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Quei bulli di genitori

di Massimo Gramellini - 04/03/2007

Quando portavo a casa un brutto voto, poteva succedere che mio padre mi rifilasse un ceffone. Era un genitore all'antica: quelli moderni i ceffoni li danno al professore. I veri bulli sono loro. Tendono agguati ai presidi, prendono a testate gli insegnanti, minacciano di morte l'arbitro che ha annullato un gol alla squadretta di periferia in cui milita il pupo. Non si comportano da padri e madri, ma da fratelli maggiori. Mossi dall'unica preoccupazione di difendere l'onore della famiglia, oltraggiato dai giudizi di un estraneo al quale non si riconosce più alcuna autorità. 

Il codice a cui si ispirano è composto da un unico articolo: mio figlio ha sempre ragione. Se va male a scuola, la colpa è dei professori che non ne sanno esaltare il talento. Se la ragazzina lo fa soffrire, la colpa è di quella poco di buono e dei suoi genitori, che l'hanno tirata su così male. Se prende una multa in motorino, la colpa è del vigile che non ha multato anche il motorino del suo amico. E se alla partita di basket siede mestamente in panchina, la colpa è dell'allenatore che lo discrimina, preferendogli uno molto più scarso. La tendenza a considerare la prole un prolungamento vittimista del proprio ego era già assai sviluppata in passato. Ciò che le impediva di trasformarsi in violenza era il rispetto sacro del proprio ruolo e di quelli altrui. Una mamma convocata a scuola per discutere le attitudini manesche della figliola mai si sarebbe sognata di prendere a botte la preside, come invece è successo qualche giorno fa. 

Non perché la preside avesse necessariamente ragione. Ma perché era la preside. E fare il genitore sovversivo veniva ancora considerata una contraddizione in termini, essendo il genitore l'archetipo di qualsiasi istituzione umana. Adesso si ragiona come nei clan e ogni critica ai figli e al modo di educarli viene vissuta come un'umiliazione da lavare col sangue. Non che ci si senta più responsabili di prima nei loro confronti. Ma non si è disposti a concedere ad altri il diritto di prendere una decisione che li faccia soffrire.