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Compagno Guido Cappelloni, menopeggista

di Miguel Martinez - 27/02/2007

 

Il "socialismo reale" è stato un fenomeno di immensa importanza.

Al di là della fuffa retorica e teologica che il socialismo reale stesso produceva, al di là delle sciocchezze paranoiche scritte nel mondo non comunista, credo di averne capito qualcosa soprattutto grazie al libro La caduta dell'impero del male, del geniale, acido, ironico matematico sovietico, Aleksandr Zinov'ev.

Un libro che da una parte demolisce le giustificazioni teoriche che il socialismo reale dava di se stesso, i suoi fantasmi di legittimazione, dall'altro ne descrive i lati positivi - ed erano molti - sotto un punto di vista completamente inatteso.

Ma tra le mille cose che conteneva il socialismo reale - una categoria in cui possiamo comprendere anche il PCI italiano - c'era anche un efficace meccanismo per liquidare il dissenso, basato sull'autoesaltazione paranoica. Siamo in guerra  e quindi dobbiamo essere molto disciplinati. Chi esce dalle righe è un traditore.

Va bene, queste cose le conoscete, o per esperienza personale, o perché la propaganda di destra non esita a tirarle fuori ogni volta che può. Ma quello che la propaganda di destra non dice, è che questo meccanismo per schiacciare il dissenso è sempre servito, nel PCI italiano, per coprire qualunque compromesso.

L'altro giorno, sul treno, il segretario regionale toscano del PdCI, tale Nino Frosini, ha dato un pugno in faccia al senatore Fernando Rossi. Non perché Rossi avesse fatto qualcosa di destra: che so, non ha votato per il taglio delle pensioni, o per costruire una base militare americana nel Colosseo. No.

Il senatore Rossi è colpevole di non aver voluto buttare bombe in testa agli afghani. E per questo, è diventato un traditore della sinistra.

Frosini è entrato per caso nello scompartimento di Rossi:

"I due, ex compagni di partito, si riconoscono. Pochi secondi di silenzio. Poi Frosini rimette il biglietto in tasca e dice ai suoi:

«Andiamo via, che io con questo qui non ci voglio stare». Rossi risponde: «Ma dai, vieni qui non fare il coglione. Che ti sei bevuto il cervello anche tu?».

I due si avvicinano, a portata di sberla. «Non mi rivolgere la parola pezzo di merda, ti dovresti vergognare, vuoi rimandare su Berlusconi?» "

Questo meccanismo viene spiegato molto bene da Michele Corsi (ma leggetevi tutto il suo articolo, è importante ):

"Uno degli elementi tipici che caratterizzano noi "base" della sinistra è la cultura del "meno peggio".

Questa cultura non riguarda affatto una supposta differenza tra "sinistra radicale" e "sinistra riformista", una divisione ormai piuttosto giornalistica: tutti ci siamo dentro. Non si tratta di un difetto genetico, ma di un residuato bellico dell'ideologia Pci precadutamuro. Era l'epoca in cui burocrati un po' tromboni soffocavano i borbottii delle sezioni con un tono di voce impostato, il petto in fuori come quello d'un tacchino, il tono condiscendente di chi si rivolge a una platea che non ha capito "il nodo" del problema, ed esclamava "ma compagni!!!", ma compagni: c'è il golpe che incombe, c'è il fascismo che rialza la testa, c'è la Cia che ci spia...

E ciò serviva in maniera sistematica a giustificare qualsiasi compromesso, storico e non.

Roba vecchia come il cucco, ma i dirigenti Ds, che del Pci han buttato via tutto, si sono ben guardati dal privarsi di questa preziosissima arma di controllo della base. Parte del giochetto è l'invenzione di una cultura avversaria, "da battere", ma inesistente, contro cui dirigere ogni strale: quelli che dicono "tanto peggio tanto meglio".

In realtà non esiste in tutta la storia della sinistra italiana, nemmeno quella estrema, nemmeno quella estremissima, questa concezione, ma viene agitata come spauracchio, e, di solito, con grande successo.

"Noi NON siamo QUELLI del tanto peggio tanto meglio".... e con questa frase magica, che allude a fantasmi tanto più temibili quanto meno identificabili, si giustifica ogni cedimento, mentre l'obnubilato uditorio è preda del terrore di essere accomunato a "quelli"."

Ecco che avviene un fenomeno che non possiamo assolutamente capire, se continuiamo a ragionare nei termini calcistici di destra e di sinistra: l'incorporazione dello stalinismo nel capitalismo totalitario.

Paradossalmente, si potrebbe quasi dire che il neostalinismo assuma, nei confronti dei movimenti sociali, un ruolo analogo a quello attribuito alle squadre fasciste degli anni Venti. Una sorta di "braccio armato della borghesia", come si diceva all'epoca.

So da me che questa è un'esagerazione, per mille motivi; ma a volte prospettive provocatorie come questa ci aiutano a mettere a fuoco le cose da un punto di vista a cui non avevamo pensato prima.

Mi vengono in mente, assieme a vari satrapi dell'Asia Centrale, Ferenc Gyurcsány, il primo ministro ungherese, ex-dirigente dell'Organizzazione dei giovani comunisti ungheresi, diventato imprenditore ricchissimo con il soprannome "il socialista in limousine", tornato in politica con la sinistra liberista e filoimperiale, mentre le piazze contestavano la sua guerra contro le pensioni e i diritti sociali.

O Bertinotti, mentre caccia dal suo partito uno dei capi dell'opposizione interna, Marco Ferrando, in base a un articolo uscito su Libero (sì, è andata proprio così).

O il compagno Guido Cappelloni. Questo signore è stato coinvolto in quella strana storia dei finanziamenti sovietici all'ex-PCI. Così, in un sito evidentemente anticomunista, leggiamo:

"Nel '76 il Kgb, in un incontro con Guido Cappelloni, si decidono altri sistemi pergarantire la sicurezza e la riservatezza del trasbordo [di soldi]. Il luogo convenuto non è più l'ambasciata, ma zone presumibilmente esterne alla residenza diplomatica. L'area viene bonificata congiuntamente da sovietici e italiani: due auto, una del Kgb e l'altra di Botteghe oscure fanno opera di "controsorveglianza". "

Ma oltre a questi presunti incontri con i sovietici, c'è dell'altro. Sentite questa.
 

IL COMPAGNO GUIDO CAPPELLONI

            "il Manifesto" 24.2.2007            Loris Campetti

"Vieni avanti", mi aveva detto in tono freddo ma rispettoso. E non aveva aggiunto "cretino", quel compagno grigiamente elegante. Erano tempi in cui il dissenso non era consentito, ma i modi restavano cortesi. Andai avanti, era una stanza molto grande in non ricordo quale piano del mitico palazzo del Pci, alle Botteghe oscure. Quel compagno mi spiego in tono severo che mi ero "posto oggettivamente fuori dal partito". Io non ero d'accordo.

In quella grigia giornata di fine inverno del 1970 ero ancora convinto che "quelli del Manifesto" avessero ragione su tutto tranne su una cosa: non dovevano farsi radiare, dovevano restare dentro a far battaglia politica. Io ci provai, per un anno ancora, finché la verità (che come e noto era depositata alle Botteghe oscure) non mi venne sbattuta in faccia: "Forse sei un compagno in buona fede - mi disse paternamente quel compagno - ma devi prendere atto che non sei uno del Pci, sei uno del Manifesto". E aggiunse:

"Tanti auguri".

Avevano ragione i compagni che erano stati espulsi un anno prima.

E aveva ragione quel dirigente delle Botteghe Oscure, che peraltro non parlava a titolo personale ma addirittura su mandato della CCC (il CC era il Comitato centrale, la CCC invece, la Commissione centrale di controllo). Erano i tempi del "centralismo democratico".

Ieri, parlando al telefono con quel reprobo di Franco Turigliatto, che ammetto di conoscere da tempo, ho scoperto che anche lui e stato convocato da un compagno che presiede il Collegio di garanzia (mutatis mutandis) del Partito della Rifondazione comunista, incaricato di spiegare all'affossatore delle speranze democratiche del popolo di sinistra che il suo operato l'ha reso "incompatibile con il Partito". In poche parole, Turigliatto "si e messo oggettivamente fuori dal Partito".

Il racconto potrebbe finire qui - una semplice analogia. Senonché, capita che il compagno che fece chiarezza nella mia mente (e pulizia nel Partito) 37 anni fa si chiamasse Guido Cappelloni. E capita che il compagno che ha convocato Franco Turigliatto si chiami, anch'egli, Guido Cappelloni. E' ovvio, non puo che essere un curioso caso di omonimia. Quel Cappelloni con cui ebbi a che fare io era nato a Macerata, come me ma molto prima, nel '25 e dunque poteva essermi padre.

Si era iscritto al Pci nel '44 e aveva gia alle spalle una gloriosa storia di guida delle proteste popolari, da quelle contro l'attentato a Togliatti alle lotte mezzadrili nelle Marche, al biennio rosso '68-'69. Quindi la carriera nel Partito, in quella componente del Partito che aveva come fari i compagni Pietro Secchia e Armando Cossutta. Quel Guido Cappelloni che ha convocato - non a Botteghe oscure, a via del Polichinico - Franco Turigliatto, invece, e nato a Macerata nel '25, nel '44 si iscrisse al Pci e "nel periodo che va dal '48 al '69 sostenne numerose proteste popolari...".

Si, è proprio lui. E' sempre lui. Una vita da custode dell'ortodossia, in nome del "centralismo democratico". Sono passati 37 anni, forse sono passati invano. Credo che sia un'ottima persona, il compagno Cappelloni, il problema non e lui.

Non so perché, improvvisamente mi viene in mente un vecchio libro di Arthur Koestler: "Buio a mezzogiorno", scritto a ridosso delle purghe staliniane."