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Nassiriya: quanto siamo stati bravi! (La fiction Fininvest)

di Jacopo Barbarito - 16/03/2007

 
 
La locandina della fiction «Nassiryia - Per non dimenticare»

Lo sceneggiato andato in onda su Canale5 lunedì 12 e martedì 13 marzo è stato l’ennesimo mezzo attraverso il quale il sistema imperante ha sancito - una volta di più - la bontà e la necessità
dell’«Operazione Antica Babilonia»; tuttavia si è trattato anche di un’occasione utile per tracciare un bilancio di tale operazione che per noi italiani si è conclusa ma, per la storia e per i soldati di diversi Paesi, e per gli iracheni in primis, è ben lontana da una conclusione e da una versione «definitiva».
Che tale fiction, liberamente ispirata alle vicende dei soldati italiani in Iraq [dettaglio ovviamente scritto in piccolo e nei titoli di coda, ossia letto dall’1% degli spettatori che sono rimasti in piedi davanti alla televisione fino alle 23 passate, dopo essersi «gustati» quattro o cinque interruzioni pubblicitarie, dato che il restante 99 % aveva spento il proprio apparecchio dopo la fine dell’ultima scena] abbia costituito il solito strumento di propaganda e giustificazione è sotto gli occhi di tutti: la cosa più strana, quasi paradossale, oserei dire, riguarda il modo in cui tale messaggio ha preso corpo.
Ci sono stati, infatti, una serie di elementi brutalmente realistici e sicuramente veritieri, insieme ad un’altrettanto vasta gamma di fantasiose elaborazioni.
Abbiamo assistito alla presentazione dei nostri esigenti alleati a stelle e strisce come tremendi sterminatori e cinici occupanti - ma allora perché stavamo dalla loro parte? - totalmente incuranti dell’opera di pacificazione successiva al crollo del regime di Saddam Hussein, quasi del tutto assenti nei cruciali processi di «normalizzazione» della vita quotidiana, a fronte della salvifica presenza dei Carabinieri i quali - loro sì per davvero - hanno lavorato, sudato sangue e sono morti per un mondo bello e giusto, per la fine della tirannia e l’instaurazione della democrazia.
Democrazia, che bella parola!
Un termine di cui tutti si riempiono la bocca, spesso senza essere neanche a conoscenza del suo reale significato.
Eh sì, perché dalla definizione giuridica del termine [si è tutti uguali di fronte allo Stato e si hanno pari opportunità di fronte ad esso - almeno in teoria] si arriva alla colossale mistificazione che ogni uomo - nei regimi democratici - è uguale all’altro, eliminando così ogni logica e naturale differenziazione e riconducendo tutto il discorso a quell’uguaglianza che tanto il comunismo [tutti uguali e tutti lavoratori al servizio dello Stato, ingranaggi di un sistema senza Dio] quanto il capitalismo [tutti cittadini consumatori, come oramai ci considerano anche i nostri ministri nei loro documenti ufficiali, quasi fossimo un branco di pecore con un solo fine - ed una sola fine] asseriscono.
Il messaggio di fondo è lapalissiano: abbiamo fatto bene ad andare in Iraq, abbiamo difeso la popolazione, costruito strutture, garantito la pace e le elezioni, abbiamo anche «salvato» la popolazione dal menefreghismo imperialista degli yankee!
Ma se, da un lato, è stato sacrosanto segnalare - e ricordare, per tutti gli smemorati - il terrorismo statunitense, con l’unico interesse connesso di abbattere un regime ostile - solo ora! – e di impadronirsi delle ricchezze petrolifere, fregandosene del resto e soprattutto dei civili, assolutamente fuori luogo ed assurda è stata la rappresentazione di un’»ostilità» tra i nostri comandi e quelli degli alleati americani.


In primo luogo perché noi siamo andati in Iraq non certo per nostra spontanea volontà, ma per ordini impartiti dall’alto, in secondo luogo perché - proprio a causa di questa posizione subordinata - non ci sarebbe stato permesso né di alzare la voce (vedi i casi del Cermis o dell’agente Calipari), né di assurgere ad un ruolo tale da offuscare la posizione statunitense.
Il discorso su ognuno di questi punti è certamente ampio e può dare adito a diversi tipi di interpretazione; ciò malgrado vorremmo sottolineare una serie di appunti e di spunti, a volte polemici, che ci sono balzati agli occhi durante la visione del filmato.
Scrivere la storia della nostra missione in Iraq in questo momento è stato, senza dubbio, un atto prematuro per una moltitudine di motivi piuttosto ovvi: fra questi spicca necessariamente la volontà di dare una forma alla storia in un momento in cui essa è tutt’altro che definita e definibile, sfruttando la sostanziale ignoranza e carenza informativa di quel che è stata davvero la nostra partecipazione in Iraq. Anche il sottotitolo è stato, di per sé, paradossale: «per non dimenticare».
Fino a poco tempo fa tale roboante affermazione era riservata solo ai prodotti inerenti la Shoah; adesso invece si sta diffondendo a macchia d’olio per «gratificare» tutte quelle imprese e situazioni che - ci dicono - hanno contribuito al bene della storia!
Così passiamo dalla Shoah, al processo di Norimberga, all’11 settembre, all’esecuzione di Saddam e all’Operazione Antica Babilonia.
Strani parallelismi!
Ovviamente tale etichetta è ben lontana dal ricordare la guerra del Vietnam, le invasioni sioniste, le guerre imperialiste, le Foibe o le guerre civili che dilaniano interi Paesi alimentate dagli interessi capitalistici: quelle no!
La gente che le ha subite non ha diritto di essere ricordata.
Vengono certamente prima 18 carabinieri - truppe di occupazione - che si sono scontrate con chi ha deciso di non piegare la testa e di non collaborare.
Operato italico peraltro piuttosto dubbio e, per tanti versi, infruttuoso.
Si pensi già all’idea stessa dell’operazione di peacekeeping, con il suo «primo comandamento» di non sparare per primi perché noi siamo i buoni, ma andandolo a fare provocando una reazione così da essere moralmente a posto con la coscienza.
Sicuramente lodevole è stata poi la messa in scena di una serie di fatti e situazioni estremamente realistiche: dalla constatazione dell’elevato spirito umanitario di americani e di inglesi - i quali licenziano gli iracheni e lasciano marcire cibi e bevande - alla constatazione del fallimento della coalizione per quanto riguarda il mantenimento dell’ordine pubblico, così come dell’addestramento di una polizia locale davvero affidabile tanto quanto la reale assenza di miglioramenti per la vita dei civili dopo la fine del regime di Saddam.


La situazione dei civili, lo abbiamo visto tutti, era pessima: niente lavoro, faide interne per motivi religiosi, potere ai boss locali, cessazione del controllo statale, insufficienza economica e produttiva, esproprio della sovranità e dell’indipendenza: della serie, si stava meglio quando si stava peggio! Messaggio subliminale di questo contesto?
Semplice: solo noi siamo la salvezza per il popolo iracheno, per cui se ci rimaniamo - magari anche a lungo - non è affatto male.
Proprio quello che l’asse USA/Israele ha in mente.
Dopo la serie di scene che hanno dunque visto lo spreco di aiuti umanitari, la pessima condizione dei civili, le conseguenze dell’occupazione della coalizione, l’assenteismo dei gendarmi del mondo sui problemi da loro stessi causati - elezioni da loro controllate ed imposte in primis - assistiamo alle vicende dei nostri paladini i quali, per aumentare il tono patetico, ancora non hanno imparato l’italiano - siamo rimasti ai tempi della prima guerra mondiale si vede - e non sanno nemmeno loro perché sono là, ovviamente con una cronica assenza di mezzi e personale - retaggio, questo sì, della seconda guerra mondiale.
I nostri sono stati poi amati a tal punto che come ringraziamento hanno ricevuto una serie di pallottole di vari calibri davvero notevole e la cosa fa pensare che - presumibilmente - il nostro lavoro non è stato troppo apprezzato, salvataggio delle tavolette di Uruk a parte.
Che ci abbiano visti come anello debole della catena?
Meno male che ci trovavamo in una delle zone più tranquille dell’Iraq pacificato, altrimenti ci avrebbero fatto a fettine! Un po’ come sta accadendo ai cow boys americani…
Ma non è colpa loro! Sono i fondamentalisti islamici!
Sono quei «fascisti» islamici che non capiscono nulla e sono pazzi scatenati, quasi abbiano inventato loro Abu Graib o Guantanamo.
Così ci è tornata in mente la frase di Pound che diceva che chi non ha il coraggio di morire per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale nulla lui.
Ma il punto è che fa più danni il cosiddetto terrorista che la mafia locale o la polizia pseudo collaborazionista.
Forse non ci si accorge che sono tutte facce di una stessa medaglia.
Una medaglia dove c’è scritto: andatevene.
Dulcis in fundo è stato poi l’immancabile accento patetico, tipicamente italiano, che serve per far stare incollate le signore di mezza età al teleschermo o a far sognare i bambini di andare a combattere per la pace e la democrazia.


E non ci hanno evitato nemmeno la storia d’amore fra il soldatino italiano e la soldatessa americana - ora anche le donne combattono in prima linea, potenza della parificazione dei diritti - stroncata sul nascere dalla furia omicida dei cattivoni di Al Qaeda!
Non una parola sulle migliaia di storie di vita reale stroncate dai bombardamenti del mondo «civilizzato».
Speriamo che le vicende inerenti lo scoppio del camion con l’esplosivo alla base «Maestrale» non si siano svolte proprio in questo modo, con tutti i nostri militari presi dalle foto ricordo e dalle interviste, come se si fossero trovati in un villaggio Valtour.
Si sarebbe trattato davvero di una bella caduta di stile.
Il rispetto per chiunque muoia facendo il proprio dovere non lo si rifiuta a nessuno: anzi, uomini del genere - nella loro persona - sono da ammirare.
Troppo comodo però utilizzare la loro triste sorte per giustificare una missione di occupazione e di guerra usando il loro sacrificio da presentare all’opinione pubblica come atto di eroismo da condividere sull’altare della patria.
Forse l’unico ricordo che può unire la nostra nazione e far levare le giuste lodi per i caduti italiani, per non dimenticare davvero il sacrificio di quei soldati - spesso giovani meridionali costretti da esigenze economiche alla partenza - è quella bandiera della Repubblica Sociale che emerse dalle macerie della base sventrata, appesa sopra il letto di uno dei soldati.
Ricordare quel pezzo di stoffa, brandello d’onore di ieri, per molti ancora un vessillo, sarebbe stato davvero rispettare ed umanizzare dei soldati in tutta la loro persona, non solo quando dovevano parlare con mogli e parenti.