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La super-merce che ti è entrata nei polmoni (recensione)

di Daniele Barbieri - 02/03/2007

E' uscito «Schiavi del supermercato»:

 

Un libro sulla grande distribuzione e sulle alternative concrete

 

 

 

«Lavora, consuma, crepa»: slogan dissacratore che ogni tanto risuona nei cortei. Se una volta c'era la denuncia per chi offendeva dio, patria e famiglia oggi il linciaggio mediatico è concorde per chi critica il consumo. Parlare di decrescita o di fermare lo sviluppo irrita anche una parte della sinistra che si vorrebbe radicale, come sa chi ha buone frequentazioni con Carta e dunque ricorda certe polemiche sul Latouche che sarebbe "di destra". In un filone eretico che comunque s'ingrossa ecco un libretto interessante: «Schiavi del supermercato» ovvero «La grande distribuzione organizzata in Italia e le alternative concrete» [96 pagine, 10 euro e 50] scritto a quattro mani da Monica Di Bari e Saverio Pipitone, co-edito dalla rivista «Il consapevole: stili di vita, modi di pensare» e da Arianna editrice.

 

Il tema non è certo nuovo ma sono due i motivi di interesse: la scelta di un linguaggio semplice e non ideologico; il mettere in primo piano le alternative. Come si capisce anche da questa chiacchierata con Di Bari e Pipitone.

 

 

E' un libro rivolto a chi finora non si è posto il problema di una critica del consumare?

 

 

«Sono notizie e ragionamenti che alcune persone conoscono già: a esempio chi opta per il consumo critico o per i prodotti del commercio equo. Però la maggior parte dei cittadini non si è finora posta dubbi. Per questo, d'accordo con l'editore, noi cerchiamo di rivolgerci a tutti coloro che iniziano a farsi qualche domanda e che magari vorrebbero ragionare con la loro testa, pur senza sapere bene da dove cominciare. Molti consumatori probabilmente non se la sentono di rinunciare alla grande distribuzione eppure sono già interessati a fare alcuni acquisti con i Gas [Gruppi d'acquisto solidali], a recuperare o valorizzare i mercatini rionali, magari a entrare in un circuito di baratto».

 

 

Nell'introduzione raccontate lo ShopVille a Casalecchio di Reno, cattedrale del consumo. Perchè?

 

 

«I vecchi ipermercati si trasformano in distretti dove si trova tutto: persino film, palestra [che allo ShopVille è frequentatissima], librerie, spazi giochi. Un tempo Casalecchio di Reno era una zona pre-collinare alle porte di Bologna; oggi di fianco a Shopville sorge un quartiere residenziale: abitare a due passi da un centro o distretto commerciale è considerato un vantaggio, un elemento che migliora la qualità di vita. Invece costruire condomini lì di fianco significa creare spazi urbani anonimi dove il tempo libero è scandito dai consumi. Nel libro c'è una vignetta dove la rotonda del centro commerciale si trasforma in un "inevitabile centro-rondo": le frecce indicano una sola direzione, il consumo. Non finisce qui. Fra qualche anno diverrà un distretto, un'intera città di affari: non a caso ShopVille sorge a due passi da Ikea, Carrefour, Comet. Così è per le nuove Coop di Imola o a Bologna dove il nuovo centro commerciale Officine Minganti sta cambiando il volto della città, tra la Fiera e la Bolognina, dotando il quartiere di attrezzature sportive, negozi, uffici, luoghi per l'incontro, l'aggregazione e la cultura. E a Castel san Pietro - sempre nel bolognese - spicca un grande "outlet" di abbigliamento, destinato anch'esso a espandersi. L'obiettivo non è favorire i tuoi acquisti ma invogliarti a passare molte ore o intere giornate lì dentro».

 

 

Questo è il futuro prossimo?

 

 

«E' già il presente in molti luoghi.Vicino a Vienna c'è un enorme distretto, circondato da cinta di insegne come fosse una città. In Slovacchia dove le scritte invitavano allo stakanovismo ora esistono giganteschi cartelloni che indirizzano a queste cittadelle del consumo. Accade così in tutto il mondo, salvo un paio di Paesi che provano a resistere. La statunitense Wal Mart, che sta per sbarcare in Italia, ha munito il suo impero di un proprio sistema bancario: del resto anche Coop in piccolo lo fa con sportelli che assicurano prestiti e altre operazioni. Sinora la distribuzione alimentare in Italia è dominata da 5 giganti - due ancora nelle mani di imprenditori italiani - con la Coop al primo posto. Le liberalizzazioni del ministro Bersani [possibilità per gli iper-mercati di vendere i farmaci, la benzina, ecc] favoriranno ulteriormente queste tendenze. Si dice che ciò aiuta i consumatori, ed è tutto da dimostrare, ma è ovvio che dietro ci sono queste lobbies. La grande distribuzione organizzata è l'anello di congiunzione tra lo sfruttamento incondizionato delle risorse del pianeta e l'induzione al consumo, in nome della crescita soprattutto monetaria. Occorre diffondere e costruire questa consapevolezza fra i consumatori del Nord, ma anche tra i piccoli produttori di tutto il mondo, del Sud e del Nord, schiacciati dal sistema distributivo».

 

Voi parlate di un consumatore «ipnotizzato». Ci sono nuove tecniche di persuasione... o d'inganno?

 

 

«Sta succedendo di tutto. Un numero della rivista The ecologist ne ha parlato di recente ma è un terreno ancora poco indagato e in parte tabù. Alcune novità già sono passate: carrelli più grandi, rilevatori dei prezzi, labirinto degli sconti, premi e raccolte punti appositamente studiati per implementare l'acquisto e una pubblicità ingannevole che molto spesso costruisce l'immagine di aziende socialmente responsabili e impegnate in progetti umanitari. La schedatura dei tuoi acquisti consente di avere un identikit alla faccia di ogni privacy. Le radio frequenze [insomma il codice a barre e le sue varianti con micro-chip che contengono tutte le informazioni del prodotto, captate a distanza di chilometri] come le telecamere onnipresenti non servono solo a individuare i ladruncoli ma soprattutto a studiare meglio i comportamenti dei clienti... Di sicuro il futuro prossimo riserva grandi novità per le tecniche di controllo e fidelizzazione. Stavolta noi abbiamo solo studiato la parte emersa dell'iceberg, forse in un prossimo libro guarderemo cosa c'è sotto».

 

 

Il vostro libro ha il pregio di non fare solo denunce ma di offrire alternative: certo piccole e parziali ma concrete. Perché allora non nominare (salvo in un passaggio critico) il commercio equo?

 

 

«Ci interessava fare un discorso localista e invitare soprattutto a guardarsi intorno: consumare i cibi locali, riscoprire gli artigiani, far crescere la rete dei Gas ; sono modi pratici per aiutare noi stessi a uscire dall'imperativo del consumo forzato e della velocità senza limiti. Alla fine accenniamo a questioni più strategiche: è ovvio che la scelta di una "semplicità volontaria" riguarda gli individui mentre le ipotesi di una "decrescita" si rivolgono necessariamente alla collettività. Anche il commercio solidale ha un respiro necessariamente internazionale. Se raggiungiamo l'obiettivo di farci leggere da persone che finora non si sono mai avventurate in una "critica del consumo"... beh ci sembra che gli stimoli siano già molti. Per gli altri discorsi rimandiamo alla bibliografia e a 14 siti, compreso quello delle "pagine arcobaleno" dove si ragiona anche di alternative complessive».

 

 

Sottrarsi all'imperativo della velocità senza limite, dite voi. E l'intervistatore qui a smanettare. Che ne dite di questa contraddizione?

 

 

«E' vero, la tendenza è questa: le nostre dita ballano sempre l'hip-hop sulla tastiera, siamo sempre collegati e i cellulari ci rendono sempre disponibili. Dopo lo slow food che difende il nostro diritto non solo al buon cibo ma anche a ritmi umani forse bisognerà ragionare su un movimento di slow internet.»

 

 

Aspettando allora Di Bari e Pipitone a un approfondimento - e tutti noi a inventarci lo smanettamento "umanizzato" - resta da accennare a una piccola omissione nel libro che cela un problema da non sottovalutare. A pagina 83, in un discorso peraltro interessante sulla decrescita, si parte da Latouche per citare poi «Alain De Benoist, altro teorico francese». Viene omessa un'informazione importante ovvero che De Benoist è un esponente di primo piano della Nuova Destra. Una dimenticanza tanto più sospetta in quanto Arianna ha già pubblicato un libro di De Benoist. Non è un anatema: Mondadori o Rizzoli pubblicano volumi nazistoidi e altri di segno opposto. Ma sembra opportuno, in un libro divulgativo, almeno accennare a dove si collocano i personaggi che vengono citati. C'è qualche tratto in comune fra Latouche e De Benoist nella critica ma ci sono enormi differenze nelle vie d'uscita delineate. Che persone di destra e di sinistra a volte si ritrovino concordi nel criticare la globalizzazione capitalista non è uno scandalo [né una novità] ma dimenticare che gli esiti di questa critica sono assai diversi è sbagliato. La riscoperta delle storie e tradizioni locali, tanto per fare un solo esempio, può avere come approdo il presentarsi più forti a un dialogo con le altre culture e nel rigettare il pensiero unico. O invece può significare chiudersi in un forte, alzare muri materiali e mentali, disprezzando tutti quelli che ne stanno fuori: arrivando insomma ai deliri leghisti.