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Veleno? strumento perfetto del potere criminale... (Intervista a Massimo Fini)

di Massimo Fini - Carlo Passera - 30/11/2006



Massimo Fini, la politica riscopre un suo antico protagonista, il veleno, però in versione modernissima: non più la cicuta, ma i “granelli radioattivi”. L’ex spia del Kgb Alexander Livtinenko ci ha rimesso la vita, al termine di un intrigo internazionale a suo modo appassionante e che pare coinvolga pesantemente lo stesso premier russo. Che idea te ne sei fatto?
«Io credo che le responsabilità di Putin e del suo entourage siano fuori discussione. Da qualche anno il leader russo è tornato a un tipo di politica con accenti totalitari, naturalmente coi mezzi e i modi della modernità, proprio come dicevi tu. Non c’è dubbio che ci sia qualcosa di marcio al Cremlino, intorno a Putin e in Putin stesso, e spero di non essere avvelenato perché lo affermo».
Tutto ciò pone problemi non di poco conto alla comunità internazionale.
«Certo. Invadiamo l’Iraq perché Saddam è un dittatore sanguinario, ma nello stesso tempo coltiviamo cordiali rapporti con la Russia. C’è una evidente contraddizione».
Non è strano che Putin non senta più l’esigenza nemmeno di salvare le apparenze? Che il suo passato fosse discusso si sapeva, ma fino a non molto tempo fa il premier russo sembrava intento a preservare un’immagine di “leader presentabile”. Lo stesso avvelenamento di Livtinenko è invece “fragoroso”: il servizio sovietico russo avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato in modo meno spettacolare, così da tutelare un po’ di più la rispettabilità di Mosca. Invece han scelto il polonio radioattivo, l’agonia, le foto sui giornali...
«Mi pare evidente che, data la situazione internazionale, Putin ritiene di avere le mani libere. È un alleato fondamentale degli americani, la stessa Europa non può fare a meno degli accordi commerciali con lui; così non si fa scrupolo alcuno sul piano interno ma pensa di poter agire senza troppe attenzioni anche sulla scena internazionale.
Dunque sintetizziamo: la Russia è tornata a essere la grande potenza di sempre, gioca tutte le sue carte ed è oggi molto più simile all’Urss di Stalin che al vecchio impero pre-bolscevico dei cari, innocui e simpatici zar».
Insomma, Putin non ha più l’esigenza di apparire accettabile. Anzi, forse questo alone che circonda il Cremlino, questa fama oscura, rinforza ancor più il riaffermarsi del ruolo russo sulla scena internazionale.
«Direi di sì. Il mistero del Cremlino torna a essere un elemento della politica russa, in uno scacchiere in cui gli americani hanno disperato bisogno di Mosca».
Lo stesso braccio di ferro russo-ucraino dell’inverno scorso, con mezza Europa al freddo e Putin indifferente, dimostrò come il premier russo si sentisse inaffondabile.
«Ripeto: dopo quindici anni dalla caduta dal regime, la Russia ha riacquistato il proprio ruolo di grande potenza, il che comprende anche il possibile assassinio degli avversari. E gli affari interni di una grande potenza - penso alla Russia, ma anche alla Cina - non sono sindacabili da parte di terzi. Cosa diversa sarebbe, invece, se a ammazzare gente in giro per il mondo fosse San Marino».
Ricordo non molto tempo fa, quando Putin accostò l’Italia alla mafia e il nostro governo, anziché protestare, quasi si scusò. Apparve chiaro quali fossero i reali rapporti di forza...
«C’è da dire che in quella occasione Putin non aveva tutti i torti. È chiaro che la Russia di oggi - più di quella sovietica - è una congregazione di mafie; ma lui non usa a caso tale parole, perché sa che l’Italia non è diversa. Parliamo di veleni? Da Gaspare Pisciotta (luogotenente del bandito Giuliano e custode di molti dei suoi segreti, a cominciare dalla strage di Portella della Ginestra: venne avvelenato nel 1954 in una cella dell’Ucciardone a Palermo) a Michele Sindona (il noto finanziere: ci rimise la vita nel carcere di Voghera nel 1986) i caffè al cianuro fanno parte anche della nostra tradizione repubblicana, senza voler andare troppo in là coi ricordi. Eppoi, non era veleno: ma di certo un uomo di 62 anni come Roberto Calvi non poteva riuscire ad arrampicarsi sotto il Blackfriars bridge, sul Tamigi a Londra, per impiccarsi “da solo”... Quello che inquieta oggi è lo “strapotere del potere”, scusate il bisticcio. È saltato ogni tipo di barriera: non c’è più controllo, tutto può avvenire all’interno e all’estero, la spia russa è stata avvelenata a Londra...».
E ora si sospetta che anche l’ex premier russo Yegor Gaidar sia stato avvelenato (non in modo mortale), ma presso Dublino.
«Anche questa è globalizzazione. Quando davvero esistevano, gli Stati nazionali erano molto più impenetrabili; invece oggi si può fare tutto, in modo semplice e imprevedibile. Il vero problema della modernità non è il terrorismo internazionale, ma sono gli Stati, ormai divenuti largamente criminali. La stessa mafia, intesa in senso classico, accumula ricchezze tali da divenire un inevitabile partner dei poteri, e anche gradito. Conclusione: il potere mondiale è completamente criminale, oggi molto più di quanto lo fosse un secolo e mezzo fa».
Tra i crimini che si imputano a Putin, il maggiore è quello ceceno.
«È un massacro di proporzione inaudite, 200mila morti su un milione di abitanti. Però i media sono poi in grado di capovolgere le cose, perché se i ceceni per esasperazione commettono una strage - orribile, sia chiaro - come quella di Beslan, diventano loro i colpevoli e gli altri le vittime, quando è vero il contrario».
Il che conferma il grande potere russo: capace di influenzare anche l’atteggiamento dei mass media occidentali.
«Questo è dovuto anche al fatto che i grandi media d’opinione sono in realtà legati al potere stesso, sia in senso diretto che inconsciamente. Leggevo che in questi giorni i quotidiani americani stan discutendo se definire o no “guerra civile” quel che accade in Iraq. Ma stiamo scherzando? La cosa sarebbe chiara anche al mio nipotino! Il Corriere si fa vanto di parlare di “guerriglia strisciante”... Macché strisciante! È il Corriere che striscia, non fa che strisciare!».
Torniamo al caso Livtinenko. Sottolineavamo prima la “stranezza” dell’uso del veleno, ancor più di quel veleno. Se si ragionasse in termini di pura “efficienza”, un servizio segreto come quello russo avrebbe potuto far sparire la sua ex spia in modo più silenzioso. C’è, nella scelta del polonio radioattivo, una motivazione particolare? Quasi volesse essere una sorta di simbolo?
«Il veleno è sempre stato usato dalle donne ed è uno strumento interessante perché ambiguo, fa paura ma è più nascosto. Anche nell’antica Roma quando si voleva eliminare qualcuno si usava il veleno; Britannico fece questa fine. Con l’avvelenamento manca la “pistola fumante”; anche le indagini hanno molte più difficoltà».
Non è insomma una scelta casuale.
«No, perché l’avvelenatore è più “coperto” del killer generico».
Eppoi il veleno si “adatta meglio” a una storia di spie...
«Vero. Il mondo delle spie ha una consuetudine all’intrigo che richiama più il veleno del revolver. Quando il fascismo sparò a Parigi ai fratelli Rosselli, in qualche modo rivendicò e si assunse la responsabilità precisa del gesto. Putin invece può fare la mammola, anche se le sue colpe appaiono evidenti».
Davvero il veleno in politica non manca, in questo periodo. Abbiamo finora parlato del veleno reale, c’è anche quello metaforico.
«Penso al caso Mitrokhin: in passato le commissioni parlamentari erano note perché non servivano a nulla, ora invece creano grovigli per districare i quali bisogna nominare una commissione che indaghi sulla commissione. È abbastanza impressionante la tipologia di consulenti che erano stati chiamati per la Mitrokhin: il più pulito era stato arrestato due volte».
Che conclusioni ne trai?
«Credo vi sia un crollo generale di qualsiasi tipo di etica, anche di quella malavitosa. Tutto ormai è possibile, perfino che Betulla diventi un martire e si firmi Dreyfus...».
Ma è un crollo italiano o mondiale?
«È un discorso generale dal quale non si salva quasi nessuno. Penso alla stessa Inghilterra, Paese nel quale la democrazia ha funzionato meglio, e a tutti i sospetti - pure giustificati - sulla morte di Lady Diana. Non ci si fida nemmeno più della Regina d’Inghilterra: ma allora è davvero la fine».
Il fango raggiunge tutto.
«Nulla è intoccabile. Tutto il potere è criminoso e tutto viene dunque coinvolto in questo crimine, o perlomeno nel sospetto del crimine. Lo si vede bene in Afghanistan: da quando sono arrivati gli occidentali, il traffico di oppio è diventato il 93 per cento di quello mondiale, appare dunque evidente la collusione tra potere e quella che definiamo “criminalità organizzata”».
L’esempio è calzante per la mia ultima domanda. È dunque la modernità occidentale, ossia la globalizzazione della quale siamo più o meno consapevoli alfieri, ciò che travolge l’individuo, i suoi valori, le tradizioni, le radici, lo stesso controllo sociale che vi era all’interno delle piccole comunità? È dunque la modernità che, in questo modo, annulla nell’uomo ogni scrupolo etico?
«Decisamente sì. Guardiamo di nuovo all’Afghanistan: comunque lo si voglia giudicare, il movimento talebano aveva una fortissima carica etica. Forse eccessiva, forse no, di certo se tagliassimo anche in Italia le mani ai ladri avremmo un Parlamento pieno di moncherini. Ma, al di là delle battute: non credo che si possa vivere a lungo in una situazione di questo genere, totalmente priva di etica. Succederà alla comunità globalizzata quel che succede alle piccole comunità dove vengono meno anche le regole di base e prende a dominare la giungla: si sfasciano da sole».
Un tempo si moriva in guerra da soldati, con un codice d’onore che disciplinava la “rappresentazione” del conflitto e del decesso; ora si muore “senza regole”.
«La guerra era un’onesta cosa, che si dichiarava e aveva regole rispettate. Rendeva etico, legittimo, qualcosa che non lo era in tempo di pace».
Hai scritto un elogio alla guerra...
«Sì, a questo tipo di guerra, che è durata fino al Secondo conflitto mondiale compreso. Ora sono invece saltate tutte le regole, da una parte e dall’altra. Non c’è più uno ius belli minimo, gli uni sgozzano ostaggi civili, gli altri bombardano a casaccio. Non c’è la dignità del combattente».
E in questa escalation senza fine si va verso l’autodistruzione.
«Ho la netta sensazione di sì. È, questa, una delle principali e più probabili, tra le tante ipotesi di autodistruzione della nostra società».