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Il sacro (I parte)

di Umberto Galimberti - 23/03/2007

 


 

Oggi pomeriggio parliamo di una dimensione che ci fa vedere in qualche modo all’origine dell’uomo; è ciò da cui l’uomo si è potentemente difeso e che continua ad operare e che io ipotizzo essere il vero antagonista dell’apparato tecnico, che non  è la buona volontà degli uomini, non  il loro romanticismo, non  la loro nostalgia dell’umano come l’hanno conosciuto, non  tutte le cose nelle quali noi collochiamo le nostre “speranze”.

Il vero antagonista della tecnica io lo chiamo sacro, il sacro.

Sacro è una parola indoeuropea che noi traduciamo con “separato” e fa riferimento alla potenza che gli uomini hanno avvertito come superiore a loro e perciò collocata in  uno scenario “altro” a cui hanno dato il nome di sacro, successivamente di “divino”. In questo scenario Dio è arrivato con molto, molto, molto ritardo. Cerco di indicare una terminologia in modo che nessuno identifichi il sacro con Dio. Si tratta di potenze che l’uomo ha avvertito come superiori a sé e ha collocato in una regione “altra”, denominata appunto “sacralità”. Sacralità è una parola ambivalente che vuol dire al contempo, benedizione e maledizione: tutte le parole che oltrepassano l’umano sono parole ambivalenti. Stante la natura ambivalente di questa dimensione, ambivalente è anche il rapporto che l’uomo stabilisce con il sacro: da un lato  lo teme come si può temere ciò che si ritiene superiore e che non si è in  grado di dominare e dall’altro ne è attratto come si è attratti dall’origine da cui un giorno ci si è emancipati.

Il sacro è una dimensione perdurante nella condizione umana, può essere rimosso, invocato, temuto, dimenticato addirittura, ma opera comunque. Per difenderci dal sacro sono nate le religioni, le quali, non sono dimensioni che ci mettono in rapporto con il sacro bensì ce ne difendono.

La parola religione significa relegare, recintare, contenere e le religioni hanno fatto una grande operazione di contenimento della dimensione sacra, un contenimento di natura spaziale nel senso che lo spazio del sacro è uno spazio recintato come può essere recintata una fonte sacra, un albero sacro, perchè il contatto con il sacro è un contagio, è qualcosa di estremamente pericoloso, dagli effetti sostanzialmente imprevedibili. Ci sono dei tempi sacri che sono rigorosamente determinati dall’ordine religioso e si chiamano giorni festivi. La festa non si pone in  linea con il giorno feriale che è il giorno umano, il giorno del lavoro, il giorno della razionalità, il giorno dell’assunzione, il giorno della responsabilità. Il giorno festivo è il giorno della dissipazione. Nei giorni festivi, anche nelle nostre tradizioni, si consuma oltremisura, si uccidono gli animali che si sono allevati, si fa festa e si consentono le trasgressioni, da quelle alimentari a quelle sessuali fino a quella immagine della cultura romana come ad esempio i Saturnali, dove si trasgredisce perfino l’ordine gerarchico: per il periodo della festa gli schiavi diventano padroni, i padroni diventano schiavi. Si sconvolge un ordine, si entra in una sfera sacrale ed è per questo che tutte le feste sono rigorosamente comandate da chi ha il potere di concedere una sorta di contatto con la dimensione sacrale. A presiedere questo territorio sono i “sacerdo”, cioè coloro che hanno una certa dimestichezza col sacro, con un piede fuori dalla zona sacrale, lo regolano, lo mediano, ne consentono il contatto (contagio) e liberano dal contagio/contatto coloro che ne sono eccessivamente immersi.  Se vogliamo definire questa dimensione sacrale dovremmo darne una definizione per difetto, una definizione in negativo perché con le definizioni siamo  già nella sfera umana, siamo già nei giorni feriali, negli spazi desacralizzati. Potremmo dire che il sacro è l’indifferenziato e l’indifferenziato è quello scenario all’interno del quale non è possibile reperire delle differenze, delle distinzioni.

La differenza, la distinzione è ciò che ci consente di nominare le cose e di trattarle secondo un significato univoco. Se io, per esempio, prendo in mano un bicchiere, nessuno dei presenti si agita perché tutti ritengono che io stia alla definizione di bicchiere. Il bicchiere, secondo la definizione convenuta, è uno strumento per bere, anche se non è vero che sia solo questo. Definizione vuol dire che lì finisce il suo significato, ma io potrei prendere in mano questo bicchiere e usarlo come arma impropria; questo ci lascia intendere che tutte le cose sono immerse in un’aria sacrale, ovvero in un’aria indifferenziata, sono disponibili per mille significazioni e non sono contenute in un unico significato, che è quello che una comunità consegna alle cose per due ragioni; la prima è per ridurre l’angoscia e rendere prevedibili i comportamenti. È chiaro che, se io prendo in mano questo bicchiere e nessuno si agita, si suppone che io tratti il bicchiere secondo quello scenario di possibilità che è la sua funzione di far bere. Quindi la definizione, la differenza, la determinazione per cui il bicchiere è il bicchiere e non altro, è una condizione che consente la quiete dei comportamenti, la loro prevedibilità. E oltre alla prevedibilità dei comportamenti, la definizione, la determinazione, la differenza consentono anche di nominare le cose secondo un significato universale, per cui se io dico: “portami un bicchiere” e mi portano un bicchiere e non un microfono è in virtù del fatto che bicchiere vuol dire bicchiere e non altro.

Continua...

Le altre tre parti che compongono la lezione saranno pubblicate prossimamente.


Tratto dall'articolo IL SACRO o LA DIMENSIONE SIMBOLICA, trascrizione di una lezione di Umberto Galimberti alle Vacances de l'Esprit 2006 e comparso sulla rivista Antiche e moderne vie d'illuminazione, periodico dell'associazione ASIA, nel n. 27 Dicembre 2006