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Non è semplice orientarsi nella rete delle basi Usa in Italia

di Roberto Zavaglia - 03/03/2007

Più di 2.000 edifici di proprietà, con una superficie di oltre un milione di chilometri quadrati; 1.100 edifici in affitto per un totale di 780mila metri quadrati; 15.500 militari e 4.500 civili. Sono queste le cifre ufficiali della presenza militare statunitense in Italia, secondo un rapporto del Pentagono del 2.003. Non è semplice orientarsi nella rete delle basi Usa, anche perché una parte di queste installazioni militari è, contemporaneamente, sotto il comando degli Stati Uniti e della Nato. Il Comandante supremo alleato in Europa è comunque, per una legge non scritta, sempre un generale Usa nominato dalla Casa Bianca e quindi, all’occorrenza, le forze statunitensi dell’Alleanza Atlantica possano agire su esclusiva decisione di Washington, come è avvenuto per l’Iraq. In totale i siti con una presenza determinante di forze statunitensi pare che siano circa centodieci. C’è comunque un margine di incertezza che illustra il grado di disinformazione intorno a tale questioni. Vi sono basi di dimensioni ridotte, costituite da depositi di armi e munizioni, centri di telecomunicazioni e radar ed esistono pure postazioni saltuarie. La maggioranza di queste installazioni è conosciuta solo dalla popolazione che vive nei dintorni la quale, comunque, ignora le attività che vi si svolgono. Le basi più importanti sono quelle di Aviano, Camp Ederle a Vicenza, Ghedi, Camp Darby a Pisa, Napoli, Sigonella e La Maddalena, in Sardegna, che dovrebbe essere smantellata entro il 2.008.

  Ad Aviano, dove si pianificano le operazioni aeree in Medio Oriente e in Africa, ci sono bunker sotterranei che custodiscono un certo numero di bombe nucleari, anche se la cosa non è confermata ufficialmente. Il numero e la dislocazione degli ordigni atomici sono incerti. Alcuni sostengono che a Ghedi vi sarebbero delle bombe atomiche il cui uso, in caso di necessità, sarebbe consentito anche all’aeronautica militare italiana, in violazione del Trattato di non proliferazione nucleare. Napoli riveste una grande importanza poiché vi è stato trasferito, dalla precedente sede di Londra, il comando delle forze navali Usa in Europa. Nel 2.004 lo Stato italiano ha pagato 366 milioni di dollari per “le spese di stazionamento” delle forze armate Usa nel nostro Paese, cioè il 41% dei costi totali. L’accordo bilaterale del 1.995 stabilisce, addirittura, che l’Italia debba indennizzare gli statunitensi per le “migliorie al territorio”, qualora decidano di abbandonare una base. Prossimamente, vedremo quanto sarà salato il conto per La Maddalena.

  I compiti delle truppe Usa in Europa vennero regolati dapprima con un accordo generale, nel 1.951, tra gli Stati aderenti alla Nato e poi, per quanto riguarda il nostro Paese, da un trattato bilaterale, nel 1.954, e da un memorandum d’intesa nel 1.995. Mentre l’accordo generale della Nato fu discusso e approvato dal nostro Parlamento, gli altri due non vennero presentati alle Camere e rimasero segreti, anche se l’allora presidente del Consiglio D’Alema, dopo l’assoluzione negli Usa del pilota che aveva provocato la tragedia del Cermis, aveva dichiarato che avrebbe svelato le clausole del memorandum del 1.995 ai magistrati interessati al caso. Sta di fatto che la gran parte dei compiti, dei diritti e dei doveri dei militari Usa in Italia rimangono ignoti. Come ha sottolineato Sergio Romano, occorrerebbe, invece, capire se gli impegni assunti in un contesto storico completamente diverso sono, ancora oggi, funzionali agli interessi nazionali.

  Attualmente, gli Usa concepiscono il ruolo delle proprie truppe e dei propri armamenti europei soprattutto come forza di proiezione verso il Nord Africa e il Medio Oriente, a sostegno della “guerra infinita contro il terrorismo” e dell’ “esportazione della democrazia” proclamate da Washington. Per questo motivo il Pentagono sta progressivamente trasferendo una parte delle proprie basi dall’Europa centrale e settentrionale a quella meridionale e orientale. Il contestato allargamento della base di Vicenza si inserisce in questo passaggio. La 173° Brigata aviotrasportata di stanza a Camp Ederle è stata, infatti, trasformata in una “unità modulare”, vale a dire in squadre di combattimento di sei battaglioni, ai quali se ne aggiungeranno altri prossimamente. Quello di Vicenza è uno dei contingenti che maggiormente contribuisce alla rotazione delle truppe in Afghanistan e in Iraq. Perché è chiaro, anche se ampiamente sottaciuto, che gli armamenti e i soldati statunitensi di stanza in Italia partecipano alle tante guerre di Washington.

  L’Italia si trova, oggettivamente, a ricoprire il ruolo di retrovia dei fronti statunitensi e rischia quindi di pagarne le conseguenze anche in termini di ritorsioni. Ciò avviene senza che il nostro governo possa obiettare alcunché sulle decisioni dei comandi Usa i quali potrebbero, per porre un caso limite, far decollare dal nostro territorio aerei armati di bombe atomiche da sganciare sui propri nemici, senza nemmeno interpellarci. Si è, allora, pervicacemente antiamericani se si chiede di conoscere le clausole segrete della presenza militare Usa e di esercitare un maggiore controllo? Non sarebbe forse ora, anche in sede europea, di ridiscutere gli obblighi che avevamo assunto per difenderci da un nemico ormai scomparso, che adesso ci coinvolgono in avventure belliche contro la nostra volontà? Se si ragiona seriamente, non è possibile accettare il fatto che la lotta al terrorismo, da questione di polizia e di intelligence qual è, si trasformi in obbligo di ospitare armi nucleari che non sappiamo neanche quante siano e dove stiano. Occorrerebbe un soprassalto di dignità per elevarci al rango del piccolo ma fiero Ecuador che, recentemente, non ha rinnovato l’accordo, in scadenza nel 2.009, per l’unica base Usa presente nel Paese. Ma mentre a Quito il governo difende la sovranità nazionale, a Roma Prodi festeggia lo scampato pericolo con i follini e i senatori a vita.