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La caccia e il concetto di caccia e la "matura in sè"

di Mario Spinetti - 18/01/2007

 

La società contemporanea ha raggiunto, nei Paesi cosiddetti sviluppati, un elevato grado di “benessere” grazie anche alla progressiva affermazione del ceto medio. La logica del profitto, forza trainante del sistema, determina una notevole produzione industriale e un conseguente inquinamento ambientale. Il cittadino, asservito alle categorie capitalistiche, attiva il turnover del consumo, alimentando la richiesta di elementi e il suo conseguente utilizzo. Lo scenario naturale, contenitore globale delle attività umane, subisce pesantemente l’aggressione capillare e penetrante del meccanismo. Deforestazione, inquinamento chimico, acustico e nucleare, antropizzazione del territorio, riduzione delle aree selvagge, addomesticamento dei luoghi, sovrappopolazione, non sono che alcuni esempi delle conseguenze di tale sistema vitale.

In uno scenario così drammatico e precario, si innesta l’attività venatoria. Praticata dall’uomo sin dalle epoche preistoriche, quando era raccoglitore/cacciatore, è andata via via perdendo la sua funzione di pratica di sostentamento, grazie anche all’avvento dell’agricoltura e della pastorizia. Allo stato attuale permane in quasi tutti i Paesi con soli intenti ricreativi, di reminiscenza passionale e, occasionalmente, come attività di riequilibrio e di selezione delle popolazioni di animali (per esempio ungulati) disarmonizzate per la mancanza di predatori naturali eliminati o ridotti dall’uomo. Ma poniamoci a questo punto una domanda: è ancora lecito o meglio ha ancora senso praticare l’attività venatoria “sportiva” in un mondo ormai ecologicamente devastato e alterato? Se il concetto di caccia come attività di sostentamento e di equilibrio faunistico può avere un senso, non lo può certamente avere l’attuale realtà venatoria, soprattutto in certi Paesi.

Molti cacciatori, giustamente, asseriscono che i danni inferti all’ambiente vengono da altra fonte (industria, agricoltura chimica, antropizzazione, stile di vita, pascolo eccessivo, ecc.), ma dimenticano di dire che quel poco che è stato casualmente risparmiato da quella “fonte” negativa, deve essere ora distrutto da loro.

Una cosa è il concetto di caccia, come prelievo alimentare del selvatico praticato da chi ne ha necessità vitali, e una cosa è la caccia nella realtà odierna. Se è lecito il primo concetto non può esserlo il secondo.

Uomini “tecnologici”, che vivono in una società avanzata, all’improvviso imbracciano il fucile e, ricordando i tempi andati, si dichiarano protezionisti e vanno a sparare a tutto ciò che si muove (e non). Se poi, da un discorso generale si approda a specifiche realtà territoriali, come per esempio quella italiana, allora il dramma è totale. Masse di “sparatori”, in un territorio già di per se distrutto ed alterato (inquinamento, strade montane, disboscamento, cementificazione, antropizzazione, ecc.), anche dalla nostra semplice invadenza, aggrediscono quel poco di selvaggio che è rimasto. E’ vero che lo stesso vale per le orde “barbare” dei turisti, degli alpinisti, degli sciatori, dei cementificatori, ecc., ma qui è la caccia ad essere “imputata”.

Pensate se è giusto che in un’area naturale fortunatamente salvaguardata dalle ingiurie dell’addomesticamento, della “valorizzazione” turistica o da altro oggetto inquinante, venga praticata l’attività venatoria per uccidere un animale selvatico che ha già i suoi problemi per sopravvivere (restringimento dell’habitat, disturbo, ecc.). Qui non si vuole porre in risalto gli aspetti morali, pietistici o animalisti, ma solamente un’ennesima soggettività dell’uomo. Non si vuole condannare chi ancora oggi, in qualche parte della terra, caccia o pesca per sopravvivere, ma solamente quella frangia dell’umanità che per diletto e per “passione” va borghesemente a caccia. Se poi caccia deve essere, occorre allora rinegoziare le regole di concessione per cercare di codificare un comportamento eticamente compatibile. In primo luogo, un vero cacciatore, deve rinunciare alle comodità tecnologiche moderne (fucili all’infrarosso, ricetrasmittenti, ecc.), deve rinunciare a recarsi in montagna utilizzando le strade che lo portano fresco e riposato in alta quota e deve acquisire una profonda cultura ecologica rispettosa preminentemente del valore in sé della natura. Altro elemento importante deve essere quello che tutto il territorio è chiuso alla caccia e solo in alcune aree è consentita praticarla tra l’altro a rotazione. Il numero dei cacciatori poi, deve essere considerevolmente ristretto in giusto rapporto con l’estensione del territorio aperto all’attività venatoria. Le specie cacciabili saranno quindi solamente quelle che possono essere riprodotte in cattività e facilmente reimmettibili (p.e. lepri). Tuttavia, tale pratica (cioè la reimmissione stagionale di fauna) evidenzia il grave squilibrio ambientale di certi territori non più produttrici spontanei di fauna selvatica e quindi soggetti a reintroduzioni venatorie continue e forzate. E’ più che evidente quindi il fallimento di una situazione del genere e conseguentemente di una attività venatoria definibile in termini più appropriati estremamente “artificiale” e senza senso.

Tornando a considerare la pratica venatoria nella realtà, occorre aggiungere che sono fin troppo evidenti le differenze che si rilevano tra i vari Paesi. Se in Scandinavia, per esempio, il cacciatore rispetta in genere le norme cui sottostare e partecipa attivamente alla salvaguardia del territorio, in Italia, di converso, regna il più assoluto vandalismo, la furbizia e l’ignoranza. Vigono ovviamente le dovute eccezioni. Se i cacciatori, negli anni trascorsi, quando regnava la più totale anarchia venatoria, si fossero preoccupati di tutelare veramente il territorio e si fossero organizzati non solo per sparare liberamente alla fauna selvatica ma soprattutto per impostare una razionale difesa ambientale, quando negli anni seguenti, l’opinione pubblica, le associazioni ambientaliste e i vari legislatori avrebbero proposto ridimensionamenti della caccia e avrebbero istituito nuove aree protette, i cacciatori, a quel punto, potevano orgogliosamente sbandierare i risultati da loro ottenuti per la salvaguardia ambientale, almeno per quei settori che gli competevano, ed opporsi al ridimensionamento della loro attività. Invece, all’atto della resa dei conti, anche se parziale, si sono trovati con il deserto alle spalle (uccisione dei rapaci, quasi estinzione del lupo e dell’orso, ecc.). Un vero “ambientalista” non lo è solo quando gli viene imposto dalla legge. I cacciatori italiani hanno perso l’occasione propizia.

L’uomo contemporaneo, nella maggior parte delle accezioni, è completamente estraneo alla dialettica della natura. E’ dunque essenziale, a questo punto, considerare che i pochi luoghi naturali rimasti ancora tali, debbano essere totalmente preservati o per lo meno controllati al massimo, dagli “interventi” umani di qualsiasi natura: turismo, ricreazione, sviluppo, caccia, ecc. Non è possibile opporsi a coloro che sono antagonisti dell’attività venatoria affermando, per difendere tale attività, che la distruzione del mondo è per altra causa. Qui si discute della negatività dell’uomo verso la natura in tutte le sue forme e una di queste è la caccia insensata e soprattutto non controllata nella realtà; ma il problema è controverso.

In materia di politica generale, Player, esponente mondiale del movimento wilderness asserisce che nessun tipo di caccia dovrebbe essere permessa nel “cuore” delle Aree Wilderness; per contro, Aldo Leopold, praticamente il fondatore dello stesso movimento, era un cacciatore convinto e “ideò” le Aree Wilderness anche per fini venatori. Occorre tuttavia ricordare che il Leopold si “muoveva” nei primi decenni del secolo negli immensi territori statunitensi, dove ancora esistevano estensioni rilevanti di natura selvaggia e dove l’impatto dell’attività venatoria veniva adeguatamente filtrato dall’ampio “respiro” della natura e dalla bassa densità dei cacciatori stessi. In aggiunta, pur riconoscendo al Leopold tutti i meriti per aver diffuso, tra i primi, una nuova e rivoluzionaria etica ambientale e per aver contribuito alla salvaguardia di molti spazi wilderness, si ricorda che egli aveva, per oltre i due terzi della sua esistenza, una visione della natura fortemente antropocentrica e molto meno “illuminata” visto che considerava necessario “gestire la fauna selvatica” ponendo in prima linea una lotta spietata verso i grandi predatori (p.e. contro il lupo). Non dimentichiamo infine, riferendoci però non solo al Nordamerica, le numerose estinzioni di specie animali dovute al disinvolto uso delle canne tuonanti! Lo stesso Leopold ebbe a dire (1949-1997): “Date un’occhiata, innanzi tutto, a una palude popolata di anatre selvatiche; un cordone di automobili parcheggiate la circonda; appostato in ogni punto delle sue sponde coperte di giunchi si trova un ‘pilastro’ della società, il fucile automatico pronto, il grilletto che solletica un indice pronto a infrangere, se necessario, qualsiasi legge di Stato o di benessere pubblico per uccidere un’anatra. Il fatto che costui sia già supernutrito non placa in alcun modo la sua avidità”. Sicuramente Leopold avversava la caccia “tecnologica” ed era fautore di una attività venatoria “primaria” fatta di difficoltà, di luoghi selvaggi, di ricerca agnostica della preda, di avvicinamenti a piedi, di un solo ”colpo in canna”, di valore “culturale” e profondo della pratica e così via. Ma questi nobili principi sarebbero validi se tutti i cacciatori fossero sullo stesso “elevato” piano culturale ed etico, non certo nella pratica reale della massa; per di più, se anche tutti i cacciatori si comportassero con un fare pacato e primordiale, moltiplicati per il loro elevato numero ogni regola del buon senso verrebbe meno. Infine, ad onor del vero, anche il fucile automatico dovrebbe restare fuori da questa ricerca venatoria perché il cacciatore che vuole rivaleggiare pariteticamente con la preda dovrebbe farlo senza cane e certamente senza fucile! Legittimare la pratica venatoria che poi per “democrazia” deve essere accessibile teoricamente a tutti significa che essa non sarà mai in realtà attuata con rispetto, controllo e a basso impatto ambientale. Chi crede nel contrario sa perfettamente di essere in malafede. Tuttavia, per dovere di chiarezza, occorre ribadire che nel suo insieme il pensiero di Leopold “costituisce una pietra miliare nello sviluppo della posizione biocentrica” (Devall & Sessions, 1989) e che, come scrisse G. Sessions (in Roshi, 1989), “visse una drammatica conversione dalla mentalità di superficiale ecologia di ‘servizio’ e di gestione di risorse dell’uomo al di sopra della natura all’annunciare che gli esseri umani dovrebbero vedere se stessi realisticamente come ‘semplici membri’ della comunità biotica”. Tornando alla questione venatoria usiamo ancora le parole dello stesso Leopold (1949-1997) sul fare negativo di un certo tipo di caccia, che poi è un fare negativo della maggior parte della realtà venatoria “sportiva” mondiale: “ Eccolo seduto in una barca d’acciaio, con le sue anatre da richiamo sintetiche che galleggiano poco più avanti. Grazie al motore non ha dovuto faticare per raggiungere il suo nascondiglio. Al suo fianco ha del combustibile per riscaldarsi in caso di vento forte e parla agli stormi di passaggio con un richiamo industriale dal quale spera che escano suoni attraenti.... Bisogna sparare subito perché la palude pullula di cacciatori (tutti equipaggiati allo stesso modo), che potrebbero farlo per primi. Apre il fuoco da una sessantina di metri, perché il suo schioppo è tarato sull’infinito e la pubblicità dice che le cartucce ‘Super Zeta’ hanno una lunga gittata.... Questo cacciatore sta assorbendo un valore culturale?...... Dal nascondiglio a fianco un altro cacciatore apre il fuoco da sessantacinque metri, nel disperato tentativo di prendere qualcosa.... Dove è finita l’idea della ‘mano leggera’ e la tradizione di sparare una sola cartuccia?..... Io stesso uso arnesi fabbricati industrialmente, tuttavia c’è un punto al di là del quale gli accessori acquistati al negozio distruggono il valore culturale della caccia...... ogni tipo di svago nell’ambiente naturale è essenzialmente primitivo, atavico, e ha valore solo per contrasto; una meccanizzazione eccessiva distrugge i contrasti, trasferendo la fabbrica nei boschi o nelle paludi”.

I buoni e salubri principi culturali della caccia sono ottimi, ma la realtà sarà in effetti corrispondente a quella cultura? Le parole di Leopold confermano questo dubbio, anzi danno la certezza, purtroppo, che la caccia attuale viene praticata solo in forma degenerante, come lo è d’altronde il turismo di massa, l’industralizzazione eccessiva, l’agricoltura chimica, la pesca dissennata e così via. Aldo Leopold forse, fu una bellissima eccezione.

Scrive Dalla Casa (1996): “Nelle civiltà di tipo occidentale esiste il fenomeno ‘uccidere per divertimento’: spesso l’uccisione è addirittura considerata un ‘merito’ da parte del cacciatore. Il fenomeno, gravemente presente, interessa comunque una minoranza, anche se piuttosto invadente; l’unico modo per limitarlo consiste per ora in rigorosi divieti.....

In molte culture animiste la cattura della preda era vista come il dono di un dio, che si può interpretare come ‘il genio della specie’: la cattura era lecita soltanto se era seguita dall’utilizzazione completa di tutte le parti del dono, a scopo prevalentemente alimentare e comunque di sopravvivenza..... L’eventuale uccisione fatta ‘per divertimento’ o ‘senza scopo’ era un’offesa al dio: quindi veniva vissuta come un delitto......

Le culture animiste provocavano ben raramente l’estinzione di specie o la distruzione di ecosistemi: per molti migliaia di anni i nativi d’America sono vissuti in simbiosi con milioni di bisonti e con tutte le altre specie in armonico e dinamico equilibrio; sono bastati due o tre secoli di civiltà europea per distruggere tutto.........

In genere le culture dell’Oriente consideravano gli altri esseri o in un ciclo di morti e rinascite (samsara) o comunque degni della massima benevolenza: tutti i viventi facevano parte di un equilibrio cosmico......

In sostanza, perché finisca veramente il fenomeno ‘caccia’, pur essendo assai utili anche i divieti, è indispensabile una nuova base etica e culturale....”.

Integra il discorso Hargrove (1990): “Molte tribù primitive avevano il costume di chiedere perdono e comprensione agli animali selvatici che uccidevano per cibarsene. Tuttavia questi costumi o tradizioni non sopravvissero nella civiltà occidentale, dove invece si sviluppò la tradizione di uccidere la natura per sport, cioè per il proprio piacere, non per ottenerne cibo. Il cacciatore, secondo questa tradizione, ricava piacere dall’uccisione di animali, senza alcuna sensazione di colpa”. Quanto finora detto vale ovviamente anche per la pesca sportiva. Scrisse con grande perspicacia J. Muir (1995): “.... Pure, gente di aspetto assai rispettabile, gente che pare perfino savia a guardarla, sta ad infilzare pezzi di vermi su pezzi di filo di ferro ricurvi allo scopo di catturare trote. Questa attività chiamano sport. Se i frequentatori di chiese si mettessero a pescare nel fonte battesimale per ammazzare il tempo durante le prediche noiose, il cosiddetto sport avrebbe una ragion d’essere; ma trastullarsi così dentro il tempio di Yosemite! Trovar piacere nell’agonia di creature che lottano per la vita.....”.

Ma non si commetta comunque il grave errore di utilizzare la caccia come specchietto per le allodole. Non si mascheri una presunta protezione di un territorio sbandierando il classico divieto di caccia, per poi progettare interventi “ecocompatibili” su quel territorio (turismo, centri visita, sentieri attrezzati, ecc.). Abbiamo espresso parere negativo sull’attività venatoria almeno nei Paese antropizzati e compromessi, ma lo abbiamo fatto al pari delle altre attività negative dell’uomo. Altrimenti, in un territorio selvaggio, paradossalmente, è meglio considerare l’attività venatoria, sia pur ristretta e indirettamente limitata a pochi, che lasciar lontano i fucili ma snaturare completamente quell’ambiente con altri dubbi interventi. Un gran numero di persone aborrisce la caccia come attività negativa, ma ignora totalmente (o finge di ignorare) il pesante impatto del turismo e delle altre forme che turbano la wilderness di un posto. Abbiamo espresso parere negativo alla caccia perché nella realtà i praticanti di tale attività non sono degni di essa comportandosi in forma del tutto negativa, ma saremo i primi a difenderla se i cacciatori dimostreranno una vera missione nei confronti della wilderness dei luoghi e nei confronti di un’autoregolamentazione degna di tal nome (attività venatoria secondo i precetti di Aldo Leopold che, come abbiamo primo evidenziato, erano impostati su una caccia di tipo “culturale”, controllata, agnostica, atavica).

L’uomo contemporaneo attraverso le sue mille categorie di “necessità” (cacciatori, pescatori, sciatori, escursionisti, alpinisti, boscaioli, pastori, agricoltori, latifondisti, speculatori, ricercatori e “scienziati”, ecc.) accampa continuamente i diritti di poter far qualcosa, ognuno in forma esclusiva. Non è un caso poi che a farne le spese sia sempre l’ambiente. Ormai l’uomo è un elemento estraneo ai fenomeni della natura e per questo limitarlo è quanto mai opportuno e necessario. L’importante è non creare categorie di seria A con tutti i diritti e categorie di serie B senza diritti! E si ribadisce, non si faccia della caccia un semplice e gratuito capro espiatorio per coprire altre malefatte. Il problema è sempre nel suo insieme (caccia o non caccia che sia).

E’ comunque cosa estremamente difficile riscontrare tra gli “ambientalisti” e i cacciatori il concetto del valore in sé della natura. In entrambe le categorie vige, quasi sempre, l’egocentrismo.