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Karl Kerenij su Virgilio. Un'analisi che mette in luce l'importanza della religiosità

di Karl Kerenij - 05/02/2007

 


Publio Virgilio Marone (Publius Vergilius Maro), poeta romano, nacque il 15 ottobre del 70 a. C. ad Andes, presso Mantova. Era di umili origini, ma i genitori gli permisero di studiare retorica a Cremona, poi a Milano e a Roma. Dopo la battaglia di Filippi (42 a. C.), i territori del Cremonese e del Mantovano, tra i quali v´era anche la piccola proprietà terriera della famiglia di Virgilio, furono spartiti tra i veterani. Il poeta, in difficoltà, si rivolse a Ottaviano, che gli concesse la restituzione del possedimento. Le Bucoliche, scritte tra il 42 e il 39, lo resero famoso, ed egli trovò numerosi amici e benefattori, tra cui il Console Asinio Pollione, Cornelio Gallo e Mecenate, che lo aiutarono affinché potesse ritirarsi in un podere nei pressi di Napoli per dedicarsi all´otium creativo. Fra il 39 e il 29, Virgilio scrisse le Georgiche, un poema didascalico sull´agricoltura, dopo il 29, fino alla morte, lavorò all´Eneide: il poema epico, storico e mitologico, secondo il modello omerico, nel quale, riallacciandosi all´Iliade, Virgilio illustra il mutevole destino del troiano Enea, che diviene il progenitore della stirpe romana, e rappresenta con forza visionaria la missione storica di Roma, che egli vide realizzata nell´ordine augusteo del proprio tempo. Sebbene l´opera fosse stata portata a termine, Virgilio avrebbe voluto ancora rimaneggiarla. Sulla via del ritorno dal suo viaggio in Grecia, il poeta morì il 21 settembre del 19 a. C., a Brindisi. Augusto non rispettò la sua ultima volontà di farne distruggere il manoscritto, e ne affidò la pubblicazione a Vario Rufo. Così si è conservata un´opera della letteratura mondiale, che ha caratterizzato in maniera persistente l´immagine dell´era augustea, e ha influenzato la poesia occidentale come nessun altro testo della letteratura latina.

A cosa servono mai i poeti, se i loro testi non vengono letti? Solo a leggere testi su di loro? In tal caso essi son persi. I poeti antichi non hanno bisogno tanto di una introduzione, quanto, piuttosto, d´una guida: di un´istruzione per l´uso, che richiami l´attenzione su quanto di insostituibile ci è rimasto di loro. Cosa se ne fa il lettore della frase: «Virgilio, ci commuove come preghiera e poesia, esattamente come ciò che l´animo predisposto al misticismo percepisce in entrambe come comune ed identico, Catullo come passione e poesia... »?
Questa seconda affermazione è già più comprensibile rispetto alla prima. Per «animo predisposto al misticismo» alludevo all´abate Bremond, che scrisse una storia del sentimento religioso in Francia e pubblicò un libro sulla poesia pura. Non esiste altro poeta romano che si sia tanto avvicinato alla poesia pura quanto Virgilio, e ciò in virtù d´una religio nel senso originario, romano, del termine, di un´attenzione rispettosa che di per sé non poteva dare alla poesia alcun ricco contenuto, ma piuttosto conferirle un carattere che richiedesse l´attenzione, la religio anche da parte dei lettori. Attenzione a che cosa? All´uomo e alla sua lingua, la quale, in Virgilio, è inscindibilmente connessa con la sua poesia a tal punto che, quando parliamo di lui, i termini «opera» e «poesia» sono intercambiabili: «opera» può stare per «poesia» e viceversa. Soffermiamoci quindi sull´uomo, prima di apprezzarne la lirica.
Publio Virgilio Marone è il suo nome completo. I nomi autenticamente romani, come questo, testimoniano la ben riuscita fusione di elementi di varie popolazioni, che costituirono la romanità. La loro analisi non è indispensabile per conoscere meglio il personaggio che porta un determinato nome. A volte però accade altrimenti, e forse anche nel caso di Virgilio. Egli era un romano dell´Italia del Nord, come Catullo, poeta, questi, che apparteneva alla gens Valeria, una gloriosa genia, il cui capostipite era giunto a Roma dalla terra dei Sabini; Virgilio, però, la annoverava tra i casati etruschi. Le sue origini non erano molto illustri, egli apparteneva al popolo minuto, ma a giudicare dal nome, "Virgilius", e dal cognomen, "Maro", esse erano probabilmente etrusche.
"Vergilius" è nome noto anche in luoghi propriamente etruschi (Volterra, Sutri, Veio), "Maro" - maru - era originariamente un titolo dei funzionari dell´antica Etruria. Un nome etrusco lo portava anche Magio, il viator (il messo dei tribunali), la cui figlia Magia Polla sposò il padre di Virgilio, il quale aveva esercitato il mestiere di vasaio prima di impiegarsi presso il futuro suocero, ma che poi aveva saputo anche accrescere il proprio piccolo patrimonio con l´apicoltura e con l´acquisto di boschi.
Entrambe le famiglie, quella di Virgilio e quella di sua madre, cui la tradizione etrusca assegnava un ruolo centrale, abitavano in un villaggio popolato da Galli che s´erano insediati piuttosto tardi in Italia: il nome del villaggio, Andes, era gallico. Virgilio nacque ad Andes.
Mantova, il centro più vicino, venne ritenuto la sua vera città natale. Un esametro, tramandato come proverbio, diceva: Mantua Tuscorum trans Padum sola reliqua (Mantova è quanto resta degli Etruschi al di là del Po). Come altre città dell´Etruria, Mantova era sacra alle divinità degli Inferi e mantenne la sua denominazione etrusca - mantu.
Agli Etruschi succedettero altre due popolazioni di diverse origini. Virgilio, nell´Eneide, parla così di una Mantova «ricca d´avi» e di una stirpe (gens) tripartita, che comprendeva quattro popolazioni, evidenziando però che la forza della città era data dal sangue etrusco:

Mantova ricca d´avi: né tutti son d´una stirpe: /tre son le tue genti, quattro sotto ciascuna son popoli /tu capo dei popoli, il nerbo è di sangue tirreno.

Un quadro, in piccolo, dell´Italia unificata dai Romani. Il mantovano Virgilio, per il quale Roma era caput mundi, che però si trasferì a Napoli, e che possedeva anche una casa in Sicilia, non era tanto lontano dall´essere il primo poeta italiano! Sì, egli fu il fondatore proprio di quell´arte poetica dotata d´una intrinseca sonorità estremamente colta, che pertiene alla poesia italiana a quella a essa linguisticamente affine. Solo chi decide di immergersi nei contenuti musicali della lingua melodiosa di Virgilio, solo chi non si accontenta di alcuna traduzione, o di una semplice indicazione di contenuto, si impossesserà di ciò con cui Virgilio arricchì immediatamente il mondo - indirettamente lo arricchì attraverso la poesia italiana, e attraverso tutta la lirica romanza che trasse ispirazione dalla sua opera, grazie a quei poeti che avvertirono un´affinità spirituale con lui.

* * *
Esaminiamo adesso l´uomo. Un uomo dalla pelle scura, alto, con i tratti di un contadino e dalla salute cagionevole - così ci viene descritto.
Un mosaico a Tunisi ne fissa il ritratto con un´aura di estrema semplicità e di un´innegabile valentia, accanto alla musa della storiografia e della tragedia. Ci è dato anche sapere di che disturbi soffriva: dolori al ventre, mal di testa e di gola lo tormentavano spesso, e poteva anche accadere che rimettesse sangue. Giacché morì a soli cinquantuno anni, v´è da supporre che questo stato, come anche le sue note abitudini, caratterizzassero la sua vita già sui trent´anni. Mangiava e beveva molto poco ed era particolarmente sensibile all´amore dei bei fanciulli. Uno dei suoi amici e benefattori lo volle far sedurre da una nota etera romana; questa ammise che, nonostante la sua esperienza, era fallita nell´impresa. Alla svolta che intervenne poco prima dei trent´anni, non tanto nel carattere, quanto nella sua vita pubblica e privata, si riferisce probabilmente una breve poesia - un Catalepton - alla maniera di Catullo, come alcune di quelle tramandateci dall´Appendix Vergiliana, l´appendice all´opera del poeta.
Nel quinto Catalepton Virgilio si congeda dalla retorica e dai modi ampollosi degli oratori e degli insegnanti di retorica, alcuni dei quali vengono anche chiamati per nome.
Con un´espressione, che stranamente coincide con quella a noi nota da altre fonti, definisce queste persone un «vuoto cembalo della gioventù». Egli prende altresì congedo dal fanciullo amato e da tutti i bei giovani. Vuol veleggiare verso quel porto della beatitudine, indicatogli dalle massime del grande Sirone.
Scelse quell´epicureismo ascetico, per il quale il fine non era rappresentato dal piacere, ma dalla soppressione del dolore. Allontana da sé persino le dolci muse - egli riconobbe che esse erano dolci e permette loro di rivisitare le sue carte solo di rado:

Dirigiamo le nostre vele verso beati porti, /guidati dalle dotte massime del grande Sirone /liberando la vita da ogni pena. /Andate via di qui anche voi, o Muse, andate pure ora /o dolci Muse, /poiché riconosciamo il vero, /siete state dolci, /e tuttavia le mie carte /venite a visitare, ma con discrezione e raramente.
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La poesia avrebbe occupato i restanti ventuno anni della sua vita, e certamente non lasciò tempo ad alcun punto morto, come era accaduto quando il quasi trentenne Virgilio aveva voluto tener lontana dalle sue carte, oltre alla retorica, possibilmente anche la stessa poesia. Non s´ebbe una svolta definitiva verso la filosofia - quando Virgilio, così pare, dopo la morte di Sirone, si trasferì nel podere di quest´ultimo - ma un lampo di genio deve aver illuminato il poeta. Così, improvvisamente egli fece ciò che sino ad allora non aveva fatto, con un atto creativo, che segnò l´inizio dell´arte poetica virgiliana e di quella ispirata a Virgilio: una creazione poetica contraddistinta da una perfetta musicalità linguistica e soprattutto da quella musicalità linguistica che, da quest´esatto momento in poi, sarebbe stata coltivata come la vera poesia.
Virgilio manifestò metaforicamente quel che sino ad allora era stato per lui il poetare - e certamente di rado egli aveva esercitato quest´arte in maniera personale, poiché non aveva ancora trovato una sua propria forma espressiva - , lo manifestò in maniera istintiva attraverso quelle chartae che le Muse avevano il permesso di visitare di quando in quando. I testi dell´Appendix Vergiliana - a parte i brevi componimenti secondo la maniera catulliana - ammesso che realmente ve ne siano di Virgilio, o non si tratti piuttosto di esperimenti e imitazioni di anonimo: tutti erano rigorosamente vergati su chartae, frutto dell´erudizione e non del suono che sgorga, dominato dal poeta, che però nel contempo canta se stesso, è co-autore.
L´esordio dell´idillio che inaugura le Bucoliche, la raccolta di poesie pastorali, che nacque probabilmente dopo una «buona» nuova ricevuta «da casa», può essere caratterizzato nel modo seguente - ma non perché si voglia, con tale caratterizzazione, cogliere un aspetto accessorio della vera poesia di Virgilio! Poiché la poesia è quella che Virgilio trovò improvvisamente per sé e che creò per la sua gloria futura:

«I versi iniziali formano una strofa dai lineamenti purissimi e semplici. Nel loro equilibrio armonioso sono un esempio dell´arte classica del comporre. La melodia delle parole iniziali deriva dall´alternanza di vocali chiare e scure»:

Tityre, tu patulae recubans...

«Nella successione delle vocali avvertiamo le modulazioni della fistola. La lingua latina raggiunge una dolcezza, un´armonia musicale, una pienezza sensuale, come mai era accaduto prima di allora».
I cinque versi vanno letti ad alta voce - come tutto Virgilio:

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui Musam meditaris avena: nos patriae finis et dulcia linquimus arva, nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra formosam resonare doces Amaryllida silvas.

Titiro, tu disteso all´ombra di un faggio frondoso /provi una canzone silvestre sul semplice flauto; /noi lasciamo le terre della patria e le soavi campagne, /noi fuggiamo dalla patria; tu, Titiro, all´ombra tranquillo /insegni alle selve a far risuonare la bella Amarilli.

Era, questa, una creazione che attingeva alla musicalità della lingua e soprattutto era espressione di tale sonorità - una creazione di versi intraducibili! La lingua come luogo della rappresentazione del mondo attraverso il suono e null´altro non fu Virgilio a inventarla per primo, egli la trovò, grazie alla sua erudizione, nella letteratura greca, presso il siracusano Teocrito. Prima del verso:

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi

c´era il verso con cui comincia il primo idillio di Teocrito:

Had ti to psith risma kai ha pit s aipole tena -
Dolce è, capraio, il sussurro di questo pino che canta...

Fu così che risuonò la lingua musicale che tanto catturò Virgilio.
La ripetizione di hadü («dolce» nel dialetto dorico) nei primi versi dell´idillio non crea soltanto una nuova tonalità ma, più in generale, anche nuove possibilità sonore che l´esametro deve a Teocrito. «Se davvero egli ha inventato un nuovo genere» - così almeno dicono i filologi - «esso dovette essere quello coltivato anche da Callimaco, la trasposizione dei vari generi poetici del primo ellenismo nella forma epico-recitativa».
E con ciò si è detto ancora troppo poco. Poiché l´originaria melodia epico-recitativa dell´esametro, che era plastica e drammatica, pur essendo originariamente cantata, subì poi una trasformazione inglobando i suoni della lirica, compresi quelli dei canti pastorali, nello strumento sensuale della musicalità della parola, che cantava di per sé, senza accompagnamenti e senza passare dal recitativo al canto puro.
Grazie a Teocrito, Virgilio trovò il proprio strumento espressivo, non solo per le Bucoliche, ma per tutta la sua poesia. Tale espressione poetica era stata per lui un´inquietante e assillante possibilità fino al suo ventottesimo anno di vita, ma poi, in virtù della scoperta d´un equivalente latino del modello teocriteo, essa poté finalmente trovare piena realizzazione. Perciò la lettura ad alta voce delle sue poesie era per Virgilio più importante che per altri poeti, ed egli soffriva molto quando i frequenti mal di gola gliela impedivano. La sua lettura era un´unica soave seduzione - pronuntiavit autem cum suavitate et lenociniis miris. Un suo rivale ebbe poi a dire che avrebbe rubato varie cose a Virgilio se avesse potuto ereditare anche la sua voce, la sua bocca e il suo talento di attore, poiché i versi che altrimenti parevano vuoti e muti, se letti da Virgilio, risuonavano. Le Bucoliche, che nella versione definitiva includevano dieci poesie scelte (Eclogae), ebbero un tale successo, che furono più volte recitate dai cantori a teatro.
Quando Virgilio ebbe terminata l´opera successiva, le Georgiche, andò a curarsi la gola ad Atella, in Campania, dove dopo la battaglia di Anzio, Ottaviano accorse per ascoltarlo. In quattro giorni furono letti i quattro libri delle Georgiche. Quando la voce di Virgilio si affievoliva, era Mecenate a continuare la lettura.
La poesia pastorale come la più pura poesia in onore del Tempo che conduce il cantore insito nel pastore (e il più semplice degli esseri umani rappresentato dal poeta - il «pastore») in un mondo di suoni, un mondo opposto alla triste realtà, cui pure si accenna: queste sono le Bucoliche di Virgilio. Tutto ciò ha un che di operistico e il poeta stesso, verrebbe da dire, giustamente, viene a configurarsi come una sorta di primadonna, se non vi fosse anche l´elemento intimamente legato alla «preghiera» e se il gioco non fosse elevato alle alte sfere della sacra serietà. La religiosità di Virgilio in ciò - e in tutto - è l´aspetto che meno è stato compreso dai posteri. Le parole di ringraziamento di Titiro nella prima Ecloga: «... deus nobis haec otia fecit, namque erit ille mjhi semper deus (un dio ci ha concesso questa quiete, infatti egli sarà per me sempre un dio)» derivano come semplice conclusione contadina da quella religiosità umana, greca e certo anche romana, che, tradotta in latino, probabilmente dall´opera di Menandro, si manifesta con queste parole: «deus est homini invare hominem (dio è per l´uomo aiutare l´uomo)». Fu un evento divino che aiutò Virgilio a conservare il suo bene, ma vi fu anche chi concretamente lo scatenò: perché non si sarebbe dovuto trasferire a costui la divinità e il culto?