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Divide et impera. Iraq: il declino sunnita in un paese balcanizzato

di Giacomo Catrame - 25/11/2005

Fonte: Umanità Nova

L'estate 2005 sarà ricordata a lungo negli annali delle occupazioni di un paese da parte di una grande potenza, e non certo per i successi che quest'ultima ha mietuto tra il Tigri e l'Eufrate. Il numero di morti tra gli occupanti americani è salito vertiginosamente appaiando quello record del marzo del 2004 quando la guerriglia riuscì a sferrare i suoi attacchi più riusciti, mentre non si contano più i morti tra le file della ricostituita polizia locale e del ricostruito esercito iracheno. A questi numeri si sono aggiunti i mille morti provocati tra la folla sciita in festa per la ricorrenza dell'Ashura (che ricorda la sconfitta da parte della dinastia degli Omayyadi di Alì, l'ultimo discendente diretto del profeta Muhammad, e unico che avrebbe potuto legittimamente occupare il posto di "guida dei credenti") dalle voci sparse ad arte sulla presenza di kamikaze pronti a farsi saltare in mezzo ai pellegrini. Il fatto non era vero ma, le conseguenze drammatiche che ne sono derivate sì, e questo basta a chiarire quale sia il clima che si respira nel paese tra il gruppo confessionale più numeroso. L'alleanza dei partiti sciiti con le forze di occupazione USA ha avuto come conseguenza per la popolazione appartenente a questa comunità confessionale il fatto di trovarsi direttamente nel mirino di una guerriglia che risulta in crescita nel numero degli effettivi, nel peso politico e nelle simpatie da parte della popolazione appartenente alla comunità sunnita.

La guerriglia al suo interno sembra avere mutato profondamente i propri rapporti di forza e la propria composizione: se per tutto il primo anno e mezzo di resistenza all'occupazione americana le forze più significative erano di ispirazione nazionalista e, al limite, panarabe nella tradizione del primo Ba'at, da almeno sei mesi assistiamo a un progressivo predominio delle forze legate alla rete internazionale del fondamentalismo islamico: quella che la scarsa fantasia dei cronisti occidentali continua a chiamare al 'Qaida e della quale, invece, l'organizzazione di famiglia dei Bin Laden non è altro che una delle componenti semplicemente più famosa conseguentemente alla riuscita dello spettacolare attentato dell'11 settembre. Siccome la pubblicità non è l'anima solo del commercio ma anche della politica, questo successo ha indotto i giornali occidentali a praticare l'arte del confondere la parte per il tutto (come figura retorica si tratterebbe di una metonimia), e i gruppi fondamentalisti ad utilizzare tutti il nome di quello tra di loro che aveva assunto fama mondiale.

Così il famoso guerrigliero al 'Zarqawi non è assolutamente un "luogotenente" di Bin Laden quanto un attore politico locale che ha assunto i rapporti avuti con lo sceicco saudita di origini yemenite a marchio di fabbrica delle sue azioni, ottenendone un'amplificazione oltre l'immaginabile. Quello che sembra invece essere comune all'insieme di gruppi che nel mondo islamico e nella stessa Europa combattono la supremazia occidentale sotto la bandiera della religione, sono i canali di finanziamento: la finanza araba, i sauditi e i servizi segreti pakistani. L'uovo del serpente è evidentemente lì, ma lì gli strateghi della millenaria "guerra al terrorismo" non vogliono e non possono guardare, pena l'instabilità del mercato petrolifero, il barile sopra i 100 dollari e il rischio di perdere il controllo dell'unica atomica islamica. Alla Casa Bianca sanno fare i propri calcoli e uno scontro frontale di questo genere con questo tipo di rischi preferiscono evitarlo, a costo di prolungare indefinitamente la presenza in Iraq e i combattimenti in Mesopotamia.

Il predominio della componente religiosa su quella nazionalista dipende proprio dai mezzi che la prima ha e dai quali può attingere a differenza della seconda. Quest'ultima è stata effettivamente messa in crisi dall'offensiva americana contro il triangolo sunnita e dalla caduta di Samarra e Ramadi che sono costate più vite irachene di tutto il resto della guerra. Senza l'elemento comunitario e tribale fondante del legame partitico che aveva tenuto insieme l'Iraq, la guerriglia nazionalista non ha respiro strategico e manca dell'acqua dove nuotare. Con questa, inoltre, Washington ha cercato di trattare come dimostra la liberazione di mille detenuti iracheni del campo di concentramento di Guantanamo, tutti appartenenti all'ala nazionalista della guerriglia, avvenuta a settembre, ma ha successivamente deciso di tornare alla repressione più diretta e feroce come dimostrano le offensive lanciate a fine ottobre contro la rete di villaggi e cittadine sunnite al confine con la Siria.

Nello specifico gli Stati Uniti hanno cercato di ottenere con la liberazione dei prigionieri l'assenso dei partiti sunniti rappresentati in Parlamento alla costituzione scritta e voluta dai partiti sciiti e da quelli curdi. Il mancato accordo, nonostante la posizione possibilista del più importante dei partiti sunniti iracheni, il Partito Islamista Iracheno, ha determinato la rottura delle trattative e il colossale broglio elettorale messo in scena per negare che il No alla costituzione avesse ottenuto più del 75% dei voti in tre province, come previsto dalle astruse regole elettorali per bocciare la carta fondamentale del paese.

La comunità sciita e quella curda controllano già i posti chiave dell'amministrazione, la Presidenza della Repubblica (Talabani, leader curdo dell'UPK), quella del Consiglio e le risorse energetiche del paese, vera ricchezza dell'Iraq. Inoltre mentre i partiti sciiti controllano di fatto la Polizia e l'Esercito nazionali, i partiti curdi hanno ottenuto di poter mantenere il controllo armato del proprio territorio e quindi il non scioglimento delle loro milizie armate. Quest'ultimo accorgimento è stato fortemente appoggiato dagli USA che, non a torto peraltro, ritengono per il futuro poco affidabili gli alleati sciiti e preferiscono poter contare per ogni evenienza su una comunità compatta, coesa, di ceppo etnico non arabo e armata fino ai denti per mantenere il controllo del paese.

La Costituzione non è stata comunque votata dai rappresentanti sunniti perché il suo impianto è rimasto fortemente federalista. Il senso di tale federalismo è quello di dotare i curdi e gli sciiti di una base di appoggio per mantenere il controllo dei territori (e delle ricchezze da questi contenute) che già oggi controllano di fatto. Dal momento che il nord curdo e il sud sciita sono anche i territori sotto i quali si nascondono i giacimenti che fanno dell'Iraq il secondo produttore mondiale di petrolio in potenza, l'ovvia conseguenza è la precipitazione in povertà e senza alcun potere della comunità sunnita la cui élite fino ad ieri aveva controllato il paese. A partire da queste basi è evidente che una guerriglia in evidente difficoltà davanti al protagonismo degli islamisti e una rappresentanza politica stretta tra i ricatti degli occupanti e le minacce di morte dei propri referenti, non potevano che rifiutare le profferte degli USA che non avrebbero fatto altro che controfirmare l'avvenuta decadenza della loro comunità.

Gli Stati Uniti con l'approvazione di questa Costituzione hanno dato un altro segnale di quale sia la soluzione che Washington ritiene definitiva per il mondo arabo e il Grande Medio Oriente in generale. Il federalismo in paesi la cui tradizione politica è sostanzialmente mediata dalle comunità etniche, da quelle religiose e dall'elemento clanico e tribale, non può che tradursi in un comunitarismo radicale dove ogni élite locale otterrebbe la rappresentanza esclusiva della popolazione definita su base comunitaria e confessionale e dove gli scontri interni per guidare questa stessa degenererebbero in forme di guerra mafiosa permanente. Dal punto di vista degli Stati Uniti e dell'Occidente in generale questo è il modo migliore per avere a che fare con classi dominanti fortemente spaccate tra di loro, più propense ad accordarsi e a vendersi ai poteri stranieri che a costruire un efficace potere nazionale unitario capace di trattare quasi da pari a pari. La massima balcanizzazione e la valorizzazione dei poteri tribali per continuare a mantenere un dominio assoluto e incontrastabile sulle risorse del grande Medio oriente e su quelle dei corridoi eurasiatici.

Il potere acquisito dalla componente sciita e la sua capacità di manovra però rischia di diventare un nuovo elemento di preoccupazione per gli Stati Uniti in Iraq soprattutto in relazione ai rapporti del paese con l'Iran. 

Nel corso dell'Estate è avvenuta la visita del Ministro degli Interni iraniano in Iraq dove ha incontrato il Presidente del Consiglio. Tale visita è la prima fatta da un'autorità a tale livello del paese che combatté con l'Iraq per otto anni una guerra tra le più feroci, dagli anni Cinquanta ad oggi. Inoltre non si avevano contatti diplomatici tra i due paesi fin dal 1975, anno della composizione pacifica del conflitto sullo Shatt el-Arab. 

La visita di stato non è servita solo a riallacciare i contatti tra i due vecchi nemici, ma a sancire il nuovo ruolo dell'Iran come principale alleato del "nuovo Iraq" in Medio Oriente. Gli iraniani si sono impegnati a fornire aiuti economici e ad addestrarne la Polizia. Quest'ultimo compito, nei piani americani di coinvolgimento NATO nell'occupazione, sarebbe dovuto andare in mano ai tedeschi. L'assoluta intransigenza americana nel disegnare gli spazi di influenza occidentale in Medio Oriente ha comportato il fallimento di tale progetto. In questo vuoto si è inserito l'Iran, forte del suo lavoro di blocco delle infiltrazioni favorevoli alla guerriglia e del suo rapporto privilegiato con la leadership sciita irachena e con quella curda. Quest'ultima, infatti, è da sempre in buoni rapporti con l'Iran ed evita di appoggiare in qualsiasi modo i curdi iraniani nelle loro richieste di autonomia da Teheran. Il partito di Barzani, non meno di quello di Talabani, hanno goduto a lungo di appoggi sia israeliani che iraniani nella loro lotta contro il potere centrale iracheno. Per opposte ragioni, infatti, sia Tel Aviv che Teheran necessitano di non avere vicini arabi forti. Il cambio di regime in Iran tra lo Shah e la repubblica islamica non ha mutato molto questo scenario, aggiungendovi solo un po' di segretezza in più dal momento che i due nemici giurati Israele e Iran non possono certo ammettere di avere interessi coincidenti.

Il riavvicinamento Iran-Iraq mette in crisi questo quadro e non è certo a caso che l'Unione Europea e gli Stati Uniti abbiano impresso un colpo di acceleratore al tentativo di mettere sotto processo Teheran per i suoi tentativi di dotarsi delle conoscenze necessarie per lo sviluppo dell'energia atomica. Il nodo non è il possesso o meno di armi nucleari da parte dell'Iran, ma la possibilità che Teheran sviluppi le conoscenze necessarie a produrle in futuro essendo per di più una potenza non più sotto assedio, ma dotata di salde amicizie tra i propri vicini. Per ottenere questa situazione gli iraniani sono pronti a tutto, anche a fare concessioni economiche assolutamente in perdita al proprio vicino ridotto in miseria da dieci anni di embargo e più di due di occupazione feroce. Gli iracheni lo sanno e stanno utilizzando la carta iraniana anche per mettere sotto pressione Washington che finora non si è molto preoccupata di investire nelle infrastrutture civili del martoriato paese. Il gioco di tutti i contendenti è in questo momento estremamente pericoloso e portato molto vicino alla linea di non ritorno. Se seguirà un'altra guerra in Medio Oriente, molto più feroce e sanguinosa di quella in atto in Iraq, solo il tempo potrà dirlo. Quello che è certo è che i protagonisti locali sono sempre più spinti da Washington a muoversi in modo da fornire all'America il pretesto per scatenarla. Anche se, ormai è evidente, gli strateghi di Washington non avrebbero la minima idea di come vincerla davvero, cioè sul come imporre alle classi dominanti locali un ordine complessivo che permetta agli USA di continuare indisturbata la propria rapina di plusvalore.

Umanità Nova, numero 37 del 20 novmbre 2005, Anno 85