Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Privatizzare con i soldi pubblici

Privatizzare con i soldi pubblici

di Andrea Angelini - 19/12/2006



Ai tempi della Prima Repubblica l’economia nazionale era trainata dal sistema delle Partecipazioni Statali, basato su alcuni Enti pubblici dalle enormi dimensioni che gestivano, a volte in perdita, aziende di rilevanza strategica per la nostra economia, società insomma che si preferiva tenere in vita sperando che si risanassero anziché tirare giù la serranda ed essere obbligati trasferire i dipendenti ad un’altra azienda gravitante sempre nel settore pubblico. Era un sistema ad economia mista, un retaggio delle vicende successive al crollo di Wall Street del 1929 che in Italia si era fatto pesantemente sentire infierendo sulle insufficienze strutturali e sulla arretratezza del nostro sistema economico. In quegli anni la Borsa era un’autentica giungla, peggio di quello degli anni sessanta e settanta, dove i soliti nomi dei “salotti buoni” (purtroppo esistevano già allora) potevano fare i propri comodi ai danni dei piccoli azionisti, costantemente derubati e ridotti in rovina. La Prima Guerra Mondiale aveva lasciato dietro di sé un’economia stremata con le industrie obbligate a riconvertire la propria produzione da bellica in civile. Soprattutto erano industrie fortemente indebitate con le banche, la Fiat di Agnelli con il Credito Italiano, l’Ansaldo dei Perrone con la Banca Commerciale. La soluzione trovata fu quella di cercare di trasformare i debitori in padroni dei propri creditori, anticipando di qualche decennio la filosofia caratteristica di Mediobanca.
I due tentativi di scalata, gli Agnelli unitamente al famigerato Riccardo Gualino (successivamente mandato al confino da Mussolini) all’attacco del Credito Italiano, e i Perrone all’attacco della Commerciale, seppure vennero vanificati dall’intervento del governo fascista, finirono per indebolire ulteriormente l’economia italiana che fu particolarmente traumatizzata dalle conseguenze della crisi.

Banche e imprese
Per impedire ulteriori situazioni destabilizzanti il governo escogitò da un lato il metodo dell’economia mista, tramite un soggetto pubblico che gestisce società che agiscono in maniera privatistica sul mercato, e dall’altro la Legge Bancaria con la quale si proibiva alle banche di credito ordinario, quelle che imprestano denaro a breve termine, di possedere partecipazioni in aziende industriali, e viceversa. La funzione di investimento poteva essere svolta solo da banche che raccoglievano denaro dalla clientela tramite l’emissioni di titoli a medio o a lungo termine. Il sistema così escogitato sopravvisse anche nella Repubblica nata dalla seconda guerra mondiale assicurando, sia pure con alti e bassi, una certa stabilità dell’ordine sociale e del mercato e, come fu nel caso dell’Eni, garantendo anche l’indipendenza energetica del nostro paese. Nel caso degli istituti a medio e lungo termine, esemplare fu il caso di Mediobanca che vantava la peculiarità di essere controllata da tre banche di credito ordinario a loro volta controllate dalla finanziaria pubblica per eccellenza, l’Iri, il fulcro delle Partecipazioni Statali. Ma tutte le cose devono passare e a cambiare la situazione provvide prima la nuova Legge Bancaria del 1992 che tolse il divieto alle banche di essere azioniste delle aziende e viceversa. Così oggi un dato di fatto è evidente: il dominio che le banche esercitano oggi sulla vita economica e sociale del nostro Paese. Dopo 56 anni, l’Italia ha deciso di adottare il cosiddetto “sistema tedesco” nel quale le banche non solo prestano soldi alle aziende ma ne sono anche azioniste e molto spesso in posizione predominante e a loro volta le imprese sono azioniste delle banche grazie a quei convenienti meccanismi denominati “incroci azionari” in virtù dei quali viene diluito il capitale effettivo complessivamente a disposizione e di conseguenza compromesso il principio cardine del commercio, l’affidamento dei terzi.

Avanti, si privatizza
Un’altra svolta si ebbe con i processi di privatizzazione delle imprese controllate dallo Stato avviati dopo la famigerata crociera del Britannia del 1992. Fu questo il vero spartiacque tra due epoche. In tale occasione, mentre già stavano manifestandosi i primi vagiti di quel fenomeno teleguidato che fu Mani Pulite, i principali dirigenti delle Partecipazioni Statali salirono sul panfilo reale messo gentilmente a disposizione dai Windsor per ricevere lezioni sul modo migliore di realizzare le privatizzazioni da esponenti di Wall Street e della City londinese. O meglio, sulla “necessità” di realizzare le suddette privatizzazioni per rendere l’Italia sempre più simile agli altri paesi europei.
La crociera del Britannia del 2 giugno 1992, alla quale a titolo di avvertimento, seguì in settembre l’attacco speculativo contro la lira organizzato da George Soros, si inserì pienamente nell’epopea di Mani Pulite, quando una magistratura che per anni era rimasta praticamente ferma, decise di scendere in campo per “moralizzare” il nostro paese e prese a colpire l’ala moderata della Dc e il Psi di Bettino Craxi, per spazzarli via entrambi. Curiosamente vennero risparmiati il Pci e la sinistra democristiana, quella dossettiana e tecnocratica i cui molti esponenti avevano partecipato alla famigerata crociera da Civitavecchia all’Argentario. Alcune “manine” e alcune “barbe finte” incominciarono a passare a chi di dovere dossier segreti che da tempo stavano nei cassetti facilitando quindi la gestione delle indagini giudiziarie. La strategia che si voleva attuare era quella di sostituire la vecchia classe dirigente democristiana e socialista con quella proveniente dal vecchio Pci che nel frattempo era stato spinto a trasformarsi in partito socialdemocratico dalla forza della Storia, in altre parole dal crollo del Muro di Berlino e del Comunismo che avevano tagliato da un lato il legame storico ed ideale con una realtà crollata su se stessa, e dall’altro avevano fatto venire meno i finanziamenti che arrivavano da Mosca. Un Pci-Pds che tramite i sindacati poteva garantire la pace sociale e che in cambio di questa legittimazione a governare avrebbe dovuto spingere l’acceleratore sulla strada delle privatizzazioni. Un compito di cui vennero gettate le premesse durante il governo tecnocratico di Carlo Azeglio Ciampi nel 1993 e che venne pienamente attuato con i governi che seguirono al breve interregno di Silvio Berlusconi nel 1994 che scompaginò in parte tale progetto ma che venne in breve rovesciato e sostituito da Dini al quale subentrarono dal 1996 al 2001 prima Prodi, poi D’Alema e quindi Amato che dettero il via alla svendita sul mercato della maggioranza del capitale di Eni e di Telecom. Alla finanza anglo-americana interessava in particolare l’Eni, l’Ente Nazionale Idrocarburi, fondato da Enrico Mattei che per decenni aveva rappresentato una spina nel fianco per gli interessi delle majors anglo-americane, le cosiddette Sette Sorelle e che aveva garantito l’indipendenza energetica del nostro paese. Il risultato del processo di privatizzazione è che a tutt’oggi il capitale dell’Eni risulta sotto il controllo da fondi di investimento anglo-americani che con il 48% detenuto ne sono di fatto i proprietari.
A fare gli onori di casa sul Britannia e fare un discorso di benvenuto a tutti i presenti (come Nino Andreatta, Giovanni Bazoli e Luigi Spaventa) fu l’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi, ora governatore della banca d’Italia. A bordo c’erano fra gli altri i rappresentanti di diverse banche d’affari estere, tipo, guarda guarda, la Goldman Sachs, ritenuta molto vicina a Romano Prodi. E poi la S.G.Warburg, la Baring Co., la Bzm, la Barclay’s bank. e a titolo personale il “mecenate” di se stesso, Georges Soros. Così Draghi, colui che in buona sostanza avrebbe dovuto guidare sul piano tecnico il processo di privatizzazione una volta che i politici si fossero “convinti” che era opportuno realizzare il progetto, sottolineò che l’Italia aveva bisogno di riforme politiche, economiche e finanziarie e che il principale ostacolo in tal senso era rappresentato dal sistema politico. Guarda caso, dopo la crociera sul Britannia partì l'attacco speculativo contro la lira in settembre ad opera di Soros. Una speculazione che l’allora governatore di Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, in tale occasione molto pressato dalla Repubblica di Eugenio Scalari, non seppe contrastare ricorrendo alla svalutazione della lira e alla susseguente fuoriuscita dal Sistema monetario europeo. Entrambe decisa quando era ormai troppo tardi e le riserve valutarie di Via Nazionale si erano ormai volatilizzate.
Il grande banchetto
Da quella giornata prese il via il processo di privatizzazione delle aziende e della società facenti parte del sistema delle Partecipazioni Statali.
All’Eni si è già accennato e per parlare di tutte le implicazioni di politica e di economia legate alla sua privatizzazione non basterebbe una pagina di giornale. Altrettanto significativa fu però lo smantellamento progressivo dell’Iri, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, creato nel 1936 da Benito Mussolini e da Alberto Benedice (suocero di Enrico Cuccia) e la privatizzazione delle società che da esso dipendevano. Vennero così via via privatizzate le tre Bin, banche di interesse nazionale, Credito Italiano, Banca Commerciale e Banco di Roma e la loro controllata Mediobanca, con le prime due che finirono nell’orbita delle grandi famiglie del Nord.
Ma fu soprattutto nel caso della Telecom, già Sip, che si raggiunsero livelli di spudoratezza impensabili. La privatizzazione della società telefonica (alla quale in nome della normativa europea fu tolto il monopolio del settore permettendo ad altri soggetti di entrare sul mercato) si concretizzò con una cessione di fatto agli Agnelli e alla galassia di soggetti anici, come la banca San Paolo, i quali trattandosi di una società a capitale molto diffuso, la controllavano con una quota appena superiore al 7% .
Tale equilibrio venne messo in crisi dall’Opa totalitaria lanciata dall’Olivetti di Colaninno che si aggiudicò la società ma che poi non fu in grado di resistere ai troppi debiti accumulati e fu obbligato a cedere il campo alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera. Ma evidentemente il difetto è nel manico, cioè nell’approccio dimostrato da tutti costoro nei riguardi del modo di fare gli industriali visto che lo stesso Tronchetti Provera ha dovuto cedere la guida della Telecom anche se non il pacchetto di controllo.
Quale è insomma il difetto? Il fatto che Agnelli, Colaninno e Tronchetti Provera, abituati al sistema degli aiuti di Stato alle imprese private, si sono gettati sulla Telecom con la volontà di sfruttarne gli ingenti flussi finanziari, in particolare quelli di Tim, per migliorare la situazione delle società di famiglia in cima alla piramide di controllo. Una tecnica tipica della Prima Repubblica ed elevata a regola d’arte dalla Mediobanca di Enrico Cuccia e che evidentemente vanta degli imitatori anche nella pseudo Seconda. Ma anche nel caso più recente della privatizzata Autostrade fa capolino questa impostazione.
Con i Benetton, azionisti di riferimento della società concessionaria, una società ricordiamolo che svolge un’attività di interesse nazionale, pronti a ricorrere a qualsiasi espediente per fare cassa a proprio beneficio, ma per nulla disposti a realizzare gli impegni sottoscritti al momento della stipula del contratto di concessione.
Resta quindi immutabile la mentalità di un certo capitalismo italiano, privo di una visione strategica a tutela degli interessi collettivi ma pronto sempre, come succedeva cento anni fa, a fare solamente i propri interessi e al tempo stesso pretendendo di essere pure ringraziato per essersi preso in carico un’attività che lo Stato svolgeva sicuramente meglio.