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Alain de Benoist: la vera vita è altrove (intervista)

di Alain de Benoist/Michelangelo Cimino - 02/12/2006

 

Il breve e lacunoso ritratto dell’Alain de Benoist filosofo e teorico della Nuova Destra (definizione che,

peraltro, egli rifiuta), abbozzato in questa intervista, appare lontano mille miglia dall’immagine sulfurea e

inquietante che se ne aveva. Al contrario egli appare un intellettuale di “terza forza “, per nulla settario, il cui

sguardo sul mondo, arcigno e allo stesso tempo candido, mutua elementi appartenenti sia alla sinistra

cosiddetta critica, sia alla destra antiliberale e comunitaria. La sintesi che egli sviluppa dall’incontro di questi

due filoni (o tradizioni) politico-culturali riserva non poche sorprese.

Signor de Benoist, l’accusa che più le viene rivolta è quella di essere un razzista mascherato. Ovvero di

nascondere le sue forti pulsioni razzistiche “dietro l’ossessione delle differenze” culturali (per dirla con

Pierre Andrè Tagiueff). Cosa risponde?

Tra un “razzista mascherato” che denuncia il razzismo e un antirazzista che fa lo stesso, gradirei che mi

spiegasse la differenza. So bene che dopo Freud tutte le negazioni possono essere intese come conferma del

sintomo. Ma in tal modo Marx potrebbe ben essere considerato un “anticomunista mascherato”. Ora si dà il

caso che io non mi sono limitato ad affermare che non sono razzista. Ho pubblicato tre libri (di cui uno

intitolato Contra el racismo) e decine di articoli per dimostrare la falsità intrinseca delle teorie razziste. Qual

è l’autore “di destra” che ha fatto tanto? E cosa aggiungere di più?

Il termine “razzismo” designa due cose. Da un lato, sul piano ideologico, una dottrina che fa della razza il

fattore principale dell’esistenza umana; dall’altro, sul piano sociologico un’attitudine di sistematica ostilità

verso uno o più gruppi umani. Il razzismo teorico è ai miei occhi insostenibile: la razza al pari dell’economia

non è il concetto essenziale che permette d’illuminare la storia. Quanto al razzismo sociologico esso non è

che una delle varianti della paura dell’altro, vale a dire l’incapacità di riconoscere il valore delle differenze e

il carattere positivo dell’alterità. Ho orrore delle paure, quali esse siano, in particolare la xenofobia, che rivela

ciò che Heidegger chiamava molto giustamente la metafisica della soggettività. Tutta la mia filosofia verte

sul rigetto di tutti gli atteggiamenti consistenti nel porre l’“Io” o il “noi” (che non è un “Io” allargato) come

criterio del valore della verità.

Io non ho affatto “l’ossessione” della differenza. Constato solamente che viviamo in un mondo dove le

identità culturali, i modi di vita differenziati, tendono mano a mano ad essere sradicati dalla logica del

capitale, mediante questa Forma-Capitale che omogeneizza il sociale assoggettandolo all’immaginario della

merce. Non c’è niente [nel mio pensiero, ndt]che possa legittimare una nuova forma di razzismo. Pierre-

Andrè Taguieff, che lei ha citato, ha finito egli steso per convenire. Si legga per esempio l’intervista

pubblicata nella rivista italiana “Una città” (Razzismo e differenza, gennaio-febbraio 1996). In quell’intervista

Taguieff dichiara esplicitamente che la mia posizione può essere considerata come “una forma moderata di

relativismo culturale che si può ritrovare il Levi-Strauss e che trovo del tutto legittima”. Per la verità coloro

che mi accusano di essere un “razzista mascherato”, semplicemente non comprendono che cosa sia il lavoro

del pensiero. Un uomo politico può dire il contrario di ciò che pensa, poiché la finalità delle sue intenzioni è

quella di accedere al potere. Un intellettuale non può, perché la sua opera è la sola cosa che resterà di lui.

Se non le dispiace, vorremmo rimanere ancora su questo tema. Se, come da più parti si sostiene, un’altra

copertura di questo suo presunto razzismo è rappresentata da un rifiuto ostinato, senza mediazioni, del

modello culturale americano, non crede si possa trovare una maniera accettabile per preservare la propria

identità e diversità e al contempo evitare il rischio di (auto) ghettizzarsi?

Il modello culturale americano per il fatto stesso che è americano, si distingue necessariamente dal nostro.

Ciò non significa che abbia soltanto difetti, tutt’altro(io stesso ho la più grande simpatia per autori come

Christopher Lasch o Michael Sandel), ma soltanto non è necessariamente adatto alla realtà umana e sociale

dei paesi europei.

E’ legittimo a mio parere voler difendere e conservare la propria identità. Tuttavia bisogna interrogarsi sul

significato di questa parola, che non deve ridursi a slogan o a fantasmi. L’identità non è essenza ma sostanza.

Non è qualcosa di immutabile, ma ciò che caratterizza il nostro modo individuale di cambiare. Infine, essa è

indissociabile da un racconto, da una narrazione attraverso la quale il soggetto costruisce se stesso mediante

ciò che ha ereditato e ciò che ha scelto. Le stesse identità ereditate sono oggi delle identità scelte, nella

misura in cui esse sono operanti se non per la parte che si accetta o in cui ci si voglia riconoscere. La mia

concezione dell’identità è dunque radicalmente opposta a quella degli xenofobi, i quali ne fanno un pretesto

per dirsi superiori o credere che la propria cultura non debba nulla alle altre. Il diritto alla differenza è per me

un principio che non vale se non per la propria generalità. Chi non è disposto a riconoscere l’identità degli

altri, chi pensa che l’identità degli altri minacci la sua propria, farebbe meglio a tacere.

La sua avversione per l’universalismo livellatore, di culture e differenze trova attenzione, sia pure per

ragioni diverse da quelle che muovono la Nuova Destra, in frange minoritarie della sinistra italiana. Esiste

infatti nel paese delle cento città una sinistra a-marxista, antielitista, comunitaria, antieconomista,

antiutilitarista, ambientalista ecc. i nomi dei cui esponenti di maggior rilievo le saranno noti. Le affinità fra

le tematiche di questa sinistra eterodossa e quelle della Nuova destra sembrerebbero, in apparenza superare

le divergenze. Ecco: se lei dovesse enumerare le une e le altre da dove inizierebbe?

Ho molta simpatia per questa sinistra. In un mondo dove il futuro è sempre più posto sotto il segno della

fatalità – tutti i media veicolano l’idea che viviamo in un solo sistema possibile – essa ha l’immenso merito

di mantenere viva la fiamma del pensiero critico. Rifacendomi alle idee di ciò che lei chiama “Nuova destra”

– etichetta che non ho mai apprezzato e che non utilizzo più –, non c’è dubbio che le affinità prevalgono

largamente sulle differenze.

Le affinità sono quelle da lei descritte: critica dell’ideologia dello sviluppo, forte sensibilità ecologica, antiutilitarismo,

accento posto sul localismo, rinascita delle comunità come luogo privilegiato di una

riappropriazione della dimensione politica del sociale, federalismo fondato sul principio di sussidiarietà

ecc… Alcune di queste preoccupazioni coincidono con le tematiche post-moderne. L’epoca in cui viviamo è

quella del crollo contemporaneo delle “grandi narrazioni” ideologiche, che un tempo mobilitavano le masse

suscitando presso di esse forme di impegno quasi sacerdotale, come altrettanti sostituti esistenziali della fede;

e dei grandi apparati politico-burocratici. Le divergenze sono più difficili da circoscrivere. Ci sono, certo

quelle che risultano dalla diversità dei percorsi individuali. Una tale diversità lascia sempre delle tracce. Ma

fondamentalmente, io direi che ciò che sovente mi sembra manchi in questa sinistra anti-economicista e

quindi anti-marxista, è una riflessione su alcune questioni essenziali, riguardanti per esempio la natura

umana, le condizioni per l’instaurazione ed il mantenimento del legame sociale, la natura del politico, le

finalità dell’esistenza collettiva ecc… Una delle mancanze della destra è di essere essenzialmente reattiva:

essa è indifferente alle idee, disprezza il lavoro del pensiero, non si muove che sotto l’effetto dell’entusiasmo

o dell’indignazione. Una delle mancanze della sinistra è porre la politica alle dipendenze della morale:

l’aspirazione cioè ad avere una società moralmente migliore (“più giusta”). Questo moralismo non mi sembra

necessario all’azione politica. Per fare un esempio: si può combattere l’ineguaglianza economica per delle

ragioni morali, ma si può anche combatterla perché troppo grandi squilibri di reddito creano insopportabili

tensioni politiche e sono nemiche del bene comune. Altro esempio: la retorica delle destre non mi sembra il

modo migliore di difendere la libertà. Non è un caso se l’ideologia dei diritti dell’uomo, a causa dei suoi

fondamenti individualistici, legittima indirettamente l’estensione di un certo capitalismo mercantile. Il

problema della libertà (lotta contro l’oppressione, la tirannia) è per me un problema politico, che deve essere

risolto politicamente. Non esiste libertà individuale, in una società che non è globalmente libera. La retorica

dei diritti maschera le nuove forme di alienazione umana. E’ forse a partire da questa considerazione che

bisogna analizzare il tragico sacco del processo di emancipazione portato avanti dall’ideologia dei Lumi:

l’avvento di una società totalmente regolata, dove si affermano i diritti di ognuno, ma dove il sociale è

sempre più sottomesso all’implacabile logica del capitale.

Pietro Barcellona sostiene che le tematiche proprie della Nuova destra (antiliberalismo, antiglobalismo,

rifiuto della tecnica, “antiamericanismo” ecc…) “recepiscono aspetti del senso comune” che appartengono

tanto alla destra che alla sinistra. Sono insomma trasversali ai due schieramenti politico-culturali. Questa

caratteristica, ovvero l’appartenenza al senso comune, è intenzionale, voluta; oppure è effetto di un

equivoco?

Apprezzo molto Pietro Barcellona e trovo che la sua osservazione sia totalmente esatta. Non penso affatto

che questi nuovi clivages “trasversali” siano l’effetto di un equivoco o di un’illusione, né d’altronde che siano

pienamente voluti. Essi mostrano soltanto che abbiamo cambiato epoca. Alcune idee che erano state coltivate

soprattutto a destra, passano oggi a sinistra (ad esempio la critica dell’ideologia del progresso) mentre altre

che erano state coltivate soprattutto a sinistra passano a destra (ad esempio, la critica del mercato). Ne risulta

che le nozioni di destra e sinistra non sono più efficaci per comprendere il paesaggio politico-intellettuale che

abbiamo di fronte. Se qualcuno mi dicesse che è “di sinistra” – o “di destra” non saprei praticamente nulla di

ciò che pensa. Tutti i grandi avvenimenti degli ultimi anni (costruzione europea, guerra del Golfo,

riunificazione tedesca, intervento dell’occidente nel Kossovo ecc..) hanno creato degli smottamenti

all’interno delle famiglie politiche. È l’annuncio di una ricomposizione[di cui mi rallegro. Solo il gioco

parlamentare dà l’illusione che la dialettica destra-sinistra come la si è conosciuta da due secoli, conservi

ancora il suo valore.

Signor de Benoist, i giudizi sul suo comunitarismo provenienti da intellettuali italiani, di destra e di sinistra,

sono in parte analoghi. Il rilievo che più ricorre nell’analisi di costoro, riguarda il suo carattere fortemente

intellettualistico, ideologico, poco attento alla realtà del qui e ora. Altri invece (Luigi Cavallaio, in “Il

manifesto” del 27.12.2002) vedono nel comunitarismo di destra, sempre e comunque, un qualche “corollario

di intolleranze religiose e/o razziali”. Per quale motivo?

L’accusa di “intellettualismo” sembrerebbe al tempo stesso ridicola ed inappropriata. Ridicola perché

rimproverare ad un intellettuale di essere un intellettuale equivale a rimproverare un fioraio di essere un

fioraio! In quanto intellettuale io cerco di comprendere (e di far comprendere) il mondo nel quale vivo

attraverso delle analisi teoriche che mi sembrano pertinenti. Qualunque cosa ne pensino gli spiriti frettolosi,

un tale lavoro è alla base di ogni pensiero. La teoria precede sempre la pratica: gli Enciclopedisti precedettero

la Rivoluzione, Marx venne prima di Lenin, la teologia precede la pastorale o il catechismo, la ricerca base la

tecnologia. Ma questo rimprovero è ugualmente inappropriato. E’ sufficiente leggere i miei lavori per

constatare che non ho mai smesso di guardare con attenzione gli aspetti più concreti della vita politica e

sociale: le forme attuali della globalizzazione, il rinnovamento de movimento associativo, le condizioni per

l’esercizio di una democrazia di base, le forme pratiche di una economia alternativa ecc. Il mio metodo

consiste in un andirivieni tra l’analisi teorica e l’attualità.

Luigi Cavallaio ha ragione a denunciare l’intolleranza religiosa e/o razziale. Tutta la mia vita ho lottato

contro l’intolleranza. E’ precisamente per questa ragione che ho sempre posto la lotta in favore delle

differenze culturali e delle identità collettive in una prospettiva di apertura e di dialogo. L’ideologia del Sé

tende ad interdire il dialogo ed a trasformarlo in monologo collettivo. La differenza è la condizione stessa del

dialogo. Quand’anche si allinei ad una credenza religiosa, l’intolleranza si basa fondamentalmente sulla

metafisica della soggettività: è sempre sull’Io o sul noi che poggiano i criteri della verità. Il nemico non è

pertanto più soltanto un avversario ma un nemico assoluto, una figura del Male. George W. Bush e la sua

crociata contro “l’asse del Male” Bin Laden e la sua “Jihad”, gli islamofobi alla Fallaci che mettono in

guardia contro uno “scontro di civiltà”, che essi in realtà auspicano, ragionano tutti allo stesso modo: “chi

non è con me è contro di me”. E’ l’esclusione del terzo. Per me al contrario non ci sono che terzi. E’ la

ragione per la quale mi riconoscono pienamente nell’imperativo dialogico di un Martin Buber.

Richiesto di un commento intorno al suo acceso paganesimo pre-cristiano, Marcello Veneziani sostiene che

annullare venti secoli di civiltà cristiana, dalla quale discendiamo, “significa avere un’immagine molto

astratta delle nostre radici culturali”(in “Ora Locale” V, 2). Lo stesso Pietro Barcellona definisce il suo

(neo) paganesimo “intellettualistico e cerebrale”; e lo apprezza soltanto “nella misura in cui coglie una

contaminazione popolare tra folklore e rito, senso della storia e grande utopia” (ivi). Allora le chiediamo:

perché ne ha fatto uno dei perni della costruzione teorica della Nuova destra? Per amore di tradizione e

degli autori (pensiamo a Julius Evola) che l’hanno mantenuta viva?

Sarebbe davvero ridicolo da parte mia pretendere di “annullare venti secoli di civilizzazione cristiana! Non

annullo proprio niente. Sono infatti troppo cosciente dell’importanza del cristianesimo che rimane oggi,

attraverso il complesso fenomeno della secolarizzazione, molto grande, almeno nelle sue forme negative e

profane – se si ammette con Marcel Gauchet, che il cristianesimo può definirsi storicamente come “la

religione dell’uscita dalla religione”.

Il mio interesse per il paganesimo non ha nulla a che vedere con una “tradizione” che ognuno ricostruisce a

modo proprio, e meno ancora con Julius Evola, il cui pensiero mi è completamente estraneo. Questo interesse

è di natura esclusivamente storica o intellettuale, mi sento più a mio agio quando leggo cicerone o Omero che

quando mi costringo alla lettura di Origene o di Sant’Agostino. Al pari di molti altri autori credo che la

teologia cristiana abbia introdotto una certa quantità di temi, che trasposti nella sfera delle cose umane hanno

giocato, a mio avviso, un ruolo storico negativo. Nel proclamare l’unità di una umanità chiamata a percorrere

uno stesso cammino in avanti Agostino getta già le basi della ideologia del progresso. L’individualismo

moderno non si comprende se non riferendosi al postulato cristiano secondo cui ognuno è in relazione diretta

con Dio, attraverso il tribunale della propria coscienza. Lo sviluppo della tecnoscienza, con tutti i suoi effetti

distruttivi è stato reso possibile attraverso un “disincantamento” del mondo attribuibile al monoteismo. E che

dopo la svolta cartesiana, ha legittimato la volontà umana a trattare come oggetto il mondo e la natura. Tutte

le forme classiche di tirannia, dall’assolutismo monarchico fino ai grandi autoritarismi moderni, traspongono

nella vita terrena l’onnipotenza del Dio unico, L’idea stessa di una divinità unica, contrapposta a ciò che Max

Weber chiamava il “politeismo dei valori”, genera intolleranza e si oppone al pluralismo.

Sono consapevole che questa sintesi non può essere esaustiva di una tematica immensamente complessa (la

querelle tra Hans Blumberg e Karl Löwith ne è un buon esempio). Tutto ciò può certamente apparire molto

“intellettuale”. E’ tuttavia a questo genere di “ricerca genealogica” che lo storico delle idee non può sottrarsi.

La destra italiana, ora al governo, sta dando vita ad una sorta di ircocervo politico-culturale. D un lato essa

tende alla valorizzazione dei corpi intermedi della società (la Chiesa, le comunità), per creare radicamento

e identità; e dall’altro con Forza Italia, punta alla disarticolazione dei partiti, anch’essi organizzazioni

intermedie, la cui funzione si ritiene superata, L’obiettivi, secondo alcuni (cfr. Gabriele Turi, in “il

Manifesto”, 17.12.2002), è quello di instaurare una democrazia diretta che elimini le mediazioni dei partiti e

crei un filo diretto tra il popolo e governo. Non trova che si tratti di una strana miscela di comunitarismo e

populismo?

Non ho l’impressione che l’attuale destra italiana si preoccupi molto di valorizzare i corpi intermedi! Ho

piuttosto l’impressione che si dia da fare per servire con zelo e sollecitudine le esigenze della Forma-

Capitale. Ma è vero che lo fa con uno stile relativamente nuovo. Il governo Berlusconi incarna alla perfezione

un insieme, finora inedito, di ultra-liberismo economico, di atlantismo, di populismo e di xenofobia. Questa

combinazione, che mi fa orrore, si manifesta anche in latri paesi. Essa è con tutta evidenza chiamata a

perdurare nei decenni a venire. Il termine “populismo”, oggi alla moda, resta tuttavia un termine che può

ingenerare molti equivoci, in ragione della stessa sua polisemia. Il populismo non è a mio avviso

un’ideologia, ma uno stile. Come tale può combinarsi con qualunque tendenza politica (nazional-populismo,

populismo di sinistra, populismo liberale ecc.). IN verità il populismo può essere la migliore come la

peggiore delle cose. La migliore quando permette al popolo, che si sente abbandonato e disprezzato dalla

Nuova Classe politico-mediatica, di prendere la parola e decidere per se stesso la maggior parte delle

questioni che lo concernono. UN tale populismo implica una democrazia forte, l’applicazione a tutti i livelli

del principio di sussidiarietà, delle comunità vive radunate intorno a un certo numero di valori condivisi. Il

populismo diviene, al contrario, la peggiore delle cose quando permette a governanti o capi di partito di

moltiplicare le promesse più contraddittorie, di legittimare la xenofobia assecondando passioni primarie, di

dare un abito nuovo alla demagogia. Il primo populismo favorisce una più grande partecipazione

dell’insieme dei cittadini alla vita pubblica. In ciò si rivela più democratico del sistema parlamentare liberale,

oggi minato a causa di una crisi di rappresentatività. Il secondo sottolinea al contrario un’evidente

arretramento del punto di vista democratico: favorisce l’influenza della espertocrazia la rinascita

dell’autocrazia, lascia intatto il dominio dei mercati finanziari, che costituisce il principale motore della

globalizzazione e, infine, deteriora ancora di più il tessuto sociale. Purtroppo è questo “secondo” populismo

che vedo manifestarsi oggi.

Infine, vorremmo sapere come si pone di fronte a quello che Veneziani (in “La cultura della destra, Laterza

editori) indica essere il maggior mutamento avvenuto negli ultimi anni nell’universo culturale della destra:

ovvero il “passaggio” da una cultura elitaria e aristocratica, in “costante conflitto con la democrazia di

massa”, ad una popolare e populista? Lo accetta? Lo combatte? Lo ignora?

Ancor meno della sinistra, la destra non è un fenomeno unitario. È dunque difficile parlare di una mutazione

che la avrebbe colpita nel suo insieme. Che alcuni uomini di destra abbiano compreso la necessità di

abbandonare la vecchia inclinazione statalista o elitaria potrebbe essere sicuramente una buona cosa. Credo

nondimeno che ciò non tocchi che una frazione della destra. La gran parte degli uomini di destra non ha

ancora inserito nel proprio bagaglio culturale una vera esigenza democratica e popolare. Essi rimangono

attaccati all’ordine morale come al modello del mercato; difendono il capitalismo liberale; mettono sotto

accusa tutti coloro che impediscono il sorgere di un nuovo ordine mondiale. Il delirio islamofobo si coniuga

oggi in maniera rivelatrice, all’apologia della crescita e dello “sviluppo”, a una decisione acritica alla logica

del profitto. La parola d’ordine della destra resta essenzialmente: “sempre più!”. E’ la ragione per cui ogni

volta che un partito di destra arriva al potere si vede progredire l’implacabile logica del sistema del denaro

con il suo corteo di miserie, ineguaglianze ed esclusioni. La sinistra classica si oppone sempre meno a tale

sistema, essendosi anch’essa convertita al modello del mercato. Si potrebbe a tale riguardo parlare di

“estremismo del centro”(Uli Bielefeld). Da parte mia preferisco il brasiliano Lula de Silva all’italiano

Berlusconi. Ma preferisco ancora di più coloro che sono attenti a ciò che viene. La vera vita è altrove.

Intervista di Michelangelo Cimino (Ha collaborato alla traduzione Stefania Corbi)