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L'oro nero maledizione di Teheran. Come gli USA vono mettere in ginocchio l'Iran

di Farian Sabahi - 30/01/2007

 
L’Iran vanta il 10% delle riserve mondiali di petrolio ma deve importare benzina: ostacolando il programma nucleare civile gli Usa cercano di far saltare il regime

Non sarà un attacco aereo israeliano a mettere fine alla Repubblica islamica. E nemmeno le sanzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu potranno scalzare gli ayatollah. La storia dell’Iran insegna che queste azioni non fanno che unire l’opinione pubblica attorno al regime. Il tallone d'Achille dell'Iran è, paradossalmente, l'oro nero. Vanta il 10% delle riserve mondiali accertate, seconde soltanto a quelle dell'Arabia Saudita. Ma per Ahmadinejad il greggio si sta rivelando una maledizione: il prolungato embargo statunitense, l’economia centralizzata e l’ostilità degli ayatollah agli investimenti stranieri hanno impedito all'Iran di dotarsi della tecnologia per sfruttare i giacimenti e costruire raffinerie. Di conseguenza, la Repubblica islamica è costretta a importare il 40 per cento della benzina necessaria sul mercato interno. La debolezza del regime iraniano sta nel fatto che la benzina è importata ai prezzi in vigore sul mercato internazionale, ma è venduta sottocosto. Al distributore un litro di benzina costa l'equivalente di 8 centesimi di euro, una cifra irrisoria che causa un incremento annuo della domanda dell'11-12 per cento. Si tratta di sussidi, applicati dal sistema islamico di Welfare non solo sul carburante ma anche sulle utilities (elettricità, telefono, acqua, gas a uso domestico) e su molti generi alimentari.

Consumi interni in continua crescita

Ogni giorno, in Iran sono estratti 4,1 milioni di barili di petrolio. Di questi, 2,5 milioni sono esportati e il resto utilizzato internamente. È quindi ovvio che, a fronte di questi consumi rilevanti e in crescita del 6,4 per cento dal 1980, il governo di Ahmadinejad reclami l'esigenza del nucleare a scopi civili: obiettivo è evitare di bruciare petrolio per produrre elettricità. L'atomica, a fini militari, potrebbe essere un deterrente in una regione turbolenta. Ma Teheran non ha interesse ad attaccare lo Stato ebraico perché scatenerebbe su di sé l'arsenale israeliano e statunitense. E non solo. Sarebbe come schiacciare il bottone dell'autodistruzione.
Il nucleare civile è invece un'esigenza, anche tenendo conto delle enormi riserve di gas, pari al 15 per cento del pianeta. Proprio per risparmiare petrolio, per generare elettricità ogni anno l'Iran brucia una quantità di gas equivalente all'output di quattro reattori come quelli della centrale di Bushir. Gli ayatollah hanno una necessità immediata di fonti alternative di energia.

Una bomba a orologeria

Gli Stati Uniti lo sanno e il loro vero obiettivo è mettere in ginocchio il regime di Teheran, vulnerabile sul fronte energetico soprattutto nel momento in cui le esportazioni di petrolio dovessero diminuire. Ipotesi non campata per aria, giacché alcuni analisti ne stimano entro il 2011 un drastico calo e l'azzeramento nel 2014-2015.
Le esportazioni di energia sono però la principale fonte di reddito per il regime iraniano che nel 2004 ha ottenuto dal petrolio il 63 per cento dei propri introiti. L'azzeramento delle esportazioni manderebbe in tilt il governo islamico impedendo, in un sistema dove buona parte dell'economia è gestita dallo Stato, di pagare gli stipendi ai tantissimi dipendenti pubblici. E renderebbe impossibile vendere sottocosto la benzina. In assenza di una politica economica radicalmente diversa, il declino della mullacrazia è segnato. Ostacolando il programma nucleare civile dell'Iran, Washington è consapevole di innescare una bomba a orologeria per far saltare in aria il regime degli ayatollah. Perché il petrolio è, paradossalmente, in Iran come altrove, al tempo stesso ricchezza e maledizione.