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Il signor figlio (recensione)

di Severino Colombo - 13/03/2007

 

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Alessandro Zaccuri, Il signor figlio, Mondadori, 2007, 336 pag.

«Meglio è tacere una Storia, che narrarla ingombrata di fole». Il precetto del conte Monaldo Leopardi, padre di Giacomo, vorrebbe essere il sigillo su un vaso di Pandora che ha le sembianze di uno scatolone pieno di libri trovato in soffitta. Vorrebbe essere la parola «fine» che chiude per sempre una faccenda di eredità che non riguarda, però, titoli o monete piuttosto gloria e sapere. Ma ormai è tardi, tutto è gia accaduto («accade ancora e accadrà»). Il romanzo è compiuto e questa è solo la frase che chiude il volume, non la storia bensì i ringraziamenti dell’ autore. Del resto il titolo - Il signor figlio - parla chiaro: in questa storia che racconta di figli e di padri (e di figli divenuti a loro volta padri) sono i primi a lasciare il segno; ai secondi tocca di provare a mettere insieme i pezzi, cercare brandelli di verità tra le righe di missive scritte ad arte o tra i fili d’ erba di uno sterminato campo di battaglia.

L’ autore, Alessandro Zaccuri giornalista di «Avvenire» e conduttore televisivo, scrive da figlio; incrocia fatti storici e finzione insinuandosi abilmente nelle pieghe dei documenti e costruendo una trama solida e avvincente sull’ infido terreno della verosimiglianza. La vicenda parte da un assunto falso, una fola, annunciato sulla copertina del libro: «Leopardi non è morto. Vive a Londra. È il conte Rossi». È il 14 giugno 1837, a Napoli imperversa il colera, Leopardi è molto malato ma gli mancano le forze per abbandonare le umane spoglie. Così sul letto di morte resta solo la sua identità mentre quel corpo maledetto, continua a respirare altrove. Pochi giorni dopo Leopardi è a Londra dove, da esule, consuma questo supplemento di vita portando avanti un progetto folle e ambizioso: un’ opera che sia «macchina e pensiero nello stesso tempo, ingranaggio e intuizione», una liturgia laica - «ignota al mondo e proprio per questo necessaria» - di cui lui sarà l’ unico officiante.

La struttura narrativa del romanzo è complessa, ma si dimostra salda e senza cedimenti, grazie in particolare a una prosa armoniosa, duttile, quasi elastica che segue ovunque l’ autore, si affaccia sui miti dell’ antichità e si cala nelle viscere della madre terra. E va anche oltre perché è questa scrittura «fertile» - forse più che l’ effettiva esigenza della trama - a generare dalla storia principale, per analogia e per assonanza, altre storie di altri figli (lo scrittore Rudyard Kipling, il compositore Olivier Messiaen) e dei loro padri.

[pubblicato su Il Corriere della sera, il 4.3.2007]