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Taranto che muore, e muore soffrendo per la diossina

di Alessandro Iacuelli - 11/06/2007

 

I dati numerici parlano chiaro: in tutta l'Europa, vengono emessi in atmosfera 800 grammi di diossina all'anno. Di questi, 71 provengono dall'impianto ILVA di Taranto: l'8,8 per cento del totale europeo e il 30,6 per cento di quello italiano. Dati noti dal 30 marzo scorso, ma da allora ad oggi non è cambiato nulla. Anzi. Taranto muore, e muore soffrendo. Muore per la diossina proveniente da uno stabilimento che, secondo le normative europee, non potrebbe emettere quel che emette quotidianamente dai suoi camini. Invece in Italia può farlo, e con tanto di autorizzazioni speciali in deroga alle norme vigenti: emette diossine centomila volte più di un inceneritore, autorizzata a farlo. Come è possibile che esista un simile impianto? Esiste grazie ad un ricatto molto preciso: quello del lavoro. In passato si è scelto di esporre la popolazione ad un enorme rischio sanitario, destinato a peggiorare progressivamente ed inesorabilmente negli anni, in cambio di 4.000 posti di lavoro e di uno sviluppo industriale che viene reputato l'unica strada percorribile.

Oggi, a distanza di anni, alla città sono state riconosciute delle royalties, cioè delle risorse in denaro messe a disposizione per prevenire i danni provocati da grandi industrie inquinanti, discariche e opere pubbliche con un rilevante impatto ambientale. Royalties che sono frutto di un accordo volontario tra industria ed enti territoriali, ma anche una ben magra consolazione per una popolazione che continua ad ammalarsi. Poi, le royalties non sono ancora state usate ed ancora oggi si discute di come investire questi soldi, questa compensazione del rischio corso dalla gente.

C'è poco da compensare, in realtà. Si tratta di una famiglia di sostanze, quella delle diossine, caratterizzate da una bassissima biodegradabilità e da un alto fattore di accumulo nei grassi degli organismi viventi, che non sono in grado di metabolizzare tali molecole. Pertanto, possono solo aumentare nel tempo, andando a colpire fasce sempre più estese di popolazione ed anche le future generazioni. Quali royalties potrebbero mai compensare qualcosa del genere? Gli effetti della diossine si manifestano nell’apparato endocrino e riproduttivo e, in misura molto minore, provocano tumori. I valori allarmanti sono relativi a due tipi di sostanze. Le PCDD (policlorodibenzo-p-diossine) ed i PCDF (policlorodibenzo-p-furani).

Lo scorso 5 aprile, il settimanale L'Espresso ha pubblicato un’articolo di denuncia in cui evidenzia la forte concentrazione di diossina nella zona di Taranto. Dal mondo politico nessuna risposta, eccettuata quella del senatore Fernando Rossi (ex Pdci), che ha presentato un’interpellanza al governo nazionale. Così, mentre l’Europa ci invita a fissare limiti più severi, in Italia addirittura con un apposito decreto del 2006 è stato predisposto un "vestito su misura per l’ILVA", che le ha consentito di produrre 100.000 volte più diossine PCDD e PCDF per metro cubo rispetto a un inceneritore.

A tale proposito, l’Arpa della Puglia dichiara che se l’Ilva volesse potrebbe, senza violare la legge, ulteriormente aumentare le proprie emissioni di diossina in atmosfera. Ci sarebbero potuti essere anche i risarcimenti dei danni ambientali derivanti dai processi in corso contro l'ILVA, ma comune e provincia di Taranto non si sono mai costituiti parte civile.

Solo dal prossimo 11 giugno le emissioni saranno monitorate, grazie ad un protocollo di intesa siglato da ILVA, Regione, ARPA, USL, istituzioni locali. Mentre la politica continua a discutere di destinazione delle royalties, se investirle in ricerca scientifica - come vorrebbe il candidato della sinistra alle elezioni comunali Ezio Stefàno - o nella realizzazione di un nuovo polo siderurgico. Appare ovvio che andrebbero usate, se bastassero, ad una bonifica ambientale, ma solo a patto di eliminare la possibilità di nuove emissioni.

Nel frattempo, il bresciano Emilio Riva, attuale proprietario dell'Ilva, da un lato non contesta i valori delle emissioni, ma dall'altro ha già annunciato pubblicamente, scrivendo a giornali, enti locali e perfino al Ministero delle Attività Produttive, di minacciare un taglio di 4.000 dipendenti, su un totale di circa 12.000, nel caso in cui il suo impianto debba adeguarsi per rispettare il protocollo di Kyoto e ridurre il carico inquinante.

Il governo nazionale lo ha assecondato e non mostra di cambiare atteggiamento. Sarà forse la nuova potenza della siderurgia, in ripresa sul mercato mondiale al punto che l'Ilva è passata in breve da 6 a 10 milioni di tonnellate di acciaio prodotto. Secondo alcuni analisti finanziari, nel 2007 la produzione di acciaio tarantina andrà ancora meglio perché Riva ha chiuso, dopo una lunga battaglia ambientalista, il suo stabilimento a Cornigliano (Genova) e conta di trasferire i reparti che producono "a caldo", i più pericolosi, proprio in Puglia, per un totale di altri 2,5 milioni di tonnellate di acciaio prodotto. E le logiche di rispetto della salute dei cittadini? Tanto peggio per loro: sono deleterie per il profitto industriale.