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Quale futuro per l'«Homo urbanus»?

di Jeremy Rifkin - 20/12/2006


Nella grande era dell’urbanizzazione, credendo che avremmo potuto conquistare e colonizzare le ricchezze del pianeta senza conseguenze indesiderate, per noi e per le generazioni future, abbiamo progressivamente chiuso il genere umano al resto del mondo naturale. Nella prossima fase della storia umana dovremo trovare il modo di fare un passo indietro

L’anno in arrivo rappresenta una pietra miliare nella storia dell’umanità, un’evoluzione la cui portata è paragonabile a quella dell’era dello sviluppo agricolo e della Rivoluzione industriale. Secondo le Nazioni Unite, per la prima volta nella storia la maggioranza degli esseri umani vivrà nelle grandi aree urbane, in particolare nelle metropoli – e nelle loro periferie – da dieci milioni e più di abitanti.

In sostanza, siamo entrati nell’età dell’Homo Urbanus.

Duecento anni fa, l’individuo medio sulla Terra incontrava nell’arco della sua esistenza dalle 200 alle 300 persone. Oggi le persone tra cui un residente di New York può vivere e lavorare, nell’arco di un raggio di 10 minuti dalla sua casa o dal suo ufficio a midtown Manhattan, sono 220.000.

Nel corso della storia, una e una sola città – l’antica Roma – ha vantato una popolazione di oltre un milione di persone prima del XIX secolo. Londra nel 1820 è diventata la prima città moderna con oltre un milione di abitanti. Oggi 414 città nel mondo ne hanno più di un milione, e la tendenza non può che consolidarsi.

Man mano che il genere umano ha dovuto iniziare a contare sui flussi solari, sui venti, sulle correnti, sulle forze proprie e su quelle animali, le popolazioni hanno iniziato a relazionarsi alla capacità di accoglimento della natura – l’abilità della biosfera di riciclare e rinnovare le risorse. L’aspetto principale è stata la riesumazione di enormi quantità di energia solare, prima in termini di depositi carboniferi, poi sottoforma di petrolio e gas naturale.

Sostenuti dal motore a vapore, e più tardi da quello a scoppio, trasformati in elettricità e distribuiti attraverso condutture energetiche, i combustibili fossili hanno consentito all’umanità di dar vita a nuove tecnologie atte a incrementare la produzione di cibi, la manifattura di beni e l’erogazione di servizi. Uno sviluppo impensabile, che a sua volta ha generato una crescita della popolazione mondiale e un’urbanizzazione del pianeta senza precedenti.

Nessuno in realtà è certo se questa svolta nella storia dell’umanità debba essere celebrata, biasimata o semplicemente archiviata. I dubbi nascono in quanto gli sviluppi demografico e urbano si sono realizzati a spese di ecositemi e habitat naturali.

Lo storico Elias Canetti una volta ha osservato che ognuno di noi è come "un re in un campo di cadaveri". Se ci fermassimo un istante e riflettessimo sul numero di creature e sulla quantità di risorse naturali che abbiamo contribuito a espropriare e consumato nella nostra vita, ne rimarremmo attoniti, e forse ci avvicineremmo alla comprensione della realtà della carneficina e dello sfruttamento perpetrati nel tempo per garantire la nostra sopravvivenza.

I milioni di abitanti delle megalopoli, per mantenere attive le proprie infratrutture ed efficienti le proprie attività quotidiane, bruciano enormi quantitativi dell’energia terrestre. La Sears Tower di Chicago da sola consuma in un giorno più elettricità che l’intera città di Rockford, nell’Illinois, dove vivono 152.000 persone.

Ancor più incredibile il fatto che oggigiorno ci serviamo di circa il 40% della produzione primaria netta della Terra – la quantità di energia solare convertita alle piante organiche attraverso la fotosintesi – sebbene contribuiamo solo in minima parte all’energia delle biomasse del pianeta. Ciò significa, ovviamente, meno energia disponibile per altre specie viventi.

Il fenomeno dell’urbanizzazione è ciò che ci lasciamo alle spalle nel nostro cammino verso grattacieli di uffici sempre più imponenti, residenze sempre più sfarzose, paesaggi dove imperversano vetro, cemento, luci artificiali e interconnessioni elettroniche. Non è casuale che mentre celebriamo l’urbanizzazione del mondo registriamo un’ulteriore significativa svolta: la progressiva scomparsa degli stati bradi.

La popolazione cresce; aumentano i consumi di cibo, acqua e materiali di costruzione; si espandono le strade e i trasporti su rotaia. Risultato: la macchia d’olio dello sviluppo urbanistico continua ad erodere terreno a ciò che rimane delle aree incontaminate, favorendone l’estinzione.

Gli scienziati ci dicono che entro l’arco della vita dei bambini di oggi, tali aree scompariranno dalla faccia della Terra. L’autostrada transamazzonica, che taglia in due l’intera superficie della relativa foresta pluviale, minaccia l’annientamento dell’ultimo grande habitat naturale. Le altre regioni selvagge rimaste, dal Borneo al bacino del Golfo, si stanno contraendo giorno dopo giorno, elargendo spazi per le popolazioni in cerca di aree in cui vivere e risorse sempre più consistenti.

Non stupisce che (secondo il biologo di Harvard E.O. Wilson) stiamo assistendo alla più grave estinzione di massa di specie animali degli ultimi 65 milioni di anni. Stiamo perdendo dalle 50 alle 150 specie al giorno, dalle 18.000 alle 55.000 all’anno. Entro il 2100 i due terzi dei generi animali rimanenti sul pianeta potrebbero estinguersi.

Dove ci conduce tutto ciò? Proviamo a immaginare, da qui a 35 anni, 1.000 città da un milione e oltre di abitanti, contro le 414 di oggi. Fa girare la testa. Non voglio fare il guastafeste, ma non sarebbe male se nel 2007 la commemorazione dell’urbanizzazione rappresentasse l’occasione di ripensare al modo in cui viviamo.

Senz’altro c’è molto di cui poter essere soddisfatti della vita attuale nelle città: le diversità culturali, la rete dei rapporti sociali, le floride attività commerciali. Ma la questione è trovare un equilibrio, sostenibile. Dobbiamo gestire l’esplosione demografica e promuovere quegli ambienti urbani che utilizzano l’energia e le risorse in modo efficiente, quelli in cui si inquina meno e meglio si organizza la vita.

Nella grande era dell’urbanizzazione, credendo che avremmo potuto conquistare e colonizzare le ricchezze del pianeta senza conseguenze indesiderate, per noi e per le generazioni future, abbiamo progressivamente chiuso il genere umano al resto del mondo naturale .

Nella prossima fase della storia umana, se vorremo garantire la sopravvivenza della nostra specie e conservare il pianeta per chi verrà dopo di noi, dovremo trovare il modo di fare un passo indietro.

 

Jeremy Rifkin è autore di 'The Hydrogen Economy: The Creation of the World Wide Energy Web and the Redistribution of Power on Earth' e consigliere del parlamento europeo per le politiche di energia rinnovabile e per l'economia dell'idrogeno. È presidente della Foundation on Economic Trends di Washington.

 

Fonte: The Washington Post
Traduzione a cura di Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media