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La decrescita e il comune sentire

di Marco Cedolin - 28/03/2007

Fonte: decrescitafelice

 

 

Vorrei proporre una breve riflessione avente come oggetto l’interazione fra il concetto di decrescita e il pensiero della “gente comune” intesa non in senso spregiativo ma semplicemente come l’insieme di quelli che saranno giocoforza i nostri interlocutori.

Credo sia opinione da tutti condivisa quella secondo cui ogni progetto di decrescita che abbia la presunzione di trasmigrare gradualmente dallo stadio teorico a quello pratico debba passare per forza di cose attraverso la “cruna dell’ago” della decolonizzazione dell’immaginario collettivo.

Il sentire comune è stato “inquinato” in maniera difficilmente reversibile da molti decenni di martellamento ossessivo, portato avanti tanto dagli organi d’informazione, quanto dalla macchina pubblicitaria e dall’insegnamento scolastico. L’assoluta indispensabilità di aumentare il PIL nazionale, di costruire crescita economica, d’incrementare i consumi e gli scambi commerciali, in buona sostanza di consumare e produrre sempre di più è diventata parte integrante del bagaglio culturale (o se preferite sub culturale) della stragrande maggioranza delle persone in età compresa fra i 10 ed i 60 anni. Le chimere dello “sviluppo” e della crescita economica si sono diffuse come un mantra, legandosi indissolubilmente ai concetti di progresso e benessere economico che hanno finito per costituire il fine ultimo della stessa esistenza umana. La tecnologia e la scienza sono state mitizzate nella loro onnipotenza, finalizzata unicamente al sempre migliore funzionamento degli ingranaggi di produzione e consumo. La presenza dell’economicismo è immanente in tutte le attività umane, al punto che il nostro operato viene considerato “lavoro” solamente qualora retribuito in denaro e, come ricordava Maurizio, gli stessi beni assumono agli occhi dei più tale caratteristica solamente quando rivestono il ruolo di merci. Ogni aspetto della vita, perfino i sentimenti, i rapporti sociali, la salute, tendono ogni giorno di più ad essere monetizzati.

La crisi economica ed occupazionale aggravatasi negli ultimi anni ha generato in molti strati della popolazione un decremento delle possibilità di consumo (nonostante il ricorso al credito abbia in parte supplito a questo deficit)  che ha iniziato ad ingenerare malcontento. Il decentramento di molte produzioni nei paesi del terzo mondo con conseguente crescente disoccupazione o sottoccupazione, unitamente alla netta progressiva diminuzione del potere di acquisto dei salari, stanno riducendo ulteriormente le possibilità di consumo delle popolazioni, mentre al contempo la pubblicità ed i media spingono le stesse ossessivamente a consumare di più. Il malcontento cresce (in molti casi anche a livello latente sotto forma di frustrazione) e lo spettro della recessione appare sempre più tangibile in quanto non esiste peggiore prospettiva di quella concernente una società finalizzata al consumo per il consumo, alla quale manchi la possibilità di consumare.

La politica, i media, gli economisti e gli esperti propongono come “medicina” per questo stato di cose la stessa ricetta che ha contribuito ad ingenerare la malattia. Occorrono investimenti miliardari nelle infrastrutture (per trasportare cosa ed a quale scopo?) nell’innovazione e nello sviluppo industriale finalizzato alla produzione di beni di consumo, occorre ingenerare un aumento del PIL, della produzione e dei consumi, occorrono sacrifici per immettere nuova benzina nel serbatoio di quella macchina dall’appetito insaziabile che è la crescita infinita.

Sullo sfondo di questa situazione che sta degenerando si muovono le notizie, spesso distorte, concernenti i livelli d’inquinamento ormai devastanti raggiunti in molte parti del globo, i mutamenti climatici già in atto o prossimi a venire, la prospettiva imminente dell’esaurimento dei combustibili fossili, il sostanziale stato di grave malattia, destinata ad aggravarsi sempre più, che affligge l’ecosistema terra.

 

Il comune sentire della gente riflette giocoforza tutte le componenti che ho riassunto in queste poche righe ed è con le “persone normali” che saremo chiamati a confrontarci se intendiamo dare alla decrescita una dimensione pratica che consenta di coinvolgere in un progetto di questo genere strati sempre più vasti di popolazione.

Credo sia logico porsi a questo riguardo tutta una serie d’interrogativi:

come riuscire nell’intento di decolonizzare l’immaginario collettivo da dogmi e certezze radicatisi in profondità nel corso di decenni?

Come riuscire a far comprendere ai più la necessità di uscire dal paradigma dell’economicismo?

Come proporre concretamente una strada di “decrescita felice” senza che sia interpretata come sinonimo di quella recessione il cui spettro terrorizza la gente certo più degli stravolgimenti climatici?

Come “entrare” nel sentire comune evitando di rimanere confinati nel ruolo di una piccola elite di personaggi che marciano controcorrente predicando modelli di vita impraticabili?

Come rivolgere il malcontento a nostro favore dimostrando che un’altra strada è possibile, mentre quella della crescita infinita porta inevitabilmente sul fondo di un burrone?

Come riuscire a far comprendere che la decrescita è l’unica via in grado di porre rimedio alla marcescenza che sta annientando il nostro ecosistema?

 

Gli ottimi esempi del vasetto di yogurt e dell’autoproduzione del pane portati avanti da Maurizio sono un primo passo, così come la prospettiva della costruzione di case poco energivore e dell’incentivazione dei meccanismi di produzione/consumo di prossimità, ma credo si debba fare molto di più.

Dobbiamo sempre pensare che i nostri interlocutori sono quella gente comune a cui ho fatto riferimento, spesso vivono dentro condomini (magari fatiscenti, magari in affitto) e l’autoproduzione sembra loro qualcosa di alieno, spesso sono così strangolati dal meccanismo lavoro/consumo/doppio lavoro, da avere a malapena il tempo di una spesa veloce al supermercato, spesso non leggono o leggono pochissimo e traggono godimento da beceri programmi TV o dall’uso smodato del telefonino, spesso hanno sostituito il pensiero con lo shopping compulsivo o più semplicemente non hanno gli strumenti per assimilare argomenti così lontani dalla loro realtà.

Credo che quella di uscire dallo stato di mentori di una strana teoria, per entrare a far parte del sentire comune, magari modificandone nel tempo le prerogative di base, sia la vera sfida che ci attende. Gli atteggiamenti, gli esempi, il modo di porci, la capacità di farci comprendere fino in fondo, sono gli elementi di questa sfida e credo possano costituire un interessante argomento di discussione e confronto nel corso del seminario.