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La società dei precari viene da lontano

di Carlo Gambescia - 08/03/2007

 La lezione della storia

 

Nell’Ottocento europeo le precarie condizioni in cui vivevano lavoratori privi di qualsiasi diritto, innescarono un ampio contro-movimento sociale, sindacale e politico. Che da difensivo si trasformò in “offensivo”. Fino a svilupparsi sistematicamente nel corso del Novecento, con la progressiva approvazione di leggi,  regolamenti  e misure economiche e sociali a favore dei lavoratori. Questo contro-movimento, sorto per opporsi al “movimento” egemonico  dell’economia capitalistica, raggiunse il suo culmine nella seconda metà del Novecento, con la nascita del welfare state  democratico.

A quel punto la “precarietà sociale” sembrò sconfitta per sempre. Ma solo in apparenza. Per quale ragione? 

 Perché alla fine del Novecento - e dunque veniamo ai nostri giorni - sull’onda  ideologica delle  rivoluzioni neoliberiste degli anni Ottanta, il capitalismo ha fatto marcia  indietro. E così ora stiamo  assistendo al  ritorno della precarietà sociale. Un ritorno che  consiste nella progressiva riduzione delle tutele e delle garanzie,  conquistate come risposta alla questione sociale ottocentesca. E la cosiddetta “flessibilità”, o precarietà lavorativa  è il modo in cui oggi si manifesta la nuova questione sociale. Per distinguerla dalla “vecchia”; quella ottocentesca, 

Per usare una metafora, si pensi ai moti alterni del livello marino che si ripetono nel tempo: alle grandi correnti di marea, che  avanzano e si ritirano ciclicamente. Ecco, anche le  società  sono soggette alle stesse oscillazioni.  In  particolare quella capitalistica, legata agli alti bassi dei ciclo economico. Ed è perciò condannata a essere solcata da movimenti economici e contro-movimenti sociali. E ogni volta, regolarmente, all’assalto della macchina economica non può non seguire la spontanea   reazione difensiva dei vari gruppi sociali, che rischiano di essere schiacciati.  E come  l’ampiezza, la velocità  e la dannosità delle correnti marine sono proporzionali all’estensione del bacino considerato e alla morfologia delle coste e delle difese naturali e artificiali, costruite dall’uomo, così la forza (e i danni sociali) del mercato capitalistico dipendono dalla capacità di una società di difendersi, attraverso un “contro-movimento” interno, in grado di salvaguardare la sua sostanza umana .

    

L’onda lunga  neoliberista 

 

Per alcuni osservatori, la  nascita della “precarizzazione” lavorativa e sociale  sarebbe frutto della transizione dal capitalismo fordista al capitalismo postfordista, Il primo incentrato sulla stabilità del posto di lavoro, i diritti sociali, e il keynesismo.  Il secondo, invece sulla precarietà del lavoro,  sulla costante riduzione dei diritti sociali e sul neoliberismo. 

Ora, a prescindere dalla  giustezza dell’ ipotesi, vanno fatte due considerazioni.   

Prima osservazione. La marea neoliberista degli anni Ottanta è figlia  del ciclo produttivo capitalista,  ritornato prepotentemente  a imporre ritmi produttivi accelerati e basati sulla delocalizzazione del capitale e della manodopera. Che poi ciò sia frutto di un cambiamento sistemico o della natura faustiana del capitalismo è questione che qui non può essere affrontata. Limitiamoci perciò a constatare che  l’onda lunga liberista ( e capitalista),  ha provocato e provoca tuttora turbolenze in  tutto il mondo.  Turbolenze che vanno sotto il nome di “globalizzazione” e “precarizzazione”.   

Seconda considerazione. Oggi  siamo solo all’inizio di un nuovo  processo storico-economico. Che cosa  sono ventisette anni di “liberismo”, a far tempo dall’insediamento della Thatcher, (1979-2006), a fronte di un processo di  “welfarizzazione” (1883-1978),  durato novantacinque anni? Visto che lo si può far risalire alle leggi tedesche sull’assicurazione obbligatoria  contro  le malattie e gli infortuni sul lavoro (1883-1884). Periodo, tuttavia preceduto, e intersecato, da una prima “globalizzazione”, provocata dall’ascesa dell’economia imperiale britannica (1815-1914).

Il contro-movimento sociale, perciò, potrebbe farsi attendere, e  a lungo… Certamente vi sarà, ma si dovrà attendere qualche decennio. Difficile dire quando.

 

Le differenze tra  la vecchia” 

e la nuova  precarietà

 

Per capire le differenze tra  vecchia e  nuova precarietà è necessario concentrarsi sul ruolo dello Stato. Se per quasi tre quarti del Novecento, lo  Stato ha legiferato e attuato politiche economiche in favore del lavoro, con lo stesso consenso del mondo imprenditoriale. Oggi, è questo stesso mondo, conquistato dall’idea del liberismo globalizzatore a costo zero,  che chiede allo Stato di tenersi fuori dalla vita economica.

Pertanto, ecco la prima differenza: la nuova precarietà, anche in termini di nuova questione sociale, non ha più, tra i suoi attori principali  lo Stato.

Ma c’è anche un’altra differenza. Se tra Otto e Novecento, esisteva una classe operaia, con le sue solidarietà sindacali e politiche, oggi, vi è solo un enorme ceto medio, segnato da propensioni individualistiche, e piuttosto erratico sul piano delle preferenze politiche. Se per quasi tutto il Novecento, il senso comune delle persone, ha privilegiato il gruppo, oggi  privilegia l’individuo. 

Ecco, allora, la seconda differenza: la nuova precarietà, colpisce soggetti sociali diffidenti verso qualsiasi solidarietà di gruppo.

Ora, come abbiamo già osservato, siamo solo all’inizio. di una lunga fase di precarizzazione. A grandi linee, e restringendo la nostra analisi all’Europa dei 25, la fascia del lavoro precarizzato attualmente oscilla  intorno al 14%. Questo significa, che per diversi milioni di  giovani lavoratori europei il futuro è piuttosto in certo (perché il lavoro precario riguarda quasi 1 su 2, tra i 15 e i 24 anni, e 1 su  3, tra i 25 e i 35 anni ). Inoltre, il contratto di lavoro a tempo determinato (nelle sue varie forme), si trasforma in contratto a tempo indeterminato, solo in un caso su due. E, attenzione, l’alta quota di lavoro precario, spiega il basso tasso (relativamente parlando) di disoccupazione, che ruota in media intorno al 4,5 %. Il che significa, che cresce l’occupazione precaria mentre tende a diminuire quella stabile. E visto che la tendenza sembra  consolidarsi nel tempo (nel 1997 il lavoro precario era al 12%,), il futuro potrebbe essere ancora più nebuloso.

Ma qual è la differenza fondamentale, tra i “precari” (chiamiamoli così), al centro della vecchia questione sociale otto-novecentesca e  i nuovi? Che i primi avevano  le istituzioni dello Stato dalla loro parte (anche se non sempre all’inizio…), i secondi no. E quel che è più grave, e che mentre i primi sentivano il bisogno di coalizzarsi, i secondi, oggi,  non hanno alcuna fiducia nelle istituzioni politiche e sindacali. Il tasso di sindacalizzazione e politicizzazione è praticamente crollato negli Ottanta-Novanta del Novecento: oggi,  2 giovani su 3 non sono iscritti a sindacati e partiti politici. Mentre l’età media degli iscritti al sindacato è piuttosto elevata (intorno ai cinquanta), probabilmente anche a causa dell’elevato numero di pensionati iscritti nelle liste del sindacato. 

Ma in genere,  e soprattutto nei  giovani, oggi si cerca una  via di salvezza individuale. L’elemento che deve far riflettere  sul piano sociologico, prima che economico, è che il clima di riflusso verso il privato, così celebrato anni Ottanta, ha prodotto figure sociali, cresciute nel privatismo consumistico televisivo. Le stesse figure che oggi  rifiutano la mediazione istituzionale. O se  vi si rivolgono, è per strumentalizzarla. 

Ma questa è solo una parte della storia. 

La precarizzazione  che riguarda il mercato del lavoro, finisce per  influisce anche sulla  qualità della vita. Dal momento che è in crescita  l’area del disagio sociale: il numero degli anziani soli (oltre i 65 anni), in affanno economico e bisognosi di cure, è in costante crescita: quasi 1 su 4.  Sale, principalmente nelle generazioni di mezzo (tra i 35 e i 55 anni), anche il numero degli indebitati con le banche (mutui, crediti al consumo, eccetera),  2 capifamiglia su 4. Di più:  1 unità familiare su 4 dichiara di non riuscire ad arrivare alla fine del mese. I salari femminili sono fermi, o addirittura scendono rispetto a quelli maschili. Con gravi conseguenze per le  famiglie monogenitoriali, con a capo una donna.  E questo spiega pure perché nelle famiglie a rischio basti poco (un infortunio sul lavoro, una malattia la perdita improvvisa del lavoro, eccetera) per scivolare di sotto della soglia di povertà. Nell’Europa dei 25,  il 20 %  circa della popolazione è al di sotto di questa soglia1 .    

 

La difficile  ricerca di soluzioni

 

Che fare davanti alla fuga dello Stato e al progressivo riflusso privatistico di un individuo, tra l’altro socialmente sofferente? Tenendo presente anche un fatto importante:  che le rigorose politiche pubbliche di bilancio (taglio delle pensioni e dei servizi sociali) renderanno di anno in anno la situazione sempre più difficile .

Una prima soluzione potrebbe essere quella di valorizzare le solidarietà intermedie, non statali o semipubbliche. Ma quali? Alcuni osservatori pensano al volontariato, che in Italia proviene largamente dal mondo cattolico (una associazione su due). Ma queste associazioni - visto che la Chiesa non naviga nell’oro – dove potrebbero trovare le risorse economiche necessarie? Nella carità dei privati (l’8 per mille…). Ma una scelta del genere non rappresenta forse un ulteriore  passo indietro rispetto, come si legge qualche volta,  al “Secolo del Welfare”? Se ad esempio, l’anziano non autosufficiente ha un diritto sociale all’assistenza medica gratuita, perché farlo dipendere, dall’altrui  - anche se lodevole -  buona volontà? Perché trasformare un diritto pubblico una facoltà privata?      

Una seconda strada potrebbe essere quella di creare ex novo, o valorizzare, strutture sociali regionali, comunali, provinciali, in grado di far sentire all’ individuo sempre più isolato  il calore della comunità. Ma  come superare i burocratismi  dei routinier dell’assistenza sociale?  E come finanziare questi enti?

Un terzo percorso potrebbe essere quello di valorizzare il ruolo delle famiglie, finanziando, la fornitura di servizi (ad esempio nel campo dell’assistenza sociale a bambini e anziani ), svolti dagli stessi familiari. Ma poi come finanziare  i necessari controlli “di qualità”  sulle attività svolte dalle famiglie?

Resta infine il problema della precarizzazione del lavoro. Che andrebbe risolto creando reti previdenziali ad hoc che  finalmente possano garantire, tra un lavoro e l’altro, la continuità contributiva  e assistenziale. Ma anche rilanciando una politica di grandi opere pubbliche e sociali, capace di creare occupazione.  Tuttavia, dove prendere le risorse economiche?

Per non parlare infine della possibilità dell’introduzione di un reddito di cittadinanza, non legato allo svolgimento di un lavoro, ma al diritto all’esistenza in quanto cittadini europei (perché no?). Misura che, se approvata,  avrebbe un valore epocale, diremmo rivoluzionario, per l’ Unione. Ma  su quali basi economiche? E diciamola tutta, anche politiche?

La nostra insistenza sulle forme di finanziamento economico ha una sua importanza. Perché permette di individuare la differenza decisiva tra  vecchia e nuova questione sociale.  

La “precarizzazione otto-novecenetsca venne affrontata senza imporre alcun vincolo di bilancio. Si pensi al ruolo fondamentale svolto dalle politiche keynesiane nella costruzione del welfare state. 

La nuova, nasce perciò sotto la cattiva stella delle rigide politiche di bilancio. Autentiche politiche delle lesina che impediscono, qualsiasi forma di finanziamento dei servizi sociali e, cosa più importante, di sostegno allo sviluppo economico.

Non va tuttavia negato un fatto: ai tempi di Keynes, ma anche negli anni Cinquanta del Novecento, la pressione fiscale era meno della metà di quella di oggi. Perciò ammesso che  si possa ritornare a Keynes, come convincere le persone ad accettare una pressione fiscale probabilmente ancora più alta? E, soprattutto, in una società dove l’ immoralità privata prevale sistematicamente sulla morale pubblica?  Dove corruzione e scandali politici sono all’ordine del giorno? E dove conta solo la logica individualistica  del denaro e del profitto?   

                 

 

 1 Per i parametri di riferimento si rinvia  ai  siti www.eurofound.ie (Fondazione Dublino) e www.ilo.org (International Labour Organization) e www.eurobarometer-conference.eu (Eurobarometro). Siti dai quali abbiamo ripreso i dati statistici citati nell’articolo.