Europa – e in Italia che ha tutti i “vizi europei”, elevati al cubo – non si notano, né a destra né a sinistra, aneliti indipendentistici degni di questo nome.

Ciò significa che destra e sinistra sono in proposito la medesima cosa? No, certamente. Se guardiamo in particolare il nostro paese (lo ripeto: abbastanza paradigmatico anche per quanto concerne i comportamenti europei), la destra resta agganciata alla strategia USA dell’ultimo decennio: è quindi filoamericana “senza ma e senza se”, filosionista (o filoisraeliana), antiaraba, contraria a Russia e Cina (malgrado Berlusconi si beasse di una presunta amicizia con Putin); è razzista, spinge quindi a “scontri di civiltà” per difendere quella nostra, quella “occidentale e cristiana”, con una notevole ottusità e rozzezza. La sinistra cerca invece di posizionarsi in vista del già segnalato, probabile, cambio di strategia da parte degli USA. Ovviamente, gioca pure d’azzardo, corre dei rischi, dividendosi d’altronde, come al suo solito, in mille posizioni diverse nella speranza di poter coprire tutte le possibili modificazioni (con le loro sfumature) della politica estera statunitense. Anche nella sinistra non vi è però nulla più che tatticismo atto a meglio collocarsi negli spazi consentiti dal paese preminente all’interno della sua sfera egemonica, nella speranza di poter essere considerata dagli USA un servitore duttile e maneggevole, capace di condurre con mascheramento adeguato una politica (e una diplomazia) di mediazione, di smussamento dei conflitti verso est (Cina e Russia) e verso sud (mondo arabo e islamico in genere), sempre però facendo prevalentemente gli interessi del padrone, assai poco i propri. Una sorta di andreottismo (e craxismo), con però minor forza e minori margini di manovra, che un tempo erano consentiti all’Italia dall’esistenza del socialismo reale (Russia e Cina non hanno ancora la forza e l’influenza politica dell’URSS e di quel “campo” oggi dissoltosi).

Non esiste quindi, in nessuno schieramento politico europeo e italiano, alcuna reale strategia di autonomia; solo il tentativo di conquistarsi – e mai con una politica europea concertata, ma sempre, sostanzialmente, muovendosi in ordine sparso – nicchie più o meno vaste, ma dipendenti, all’interno della sfera di influenza americana, accettata come solo orizzonte politico entro cui sviluppare pratiche politiche subordinate; e questo è particolarmente valido per l’Italia, che ha, lo ripeto, tutti i vizi europei al cubo. La debolezza politica, il servilismo – nelle sue diverse forme di destra e di sinistra – sono però solo l’aspetto fenomenico, il davanti della scena (il palcoscenico) della struttura di potere, di “classe”, esistente in Europa, ma in particolare qui da noi. Dietro le quinte agiscono i grandi potentati finanziari e industriali; ed è in quest’ambito che si annida la nostra debolezza e subordinazione. Da questo momento in poi mi rifarò soprattutto al caso italiano, che del resto è valido, nei suoi aspetti essenziali, per il più generale orizzonte europeo.

Osserviamo ciò che è avvenuto negli ultimi anni nella sfera economica italiana. I fenomeni più appariscenti sono stati quelli di centralizzazione finanziaria, all’interno del paese innanzitutto, ma con crescenti legami con l’estero; in specie con altri gruppi europei. In campo industriale, non si è verificato, se non sporadicamente, qualcosa di analogo. Ci sono stati investimenti, o addirittura trasferimenti di intere imprese (in specie medio-piccole) in paesi vari; si sono avuti fenomeni di installazione di filiali di grandi imprese multinazionali all’estero, oppure la formazione di joint ventures con imprese straniere, oppure l’acquisizione di reti commerciali in altri paesi (la Luxottica, ad es.), oppure accordi del tipo degli ultimi avvenuti tra Eni e Gazprom, tra Enel e Sonatrach o quelli comunque recenti tra Finmeccanica e la russa Sukhoj (per jet, reti ferroviarie, ecc.). In nessun caso si tratta però di vere centralizzazioni, che implicano assorbimento di un’impresa da parte di un’altra, o fusione tra due o più imprese, o intrecci assai stretti tra i rispettivi capitali azionari e i consigli di amministrazione, ecc. Questi processi hanno caratterizzato quasi esclusivamente il settore finanziario.

Per di più, tali fenomeni di centralizzazione, che principalmente, pur se non esclusivamente, hanno coinvolto imprese finanziarie (banche e assicurazioni) dello stesso paese (tipico il caso italiano) o di più paesi europei, sono avvenuti, quasi sempre copertamente, sotto l’ala della grande finanza americana; in particolare di quelle due grandi concentrazioni finanziarie (banche d’affari o merchant bank) che sono la Goldman Sachs e la Morgan Stanley, ognuna delle quali ha in bilancio proprie attività o attività di altri ma da essa gestite, il cui ammontare è circa la metà del Pil italiano, un terzo di quello canadese, ecc. Si tratta cioè di bilanci paragonabili a quelli di Stati; e non di piccoli Stati, bensì di quelli più industrializzati del mondo. Il tutto avviene inoltre sotto il controllo di quelle quasi associazioni a delinquere che sono le società di rating, la Moody’s, la Standard and Poor’s, la Fitch, tutte americane e tutte manovrate politicamente. Ricordo, per far capire che cosa sono tali società, che esse emisero rating favorevole alla Parmalat tre o quattro mesi prima del crac; lo stesso fecero con la Banca 121 del Salento, nel momento del suo assorbimento da parte del Montepaschi, banca che poi si mostrò essere un enorme imbroglio – su cui la Magistratura ha iniziato e poi di fatto insabbiato la pratica, in cui non era ben chiara (diciamo così!) la posizione di D’Alema – che ha rovinato migliaia di risparmiatori, malamente rimborsati dalla banca senese. Questa ne subì comunque un grave contraccolpo [ricordo che De Bustis, da più parti ritenuto un “appoggiato” da D’Alema e amministratore delegato della Banca 121 incorporata dal Montepaschi, divenne addirittura a.d. della banca incorporante. Dopo il disastro amministrativo, si dimise (venne di fatto mandato via) ed è oggi a.d. della sezione Italia della Deutsche Bank. La sua cacciata dal Montepaschi coincise con la caduta in disgrazia dei consiglieri dalemiani e la crescita di quelli vicini a Bassanini. Adesso è tutto cambiato, le posizioni si sono rovesciate con riflessi nei rapporti di forza tra coop. emiliane e toscane; ma non si può seguire questo evento particolare, se non a parte].

In definitiva, per accorciare, i gruppi dominanti in Italia – e di fatto, pur con differenziazioni, in Europa – sono formati dalla finanza (banche e assicurazioni) e da imprese industriali, ma dei settori della passata rivoluzione industriale, tipo auto, elettrodomestici, macchine utensili, chimica, ecc. Certamente non mancano alcune imprese dell’industria di punta (ne ripeto i principali settori: informatica ed elettronica, telecomunicazioni, aerospaziale, biotecnologie), ma si tratta di imprese relativamente isolate, avulse dal sistema-paese, non aiutate dalla politica. Ovviamente, tali considerazioni valgono in particolare per l’Italia; in altri paesi europei, la condizione di tali imprese è certo migliore, ma non in modo decisivo, non tanto da porle come vere concorrenti di quelle statunitensi. Le spese per la ricerca scientifica e tecnica (perdonatemi di non ricordare i numeri precisi) sono nettamente inferiori in Europa rispetto agli USA; e l’Italia è l’ultima tra tutti i grandi paesi europei (la Spagna è davanti a noi). Le risorse impegnate nei dipartimenti imprenditoriali di R&S sono in Europa poco più della metà rispetto a quelle delle imprese americane; e nelle imprese italiane sono la metà di quelle europee. Cina e Russia, invece, stanno dedicando alla ricerca percentuali rapidamente crescenti del Pil; e stanno spendendo molto – in particolare la Russia – per potenziare l’esercito, gli armamenti, ecc.

Non contano però solo le somme totali – o le percentuali del Pil – spese per la ricerca scientifica; importanti sono i settori verso cui si dirigono. In Cina e Russia, come negli USA, esse vanno ai settori di eccellenza prima citati; in Europa, e soprattutto in Italia, sono ancora indirizzate per la maggior parte verso i settori tradizionali. Anche nell’ultima finanziaria, ci sono i soliti regalini alla Fiat-auto (mobilità lunga, cioè prepensionamenti, e rottamazione), a Merloni (rottamazione dei frigoriferi), ecc. Dopo averci stonato per vent’anni con il “piccolo e bello” (il modello nord-est, i distretti, le reti), su cui sono vissute di rendita innumerevoli cattedre di economia ed economia aziendale, adesso è cominciato il ritornello sulle meravigliose 4000 medie imprese, che producono il 30% del Pil, che occupano oltre 600000 addetti, che sono lanciate nella competizione globale, e via blaterando. Tali imprese competono in settori tradizionali o anche in alcuni nuovi (magari in quello delle nanotecnologie, che sono interessanti, ma dove non è oro tutto ciò che riluce); tuttavia, per quanti meriti possano avere le medie imprese, non sono in grado di sostituire quelle grandi quali punte avanzate in settori d’avanguardia. Il fatto che il nostro presidente confindustriale, che è anche presidente della più grande azienda italiana, ripeta sempre, come un disco rotto, che bisogna “fare sistema”, e che tale fare sistema riguarda soprattutto le “superbe” medie imprese, la dice lunga sul fatto che la nostra grande imprenditoria non ha alcuna spinta innovatrice di ampia apertura, vuol vivacchiare sulla spesa pubblica, sull’aiuto statale, in ciò favorita dalla stupida mentalità statalista della sinistra (in specie di quella sedicente radicale); e il galleggiamento del sistema, il fatto che non sprofondi insieme alla grande impresa, è compito affidato ad altri: ieri al “piccolo è bello”, oggi al “medio è bello”.

E perché oggi non si inneggia più al “piccolo è bello”? Perché l’Italia, come l’Europa, ma in misura più grave dell’Europa, è arrivata vicino alla resa dei conti, prossima ad una vera stagnazione, che si tenta di nascondere dietro i falsi dati di una improbabile ripresa, dati falsi come quelli che l’Istat ci ha propinato negli ultimi 5 anni in merito all’inflazione: sempre intorno al due, due e mezzo per cento, mentre ormai tutti si sono accorti di questa menzogna. E nei prossimi anni ci accorgeremo di quest’altra menzogna, della crescita inventata mediante false statistiche (a parte il fatto che i dati ufficiali parlano dell’1,7% quest’anno e dell’1,4% nel 2007; e, per l’Europa, del 2 virgola qualcosa quest’anno e alcuni decimali in meno il prossimo; e allora dove sta la ripresa?). In una situazione del genere – trincerandosi dietro il fuoco di sbarramento circa la necessità, per nulla affatto urgente (come messo in luce da fior di economisti di sinistra), di ridurre il debito pubblico e il rapporto deficit/Pil – si vuole intanto colpire i ceti medi, che non sono medi per nulla, poiché non stanno nel mezzo nella piramide sociale; si tratta semplicemente di lavoro autonomo (in certi casi solo formalmente tale), caratterizzato da numerosissime stratificazioni quanto all’entità dei patrimoni posseduti e ai livelli di reddito. Comunque, certi strati piccolo-imprenditoriali, certe partite IVA, hanno conseguito lo status di benestanti; ed è su questi ceti, proprio perché numericamente consistenti, che i potentati italiani intendono effettuare il massimo prelievo fiscale, utilizzando le truppe del lavoro dipendente, incattivite da una lunga pur se lenta erosione del potere d’acquisto, chiamate a raccolta dal centrosinistra e scagliate contro gli “evasori”.

Questi soldi non serviranno, se non formalmente, se non con arzigogolate manovre sui conti pubblici, a diminuire il debito statale e il deficit; serviranno assai di più ad ingrassare le banche favorendo inoltre i loro processi di accentuata centralizzazione, nonché di crescente subordinazione alla finanza americana; serviranno al sistema grandeimprenditorial-decotto (entro i prossimi anni vedremo dove andrà a finire la Telecom, e anche la “risanata” Fiat; risanata con il battage massmediatico, con trucchi contabili, con investimenti e piani strategici fasulli) per tirare avanti il più possibile, effettuando poi spostamenti di investimenti laddove ciò apparirà lucroso, in particolare negli spazi lasciati a sua disposizione nell’ambito della sfera egemonica statunitense. Quindi, si deve abbandonare in questa fase la difesa della piccola imprenditoria, non bisogna sostenere quel settore che un tempo si lusingava come il “salvatore della nazione” (affinché lavorasse sempre di più, si “autosfruttasse”). Adesso, i piccoli debbono pagare perché “si scopre” che le loro microimprese non sono efficienti, non sono adeguate alla competizione globale, non hanno una visione lungimirante dei problemi industriali, hanno una cultura troppo rudimentale. Adesso gli eroi diventano i medi (che tanto sono pochi e il tartassarli non servirebbe alla bisogna, al finanziamento delle grandi concentrazioni finanziarie e delle grandi imprese decotte).

Per ottenere questo primo risultato, i grandi potentati finanziari e industriali hanno bisogno della “sinistra”, rinverdendo così la famosa affermazione agnelliana del 1994: “Se ho bisogno, per i miei interessi, di una politica di destra, ho allora necessità di un Governo di sinistra”. Solo le truppe cammellate del lavoro dipendente, guidate da partiti e sindacati di sinistra, possono tosare i presunti ceti medi, cioè il lavoro autonomo, ivi compreso quello che non lo è in senso reale. Ma si tratta semplicemente di un primo passo. Poiché ci si accorgerà assai presto che i prossimi anni non porteranno sviluppo effettivo (pur se magari ci imbroglieranno sui dati come hanno fatto con l’inflazione, alla fine tutti si renderanno conto dell’inganno, lo vivranno sulla propria pelle), sarà necessario – sempre con le batterie puntate sul debito pubblico e il deficit come scusa – procedere alle riforme “strutturali”, cioè quelle delle pensioni, della sanità, del mercato lavoro (la legge detta “Biagi” non è sufficiente). Già oggi, anzi già da tempo, si sta cercando di preparare il clima adatto con le raccomandazioni in tal senso delle suddette società di rating (due delle quali hanno declassato il nostro paese perché non si decide a realizzare le riforme in oggetto), del FMI, dell’ineffabile Governatore della Banca d’Italia (uomo della Goldman, cioè della finanza americana, piazzato ai massimi livelli delle nostre Istituzioni), della Commissione e della Banca europee.

Non sarà facile da completare, ma questo è il disegno complessivo delle nostre classi dominanti economico-finanziarie (e di quelle preminenti statunitensi). A questo serve oggi il Governo di centrosinistra, il continuo ammorbidimento, tramite blandizie e corruzione, della sinistra “estrema”, per intanto preparare la “fase due”. Un domani il discorso sarà chiaro: o l’intera sinistra, pur con le dovute mascherature e menzogne, riesce a far passare presso il lavoro dipendente le decisioni delle classi dominanti – peraltro nient’affatto unite, anzi attraversate da continui e sordi conflitti, di cui traspaiono, di tempo in tempo, gli effetti: tentativo, fallito per il momento, della Intesa di mettere le mani sulla Capitalia e, tramite questa, su Mediobanca e successivamente sulle Generali; piano Rovati (cioè Costamagna-Tononi, altri due uomini della Goldman piazzati in notevoli posti negli apparati politici italiani) per impossessarsi della Telecom, piano anch’esso fallito (ma un faccendiere legato alla sinistra è oggi presidente della società telefonica); e altri fatterelli vari – oppure si cercherà di ristrutturare la geografia politica italiana, in modo da riuscire a liquidare le “estreme” e a recuperare pezzi centristi dell’attuale centrodestra.

Qui termina al momento questa presentazione, perché si tratterà di seguire attentamente le vicende, assai complesse e banditesche, che le classi dominanti, di tipo nettamente parassitario (finanza e grande industria decotta di settori tradizionali), stanno ponendo in essere per sopravvivere il più a lungo possibile. L’importante è aver chiari due punti: a) la manovra in due tempi che si vuol attuare (il primo tempo essendo già in pieno svolgimento); b) la necessità di mettere gli uni contro gli altri i due raggruppamenti sociali del lavoro autonomo e del lavoro dipendente, tosando adesso il primo (con l’aiuto delle organizzazioni partitiche e sindacali del secondo) e preparando la tosatura (forse più blanda) di quest’ultimo. Il tutto in una situazione di tendenziale stagnazione per i prossimi anni, con la supina accettazione della subordinazione agli USA e collocandosi all’interno delle loro strategie – in fase di ripensamento e revisione – di supremazia mondiale. L’Italia, con l’Europa, si troverà dunque schiacciata, quando si entrerà in un’epoca pienamente policentrica, tra gli USA e le potenze emergenti ad est.

Con una piccola notazione finale. In Italia, due imprese come Eni e Finmeccanica (e probabilmente qualche altra) fuoriescono dal quadro del nostro sistema-paese, basato su finanza e industria tradizionale. Che esse siano pubbliche non ha alcuna importanza, poiché agiscono come qualsiasi altra grande impresa, qualunque sia la forma giuridica della proprietà azionaria. Il problema è che esse sembrano in grado – solo parzialmente, credo – di non seguire le meschine tattiche di corto respiro delle nostre forze politiche, tattiche dettate dai potentati, fra loro in sordo conflitto e subordinati a quelli americani, di cui si è detto. A tali imprese, le nostre forze politiche ed economiche frappongono continui ostacoli (di cui qualche esempio è riportato nel libro) per impedire loro di acquisire una posizione troppo indipendente. Tuttavia, esse per il momento agiscono, sembrano talvolta liberarsi degli impacci frapposti soprattutto dalle forze del centrosinistra (ma probabilmente solo perché, in tale fase, sono queste le forze scelte dai poteri forti di cui sopra quale loro privilegiata rappresentanza). In una situazione simile alle due imprese citate, ce ne sono altre, e più potenti, nei principali paesi europei. Non è ancora deciso irrevocabilmente il ruolo esclusivamente subordinato (agli USA) dell’Europa. La lotta è in corso; non seguirla con attenzione, superando i preconcetti ideologici di tempi che furono, sarebbe colpa grave.