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Prostata, notte di uomini

di Guido Ceronetti - 04/01/2007

 
L’occasione del recente evento chirurgico vissuto dal presidente della Camera Fausto Bertinotti mi induce a parlare, da buon sperimentatore di ciò che significa, della Prostata. Aggiungo le mie personali felicitazioni per il superamento e l’augurio di una convalescenza che non tenga in nessun conto l’obbligo mediatico della guarigione istantanea, del fulmineo rientro, perché bisogna digerire bene l’amputazione della ghiandola strana, notturna punta della maschilità, sfinge comune al crocicchio degli anni.

Maschilità. La prostata annulla le stupidaggini senza numero sulla indistinzione e un’appiattita parità dei sessi che ci tocca fingere di avere come dato acquisito: pensare prostata è ossigeno per la maschilità negata e messa in forse. Com’è impossibile (e vietato) l’accesso maschile di conoscenza al santuario ovarico, così la prostata, cessato o declinante il limitato allacciamento erotico, fa da cane da guardia di ciò che più separa, nelle profondità viscerali, l’uomo intero dal femminile. Le donne tuttavia patiscono il tremendum della prostata ipertrofica quando sono compagne e condividono il letto e ogni cosa in comune. Il sessuologo Georges Valensin lo definiva stupendamente le calvaire de l’épouse.

L’età più o meno avanzata è l’unica condizione perché ci sia su questo un dialogo tra uomini impensabilmente fraterno, senza distinzioni di classe o di censo: la prostata è interclassista e ci rende uguali. Se non è socialismo, è socialità.

Due prostatici che si comprendano linguisticamente fraternizzano appena uno dei due scopra nell’altro, per repentino crudele bisogno, il malanno che l’opprime: di colpo, dal gelo dell’ignorarsi reciproco, ecco zampillare, per quanto d’anima è nell’uretra misteriosamente presente, un’amicizia senile degna del trattato di Marco Tullio. Un segnale di comprensione e soccorso (lo captano le donne intelligenti e di pazienza materna) viene emesso dall’adenoma che ci condiziona e flagella - diretto, non all’urologo raccomandato, ma a tutti gli uomini in tutto il globo. Quante volte, chissà, l’invocazione rituale che riudiamo nella carne del libro dei Salmi, sarà stata pronunciata da un orante nell’indicibile martirio urologico creato da una vescica ostruita (attribuendolo al malocchio) in epoche in cui un Dio soltanto ci poteva sciogliere il nodo? Elì Elì... Un uomo che cos’è, nell’infinito? Una voce che grida.

Pur esistendo da sempre (rara però, quando la vita non passava la cinquantina) l’ipertrofia è un male proprio della civiltà, e specialmente di questa, afflitta da quella che un medico di Losanna, il Tissot, già nel XVIII in un trattatello latino definiva culpa sessionis: il peccato di sedentarietà. L’automobilismo universale ha disseminato il guaio dappertutto, le ore di studio in gioventù, il sesso e la minzione regolare selvaggiamente repressi, le interminabili riunioni di affari, parlamentari, sindacali, congressuali di ogni tipo, i viaggi aerei che ti paralizzano per venti ore (c’era molta prostata in meno sui transatlantici), gli spettacoli che toccano durate di quattro o cinque ore, senza pietà per i perinei maschili... Tutto questo sediame e sedutame di gente ferma fa prostata a montagne. La prostata è olimpicamente amorale: punisce il casto e l’iperlibidinoso, il letteratissimo e l’ignorante, risparmia - pare - l’intossicato dall’alcool e, speriamo, l’innocuo maratoneta. Vale sempre la sentenza di Menandro: «Colui che gli Dei amano, muore giovane» (perché alla prostata fa le fiche).

L’unica riflessione giusta è: tutta questa civiltà è un immenso errore. Io avrei potuto tentare di vivere in un altro modo invece di farmi incatramare in una detestata buca di esistenza - ed è tardi (è sempre tardi) per rimediare.

Un pensiero di conforto in questi Tristi Duemila è, fratelli: cento anni fa operarsi alla prostata era terrificante. Ancora, ricordo, nel 1940 e oltre l’intervento si faceva in due tempi distanziati, credo, di un anno, e l’operando era alonato di rischio di morte, il diametro dei catéteri ti faceva fuggire dal reparto in pigiama. Memorabile, nella sua celebre Chirurgie de la douleur del 1938 la sentenza di René Leriche: «Da poco tempo soltanto siamo in grado di lenire la tortura urologica dell’uomo». Oggi una chirurgia impressionante di bravura interviene angelicamente e dall’esausto carname vivo asporta il male quando si fa diabolico, o tale lo riteniamo. Ma il pendolo di Poe resta sospeso, si ferma e poi riprende a muoversi, sul nostro Triangolo delle Bermude di fondamento, tra le sue oscure acque di naufragio. «Nuit des hommes seulement».