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A piedi per scelta, non per imposizione

di Massimo Fini - 26/02/2007


 
 
   

Ieri tutte le grandi e piccole città del Nord, con qualche eccezione in Veneto e in Friuli, sono state chiuse al traffico automobilistico.

Noi andiamo a lavorare in automobile per produrre automobili che la domenica, il giorno del nostro svago, non possiamo usare a causa dell'inquinamento che quella stessa produzione, insieme a tutte le altre, provoca.

È un paradosso-limite che però simboleggia bene una costante della società in cui viviamo.

Non è il meccanismo economico-produttivo ad essere al nostro servizio, ma noi al suo. Il lettore avrà sentito dire mille volte, da uomini politici, di destra e di sinistra, da economisti, da sindacalisti «bisogna stimolare i consumi per aiutare e aumentare la produzione». È una frase talmente ripetuta e consueta che non ci facciamo nemmeno più caso. Ma se la guardiamo bene, con distacco e a fondo, è una frase folle. Perché significa che noi produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre.

Di questa distorsione del sistema industriale si era resoconto Adam Smith che ne «La ricchezza delle Nazioni» scrive: «Il consumo è fine e scopo di ogni produzione e l'interesse del produttore dovrebbe essere considerato solo nella misura in cui esso può essere necessario a promuovere l'interesse del consumatore. Questa massima è cosi chiaramente evidente di per sé stessa che sarebbe assurdo cercare di spiegarla. Ma nel sistema mercantile l'interesse del Commercio è quasi costantemente sacrificato a quello del produttore: e tale sistema sembra considerare la produzione, è non il consumo, come il fine e lo scopo definitivo di ogni attività.

Questa inversione fra produzione e consumo, che era evidente già ai tempi di Adam Smith, che scrive agli albori della Rivoluzione industriale e che è al di sopra di ogni sospetto di ostilità nei confronti del libero mercato perché ne è, insieme a David Ricardo, il massimo teorizzatore, è oggi diventata parossistica.

E se al posto del termine «consumo» noi mettiamo «uomo» vediamo che è l'uomo che è stato messo al servizio di quel meccanismo produzione-consumo che lo doveva servire, dandoci chissà quale felicità, di cui è diventata invece lo schiavo. E se oggi, in tutti i ceti sociali, pur in mezzo a un teorico benessere, le persone sentono un profondo disagio esistenziale è perché l'uomo non è più il centro del sistema e di se stesso. Al centro ci sono alcune astrazioni, l'Economia, la Tecnologia, la Scienza, di cui l'uomo concreto, leale, vivo, è diventato una semplice variabile dipendente. Come scrive Karl Polanyi, un pensatore al livello di Adam Smith e di Karl Marx, ma volentieri ignorato perché non è né liberista né marxista, a metà del XVIII secolo, cioè con il «take off» industriale, si assiste a una sorta di rivoluzione copernicana: si passa da un'epoca in cui l'economia è subordinata alle esigenze della comunità umana, ad un'altra in cui le leggi economica equiparate a quelle della Natura, prendono il sopravvento e invertono il rapporto.

Se vogliamo salvarci dobbiamo tornare all'antico, riportare l'uomo al centro di se stesso relegando l'Economia e la Scienza tecnologicamente applicata al ruolo marginale che hanno sempre avuto. Allora potremo tornare a vivere liberamente le nostre domeniche. A piedi, ma perché l'avremo scelto e non perché ci viene imposto dall'idolatria della Produzione.