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Non sempre ci sono i buoni e i cattivi

di Cristina Piccino - 14/02/2007

 
I due film li avrei fatti anche senza la guerra in Iraq ma quanto stiamo vivendo oggi in America mi ha dato una ragione in più

Non è ancora entrato e subito esplode l'applauso. Grazie, grazie per questo film ripetono in molti, l'evento più atteso della Berlinale, il film che nessuno vuole perdere a costo di fare lunghe code per avere un biglietto. La sala stampa è stracolma quasi un'ora prima dell'incontro, i fotografi impazziscono e fuori, nonostante la neve, aspettano in molti pazienti anche per vederlo un attimo. Clint Eastwood sorride, è uomo di fascino, i settantasette anni (è nato nel 1930) esibiti in tranquillità, elegante con la giacca scura, la camicia bianca e quegli occhi azzurri scintillanti che hanno incantato registi e generazioni di spettatori.
Letters from Iwo Jima ha ricevuto quattro candidature Oscar (film, regia, sceneggiatura, suono). Clint Eastwood però non sembra preoccuparsi troppo delle statuette. Non ora almeno, quello che conta adesso è il pubblico: «Il film è andato molto bene negli Stati uniti e in Giappone, lo considero un risultato più importante». A sentirlo parlare si intuisce subito che questo progetto, due film e due punti di vista, era nella sua testa da tempo. Molto conta la passione antica, cresciuta coi film divorati da ragazzo, per il Giappone, l'incontro col libro di Kuribayashi, e più in generale la voglia di mettersi alla prova, di non ripetere mai se stesso. «Letters from Iwo Jima e Flags of Our Fathers ci offrono un'immagine piuttosto completa di quella battaglia. Li ho pensati come un prisma che è costituito da molte facce nelle quali ciascuno trova spazio per la sua esperienza. È l'esatto contrario dei film di guerra con cui sono cresciuto, popolati di buoni o cattivi. Ma la vita non è questo e neppure la guerra».

Quanto entra nei due film la situazione politica in America?

Li avrei fatti comunque, anche senza la guerra in Iraq. Ma certo mentre giri un film è molto difficile evitare i paragoni con quanto accade intorno a te, con la realtà del tuo paese. E quanto stiamo vivendo oggi in America mi ha dato una ragione in più per farli. Non considero Flags ... e Letters ... due film di guerra ma due film sulla condizione dell'uomo nella guerra. Non è la stessa cosa.

Cosa l'ha spinta a centrare il film sulla figura del generale Kuribayashi?

Mentre andavo avanti nella lavorazione di Flags of Our Fathers, ero sempre più incuriosito dalla tattica di difesa messa in atto dai giapponesi sull'isola. L'esercito americano non sapeva quanto avrebbero potuto resistere al loro attacco, erano bombardamenti molto violenti e su grande scala. L'idea dei tunnel che Kuribayashi fa scavare ai suoi uomini per difendersi mi aveva colpito. Era qualcosa di diverso da tutte le tattiche usate dall'esercito giapponese che rispondeva agli attacchi dalla spiaggia, con l'artiglieria.
I tunnel gli hanno permesso di non soccombere subito mentre gli altri comandanti pensavano che fosse una follia. Per saperne di più, ho letto molti libri giapponesi sull'argomento, finché non ho trovato Picture Letters from Commander in Chief di Tadamichi Kuribayashi, curato da Tsukuyo Yoshida. Erano le lettere che il generale scriveva alla moglie, alla figlia e al figlio. Molte erano state inviate dagli Stati uniti, all'epoca in cui viveva lì, tra la fine degli anni Venti e l'inizio dei Trenta. Era una persona speciale, pieno di immaginazione, sensibile, attento al mondo. Le sue parole offrono molte similitudini tra i militari americani e giapponesi sull'isola. Non tutti tra i giapponesi volevano andare in guerra, molti erano costretti e senza prospettiva di ritorno. È una cosa impensabile in America ... Tanta gente che va in guerra pensa «d'accordo, è pericoloso, potrei essere ucciso ma posso anche sperare di farcela». Per i giovani giapponesi no, la loro sola possibilità era quella di essere eroi da morti. È molto difficile per me capire questa mentalità, ma ho provato a farlo leggendo, studiando, cercando il più possibile di entrare in queste storie.

«Letters from Iwo Jima» è girato in giapponese. Ha complicato le cose o è stato d'aiuto nel suo avvicinarsi a una cultura e a una Storia diverse?

Ho cercato di mettermi al posto di persone differenti, la mia esperienza come attore è stata fondamentale, per anni ho dovuto confrontarmi con personaggi che non erano come me... Poi c'era la curiosità rispetto al cosiddetto nemico. Mi sembrava interessante usare una figura lontana dal binomio buoni/cattivi utile solo alla propaganda. Kuribayashi conosce l'America, ne è affascinato come altri che sono insieme a lui, a cominciare dal barone Nishi.
Come regista, inoltre, era una sfida unica, girare in una lingua che non è la mia. Non credo che sia un ostacolo, specie se hai la fortuna di lavorare con attori magnifici come i protagonisti del film. Sono stato in Giappone, mi sono documentato, è un mondo che mi ha sempre attirato. Inoltre, mi è capitato spesso di lavorare insieme a persone di lingua diversa, ho fatto molti film italiani... Penso che si capisca subito quando le cose funzionano, è una questione di intuito.

Ha tenuto conto del cinema giapponese classico?

Ho visto molti film da giovane di Kurosawa, I sette samurai o Rashomon, e di molti altri. C'era una piccola sala a Los Angeles, vicino a dove abitavo, che ne programmava spesso. Ho anche incontrato una volta Kurosawa a Cannes, è stato molto emozionante... Però non volevo fare un film «asiatico», non è la mia cultura, non avrebbe funzionato. Non so cosa mi spinga verso una storia o un'altra, è una questione di emozioni anche molto semplici, ci sono o non ci sono, è questo che fa la differenza in uno script.
Era così che sceglievo i miei film quando ero attore, e da regista è la stessa cosa. Deve piacermi l'idea di raccontare una certa storia, qui volevo farlo dal mio punto di vista, seguendo delle persone che si trovavano in guerra. Gli effetti sono gli stessi ovunque, il dolore, l'impoverimento, l'emozione di una madre o di una moglie che perdono il figlio o il marito...

Negli Stati uniti «Letters from Iwo Jima» è stato accolto molto bene. Temeva polemiche?

Penso che dopo più di sessant'anni il giudizio sulle proprie esperienze cambi. Ho mostrato il film a un gruppo di veterani della seconda guerra, ero molto preoccupato del loro giudizio e invece lo hanno amato, erano molto disponibili.

Ha scelto un tono di colore da bianco e nero quasi allucinato...

I miei film più recenti, Mystic River, Million Dollar Baby erano a colori ma con un procedimento di iniezione al nero che produce la sensazione di un cinema in bianco e nero. Sono un fan del bianco e nero e, in questo caso particolare, sentivo che il colore non avrebbe reso la giusta atmosfera della guerra, del luogo, del momento storico.