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La sentenza cadde sulle loro illuminate teste

di Miguel Martinez - 30/12/2006

 

Alle quattro di stamattina, gli occupanti americani hanno consegnato Saddam Hussein ai suoi nemici iracheni, esattamente il tempo occorrente per impiccarlo.

Non sono mai stato un sostenitore di Saddam Hussein: è sufficiente la lettura del resoconto che fa Robert Fisk, nel suo magnifico libro, The Great War for Civilization (tradotto in italiano, credo,sotto il titolo di Cronache mediorientali), per capire perché.

Saddam Hussein non è solo stato un ingegnere di anime in stile sovietico. Ha anche commesso deliberatamente il più grande, e il dimenticato, di tutti i delitti, attaccando l'Iran.

Un delitto analogo a quello che hanno commesso a loro tempo, i re e i primi ministri dell'Austria-Ungheria, della Francia, dell'Italia, del Giappone, della Turchia, della Russia e dell'Inghilterra nel 1914-1915. Crimini che a loro tempo portarono subito a qualche decina di milioni di morti, e avviarono una catena di eventi che finirono solo con la morte di Hitler in Europa, e quella di Mao in Asia.

Né voglio negare il diritto dei suoi avversari di assassinarlo: quando Saddam Hussein prese il potere aveva sicuramente messo in conto la certezza di finire male, e aveva anche deciso che il gioco valesse la candela.

Non condivido affatto la campagna italiana contro la sua uccisione, in nome dell'opposizione astratta alla "pena di morte", perfettamente speculare al gioco di chi invece ha invocato "l'impiccagione del tiranno".

Perché le campagne contro la pena di morte partono sempre da un presupposto: lo Stato - ente astratto, al di sopra degli interessi contingenti, suprema sede del bene comune - ha tra i suoi diritti anche quello di privare i "criminali", cioè gli esseri umani che incarnano il male, anche della loro vita?

Già opporsi alla pena di morte implica, così, la divinizzazione di chi la applica, la giustezza della sentenza, il diritto di chi si dichiara Stato di definire il bene e il male, e di disporre della vita (ma non della morte) di chi ha deciso di relegare tra i malvagi.  A questo si accompagna la spaventosa idea che l'ergastolo possa essere cosa più civile di una veloce uccisione: la condizione di asettica disumanizzazione degli ergastolani negli Stati Uniti non è diversa da quella in cui ha dovuto vivere Piergiorgio Welby.[1]

Quello che trovo ributtante, invece, dell'omicidio di Saddam Hussein è il suo travestimento da processo.

Ergendosi in maniera blasfema a Dio in terra, gli Stati Uniti non possono avere avversari.

Dio è perfettamente giusto, e perfetto il Suo regno. Quindi la ribellione non può mai avere una motivazione che vada al di là del puro e semplice peccato individuale.

Curiosamente, il peccato ha una duplice natura. Da una parte, è invasione demoniaca, o psicopatologica: ecco l'indugiare sui dettagli, veri o presunti, della psicosi del nemico.

 Ma la psicopatologia, come la possessione demoniaca, implica l'incapacità di intendere e di volere: facile temere un invasato, ma difficile odiarlo. Ecco perché va visto, non come semplice malato, ma come peccatore. Cioè come persona che è in balia di Satana, eppure con piena colpevolezza.

Alla categoria storica di avversario, si sostituisce così quella trascendentale di criminale; e solo la sua eliminazione fisica, in nome della Giustizia divina, può riportare l'ordine, come spiega molto bene Cloro sul suo blog.

Ecco perché il semplice omicidio - gesto umano e comprensibile - deve essere sostituito da un rituale. In cui gli assassini non sono più uomini, ma portatori astratti del Bene.

L'esito del processo è già stato scritto - nel dicembre del 2003, Bush dichiarò alla BBC che soltanto "la pena ultima" sarebbe stata il giusto castigo per questo "disgustoso tiranno" (vedi Vittorio Zucconi su Repubblica di oggi).

Però il rito, come ogni rito, deve seguire determinate forme: la giustificazione dell'omicidio futuro deve essere trovata in qualche testo che, grazie alla sua astrazione, dia l'illusione di essere al di sopra dei furori umani. La sentenza deve cadere quasi come una sorpresa, sulle illuminate teste dei giudici.

Questo è stato esattamente il meccanismo della Santa Inquisizione. Gli anticlericali hanno sempre insistito sui suoi aspetti truculenti, ma ciò che era veramente originale dell'Inquisizione è stata la creazione di un sistema inappuntabile di regole e apparenti garanzie, che pure permettevano invariabilmente di condannare.

I giudici di Saddam Hussein, quindi, sono esseri umani che decidono del bene e del male, della vita e della morte, ma fingono che a farlo non siano loro stessi, bensì un Codice; come nell'Inquisizione, dove si fingeva l'obiettività offrendo un difensore alla vittima.

Non solo: i giudici non versano il sangue, ma fanno sì che siano altri a farlo - l'anonimo boia, che all'alba di Abu Ghraib tira qualche leva, che come nelle macchine dei fumetti, mette in moto una serie di rotelle e ingranaggi, i quali spezzeranno loro il collo a Saddam Hussein.

Nello stesso giorno in cui milioni di musulmani, molto più umanamente, sgozzano con le proprie mani un montone per far festa.

Curiosamente, anche l'Inquisizione prevedeva la consegna al braccio secolare, immancabilmente accompagnata da un appello a "non versare il sangue" del condannato. Che perciò veniva, infatti, in genere, arso vivo. Certo, qui abbiamo una doppia consegna al braccio secolare, da parte degli americani ai nemici iracheni di Saddam Hussein, e da parte dei giudici al boia.

Con tutta la distanza che provo verso Saddam Hussein, sono infinitamente più umane le sue ultime dichiarazioni, trasmesse dal suo avvocato Ahmad Siddiq (sempre su Repubblica di oggi):

"Il morale del presidente era alto. Era accaduto quello che si aspettava, niente più.

Ha consolato noi e ci ha ringraziato: più di questo, ha detto, non potevate fare. Ci ha affidato un messaggio per la famiglia, perché non ha potuto rivederli: ci ha chiesto di dire loro di essere uniti e che stava per compiersi la volontà di Dio, il suo martirio per l'Iraq.

Poi ci ha detto che lui non odia Bush e Blair:

"Ho combattuto otto anni Khomeini: non ho mai odiato l'uomo, ma la sua politica. Così è oggi: non odio loro, ma la loro condotta. E spero che il mio Paese sia unito nel rifiutarla, e nel lottare".

Nota:

[1] Sia chiaro, non intendo affatto oppormi alle campagne per l'abolizione della pena di morte nel mondo, se condotte pragmaticamente e non astrattamente.