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Idi Amin Dada. L’ultimo re di Scozia (recensione)

di Stenio Solinas - 07/03/2007

Chi era Idi Amin Dada? Un

mostro, un pazzo, un tiranno

furbo, capriccioso e

crudele, un selvaggio in

uniforme, un frutto marcio

del colonialismo o l’unico

suo frutto possibile? L’ultimo

re di Scozia, il film grazie al quale

Forest Whitaker ha vinto l’Oscar come

miglior attore protagonista, non dà una

risposta univoca, perché in fondo le suggerisce

tutte, comprese le ultime due che

dovrebbero elidersi a vicenda. Rispetto al

romanzo omonimo di Giles Foden da cui è

tratto, la storia di una fascinazione, di una

dannazione nell’incontro fra un giovane

medico europeo e il pittoresco leader di un

Paese africano, la trasposizione cinematografica

pecca di eccessivo semplicismo nel

rendere quello che nelle intenzioni - ma

anche nei risultati letterari del suo autore -

era soprattutto un viaggio psicologico nel

cuore di tenebra del male e della sua seduzione.

E tuttavia, proprio grazie all’interpretazione

del dittatore ugandese fatta da Whitaker,

riesce nell’impresa di far capire come

l’umano e l’inumano, la saggezza e la

demenza, l’intelligenza e la stupidità siano

più intrecciati fra loro di quanto non si

voglia credere, più reali nel loro impasto delle

immagini agiografiche con cui tendiamo

a sostituirli.

In quell’«incontro razziale», del resto, sono

già insiti gli elementi che lo trasformeranno

in scontro. All’inizio degli anni Settanta il

giovane Nicolas Garrigan va in Africa come

si potrebbe andare a un safari. Lo affascinano

il colore, la natura, i contrasti, gli eccessi

e più che il fardello dell’uomo bianco di

kiplinghiana memoria c’è in lui l’idea non di

una superiorità da un lato, di una missione

civilizzatrice dall’altro, ma quella, più

immediata, dell’avventura pura e semplice,

del continente nero come antidoto alla noia

del Continente bianco, dove la vita è regolata

dalle convenzioni, dove esistono le buone

abitudini soffocanti, dove la carriera è un

dovere e la routine è la norma. Arriva giovane

in una terra antica, ma che sembra essere

sempre agli albori del mondo: i grandi imperi

coloniali sono tramontati e dagli anni Cinquanta

in poi, una dopo l’altra, le nazioni

africane acquistano un’indipendenza che è

anche un ingresso nella modernità: ci sono

enormi ricchezze naturali da sfruttare, e se il

potere politico non è più direttamente nelle

mani dei padroni di un tempo rimane forte la

convinzione che l’economia e la diplomazia

possano in qualche modo tenerlo a bada,

controllarlo, corromperlo.

Il dottor Garrigan è naturalmente un figlio

del proprio tempo: non ha pregiudizi razziali,

non sogna una neocolonizzazione e ha

quel generico filantropismo sociale grazie al

quale si deve aiutare chi ha bisogno, curare

chi soffre e la diversità non esiste, si è tutti

eguali, tutti abbiamo gli stessi diritti. E‚

insomma, il prototipo di un certo pensiero

europeo che ha sostituito l’antico pregiudizio

di superiorità con un nuovo pregiudizio

secondo il quale, in fondo, sono meno corrotti,

più vicini alla verità, più naturali nel

senso nobile del termine, migliori, insomma,

questi popoli nuovi che giungono ora all’indipendenza

e vanno, casomai, protetti dal

cinismo, dall’avidità e dalla supponenza di

un Occidente tronfio e stanco.

E‚ anche per questo che Garrigan vede con

simpatia Idi Amin Dada. Lo trova sincero

nel suo desiderio di aiutare il proprio popolo,

gli piace il modo informale con cui tratta gli

affari e lo Stato, lo diverte e un po’ lo com-

muove quella sua componente infantile che

lo fa giocare con le uniformi così come con i

bambini, con lo sport così come con i modelli

in scala delle città. Dove lo trovi un leader

politico del Vecchio Continente che nel varare

un piano edilizio fa scegliere al proprio

medico il progetto che esteticamente più lo

convince, senza preoccuparsi di costi, mazzette,

malumori diplomatici?

Garrigan non si sente superiore, dunque. Ma

in quell’idea che in Africa tutto sia possibile,

nel senso buono del termine, tutto sia comprensibile,

tutto, in fondo, sia accettabile, c’è

la stessa logica, rovesciata di segno, del colonialista

del tempo che fu. «E‚ una fortuna

che non si comportino come noi» è l’assunto

dietro il quale si nasconde, mai reso esplicito,

l’atteggiamento che si ha nei confronti di

un figlio alle prime armi, di cui ci si rallegra

dei successi e si sorride degli entusiasmi, lo

si giudica, insomma, ancora una volta, dall’alto

della propria civiltà.

Ma chi è Idi Amin Dada? E‚ un bambino

sbandato che ha sempre vissuto fra accampamenti

militari e caserme dove l’impero inglese

ha celebrato la propria sovranità in terra

d’Africa. Ha fatto il cuoco nelle mense militari,

il soldato, il sottufficiale, ha partecipato

alle guerre contro i «ribelli neri» anti-inglesi,

è stato mandato ad addestrarsi nel Regno

Unito e in Israele, è stato promosso ufficiale.

E‚ un ragazzo sveglio, è un ragazzo coraggioso,

il frutto di un’educazione che, sembra,

ha dato i suoi frutti. «È uno dei nostri» pensano

i diplomatici britannici quando permettono

il colpo di Stato che nel 1972 rovescerà

il presidente Obote, colpevole di simpatie

comuniste, e insedierà lui al suo posto. E

infatti Amin è affascinato dalla Gran Bretagna,

dai simboli della sua storia, la monarchia,

le decorazioni, le conquiste, l’apparato

militare e civile. E‚ psicologicamente, lo

stesso fascino che un figlio può nutrire verso

il padre, ma che, crescendo, si trasforma da

desiderio di imitazione in emulazione, superamento,

volontà di prenderne il posto. Gli

inglesi non si accorgono che, lungi dal voler

rimanere «uno dei nostri», Amin vuole che

loro diventino «dei suoi».

Così, il rapporto fra il dottore e il generale,

da quella che era una divertita fascinazione

del più giovane, che comunque si sentiva più

maturo del suo fanciullesco datore di lavoro,

si trasforma in una forma di sottomissione

nei confronti di chi ha un’energia primordiale

in qualche modo eterna, impossibile da

imprigionare e quindi incontrollabile, in grado

di comprendere la psicologia europea e

però incomprensibile per quest’ultima,

signore e amico, padrone e tiranno. Garrigan

viene conquistato quanto più si illude di

essere lui a guidare il gioco: l’Africa come

safari mentale, come avventura intellettuale e

umana si trasforma in incubo, l’orrore al termine

della notte.

L’altro volto della naturalità, infatti, è la animalità,

il libero corso alle pulsioni primarie

altro non è che il soddisfacimento degli

appetiti primordiali, il non essere sofisticati

porta alla rozzezza, la semplicità è spesso

assenza di profondità, la schiettezza è parente

della volgarità. Nel romanzo Garrigan esce

peggio di quanto non avvenga nel film, ma in

un certo senso ha più giustificazioni. Il terrore,

l’idea di essere in balìa di qualcuno che è

più forte di te e che in qualche modo ti è

superiore proprio perché non arretra davanti

a nulla, può diventare masochistico amore

per il proprio carnefice, temuto, odiato,

eppure per questo ammirato.

Alla fine, Amin verrà sbalzato proprio dal

suo stesso eccesso, un caso di psicopatia non

più controllata che gli fa scambiare la realtà

con i suoi desideri, lo convince di quello che

non c’è, lo mette in rotta di collisione con

forze superiori alla sua e in grado di schiacciarlo.

Andato al potere con un colpo di Stato,

verrà rovesciato otto anni dopo dal combinato

disposto di un golpe interno e un’aggressione

esterna.

Il fatto che con il potere non ci rimetta anche

la vita, (morirà anni dopo in esilio in un Paese

arabo), dimostra che se non altro qualche

cosa della diplomatica arte di sopravvivenza

occidentale l’aveva capita, più forte in lui di

un tribalismo che da figlio della savana

avrebbe dovuto portarlo a morire alla testa

del suo popolo e non a fuggire davanti a

esso. E in questo, in fondo, fu il più bianco

dei dittatori neri.