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Il peggiore dei mondi possibili

di Massimo Fini - 15/11/2005

Fonte: lineaquotidiano.it


Nel maggio del 1973
feci il viaggio di
nozze con la mia
prima moglie in Marocco.
che era, allora, un Paese
stupendo, non solo per le
bellezze del paesaggio e delle
sue città (Marrakesh,
Meknes, Fes), per la sua
storia e la sua cultura, ma
perché coniugava il medioevo
arabo con alcune conquiste
della modernità,
soprattutto nei settori della
medicina e dell’educazione.
Mia moglie ebbe un incidente
vaginale piuttosto serio
che i medici magrebini
risolsero rapidamente e in
modo perfetto consentendoci
di proseguire il viaggio. A
mezzogiorno si vedevano
spuntare bambini e ragazzini
con la cartella anche in
pieno deserto e i giornali
erano pieni di dibattiti sulla
scuola, sui programmi, su
quale fosse la migliore scansione
degli orari per tenere
alto il livello di attenzione
dei giovani. Il Paese era
ordinato e tranquillo. Era
stato un capolavoro, a mio
avviso, del re Hassan II,
che era riuscito a guidare il
Marocco verso una moderata
modernizzazione senza
che perdesse le proprie
radici le proprie tradizioni,
il proprio modo di vivere,
la propria specificità.
La gente era molto ospitale,
dal re all’ultimo marocchino.
Noi potemmo visitare la
reggia estiva di Hassan II,
poco fuori Marrakesh, senza
alcuna formalità, semplicemente
presentandoci ai
cancelli e chiedendo di
entrare negli splendidi
giardini di aranceti e limoneti,
ingentiliti da dei
laghetti sullo sfondo di questo
paesaggio araldico sentivamo
il rumore del galoppo
della cavalleria berbera
che si allenava.
Sulla piazza Djma el Fnà di
Marrakesh la gente stendeva
i suoi tappeti, grandi o
minuscoli e, sullo sfondo
della Koutoubia illuminata
la sera dalla mezzaluna,
vendeva quel poco che aveva.
Erano poveri, ma poco contava
su quella piazza dove
tutti facevano la stessa vita
comunitaria e si divertivano
agli spettacoli di saltimbanchi,
fachiri e mangiafuoco
che non erano
segue dalla prima
per i turisti (che non c’erano,
tranne una piccola enclave
hippy).
Grazie all’estenuante capacità
di mia moglie di portare in lungo
i patteggiamenti finché non
ottiene il prezzo che vuole (agli
arabi, si sa, piace molto trattare)
facemmo amicizia con M’Berek,
il figlio di un commerciante
che aveva bottega nel mercato
al coperto, più ricco di quello
che si teneva sulla piazza.
M’Berek, ci invitò a pranzo a
casa sua perché conoscessimo la
sua famiglia. Abitavano una
casa spazio e luminosa, oltre ai
genitori e a M’Berek, che, con i
suoi 22 anni, era il più grande,
c’erano due fratelli più giovani
e il piccolo di tre anni, un bambino
graziosissimo con un casco
di riccioloni neri, (noi di bambini
come Alì ne abbiamo uccisi
32.195, in Iraq, nella prima
guerra del Golfo). Era una
famiglia molto unita e affettuosa.
Ma M’Berek si era messo in
testa di venire a lavorare in
Europa, in Francia per fare l’operaio
alla Renault. Invano gli
dissi che a me sembrava che la
sua felicità fosse lì, con la sua
famiglia, con i suoi fratelli, nel
suo mondo. Un anno dopo me lo
vidi capitare a casa, di passaggio
per la Francia. Lo ospitai
qualche giorno, poi partì per
Parigi.
I ragazzi che si rivoltano oggi
nelle banlieu parigine, sono i
figli di M’Berek, diventati francesi
a tutti gli effetti, che hanno
capito di che pasta sia fatto il
“sogno occidentale”. È una
rivolta apolitica, aideologica,
areligiosa che non ha radici
nemmeno nell’emarginazione e
nella miseria, perché le banlieu
non sono affatto miserabili, ma,
al contrario, ben ordinate, fornite
di tutti i servizi e collegate
col centro da una rete invidiabile
di metro. È una rivolta e
basta. Contro un modello di sviluppo
che chiede prezzi sempre
più alti, dal punto di vista esistenziale
e nervoso, senza dare
in cambio nulla, tantomeno
quell’armonia e quell’equilibrio
che M’Berek aveva nel pur
povero Marocco di trent’anni
fa. Ecco perché la furia dei
ragazzi magrebini si scatena
nelle scuole, sugli autobus, sui
servizi delle banlieu, cioè proprio
sui simboli del loro relativo
benessere che, evidentemente,
benessere non è.
La rivolta dei giovani magrebini
- che Renzo Foa sul Giornale
ha definito “nichilista” - è
preoccupante e, insieme, significativa
e molto interessante.
Perché potrebbe estendersi, prima
o poi, anche ai giovani
europei, delle periferie e non,
che, a differenza dei primi, non
hanno il ricordo, attraverso
racconto dei genitori di una
vita più povera, ma più semplice,
più equilibrata, più armonica,
più serena, più sensata
più umana, ma intuiscono
anch’essi che deve pur essere
esistito un mondo meno stressante
e insensato di quello che,
dalla Rivoluzione industriale
dall’Illuminismo in poi, ci viene
presentato come “il migliore dei
mondi possibili’.